Perché il cielo è blu? Tanto spontanea e naturale è la domanda che si è presentata agli uomini fin dall’antichità, quanto difficile è la risposta se, come dice Peter Pesic nell’introduzione al suo libro («L’azzurro in una bottiglia. Scienza, arte e storia del colore del cielo», Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 236, € 25,00.), ancora oggi non abbiamo completamente compreso perché il cielo ci appaia proprio così com’è. Un enigma che ha affascinato i filosofi del mondo antico e i protagonisti della rivoluzione scientifica, fino ai fisici e agli astronomi del secolo appena concluso.
Nel racconto di Pesic le teorie di filosofi e scienziati si intrecciano con le idee degli artisti sulla natura dei colori. Come Leonardo che, a proposito del colore del cielo, scriveva «l’azzurro in che si mostra l’aria, non esser suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili attimi, la quale piglia dopo sé la percussion de’ razzi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre». O come Goethe che, cercando invano risposte nello spirito della Naturphilosophie, pensava che la «mente ristretta» di Newton avesse costretto la luce del giorno nella «tenebrosa camera delle torture empiriche» fatte con prismi e lenti.
Con i suoi esperimenti Newton aveva rivelato la natura composta della luce del sole, ma non era riuscito a sciogliere l’enigma del colore del cielo. Leonardo non era il solo a pensare che quel colore fosse causato da particelle di qualche natura sospese nell’aria.
A questa teoria si contrapponeva l’idea che il blu che tanto affascinava i poeti romantici fosse invece causato dall’aria stessa. Entrambe le spiegazioni andavano incontro a serie difficoltà, che alimentarono interminabili controversie: se si tratta di particelle, qual è la loro natura, e come possono restare sospese? Se invece è l’aria ad avere il colore del cielo, come avviene che quella che ci circonda appare incolore? Keplero era convinto che l’universo fosse finito, e per sostenere la sua tesi sollevò un nuovo problema: se ci fosse un numero illimitato di stelle distribuite uniformemente nell’universo il cielo di notte non dovrebbe essere altrettanto luminoso quanto lo è di giorno? Perché invece il cielo di notte è scuro?
Agli occhi di Keplero, l’oscurità del cielo notturno forniva un’evidenza inoppugnabile a sostegno della sua tesi che non possono esistere infiniti soli uniformemente distribuiti nello spazio. L’enigma dell’oscurità del cielo notturno, «il compagno notturno della questione del colore diurno del cielo», divenne celebre col nome di “paradosso di Olbers”, un astronomo che riformulerà la questione ancora all’inizio dell’Ottocento, senza riuscire a darne una risposta convincente. Gli enigmi sul colore del cielo, diurno e notturno, si accompagnavano a un’altra grande e irrisolta questione. Qual è la natura della luce? Si tratta di corpuscoli luminosi o invece di onde che si propagano nello spazio? Nella seconda metà dell’Ottocento ancora si discuteva senza trovare un accordo sulla natura delle ipotetiche particelle sospese nell’aria, responsabili del colore del cielo, tanto che nel 1869 il fisico John Tyndall scriveva che «il colore blu del cielo e la polarizzazione della sua luce secondo l’opinione delle nostre più eminenti autorità nel campo, rappresentano i due più grandi enigmi irrisolti della meteorologia». Da allora, gli enigmi hanno trovato risposte sempre più convincenti nelle osservazioni, nei laboratori e nelle teorie di coloro che hanno creato la fisica e l’astronomia moderne, uomini come Rayleigh e Maxwell, Kelvin, Einstein, Hubble e i tanti protagonisti di questo bel libro di Pesic, un racconto storico che si legge come un romanzo.
A prescindere dalla letteratura, ma approfondendo meglio l’aspetto scientifico, è chiaro che l’atmosfera della Terra è composta, tra le altre cose, da particelle varie (come la cenere dei vulcani e polveri di vario tipo), da goccioline d’acqua sospese, da ossigeno e da azoto.
Quando la luce che proviene dal Sole impatta contro l’atmosfera, viene deviata in modo diverso a seconda dell’elemento che colpisce: più l’elemento è grande e più la luce viene dispersa. Se gli ostacoli che trova sulla strada sono abbastanza grandi, come le polveri e le goccioline d’acqua, la luce si disperde sempre in tutte le direzioni.
Se invece la luce incontra elementi più piccoli, come le molecole dei gas, ci possiamo trovare in due situazioni: in base alla lunghezza d’onda, può superarle o venire riflessa.
Quando la luce ha una lunghezza d’onda “lunga” – cioè quando è di colore arancione, giallo o rosso -, passa facilmente oltre queste piccole particelle e viene riflessa solo in piccola parte. La luce blu, però, ha una lunghezza d’onda minore e viene quindi deviata in ogni direzione.
Il mistero è tutto qua: grazie alla sua riflessione, vediamo la luce blu ovunque e quindi abbiamo la sensazione che il cielo sia di quel colore. Seguendo lo stesso concetto, più ci avviciniamo all’orizzonte e più chiaro sarà il colore azzurro, perché la luce ha più tempo per essere riflessa prima di arrivare.
Ma perché allora il Sole ci appare rosso al tramonto? La “colpa” – o il merito, visto gli scenari suggestivi che offre – è della posizione del Sole rispetto a noi. Trovandosi oltre l’orizzonte, i suoi raggi attraversano un lungo tratto di atmosfera e la loro componente blu viene tolta quasi del tutto, lasciando solo il rosso a bagnare i nostri occhi. Più il Sole scende, più il rosso si fa acceso.
Una curiosità.
Se fossimo su un pianeta privo di atmosfera (o anche sulla Luna), non ci sarebbe nessuna particella a deviare la luce: vedremmo il Sole come una sfera bianca e il cielo completamente nero.
A questo punto dovrebbe essere chiaro anche perché la nebbia ha quel colorito biancastro: essendo composta da particelle pesanti, la luce ci “sbatte” contro e ogni colore viene riflesso in modo identico. E la somma dei colori dà, per l’appunto, il bianco.