Il disastro del Gleno, il “piccolo Vajont” dimenticato

MeteoWeb
La diga del Gleno appena terminata (per gentile concessione di www.scalve.it)
Grazie all’ormai consueto lavoro di Giampiero Petrucci, validissimo geologo e collaboratore di vecchia data del nostro giornale, raccontiamo un evento storico che merita la prima pagina ma che purtroppo è stato dimenticato da tutti, pur avendo creato una ferita aperta nella storia del nostro Paese. Buona lettura.

Da sempre l’uomo lotta con la natura, tentando di imbrigliarla e di sfruttarla a proprio vantaggio. A volte vi riesce, altre volte no. Talora la natura si ribella, lanciando su di noi i suoi strali, facendoci capire quanto sottile sia il filo su cui corriamo quando ci confrontiamo con lei. In diverse occasioni infatti l’uomo osa troppo e sbaglia, vuoi per delirio di onnipotenza vuoi per valutazione errate. Eventi  rari, talora dimenticati, meritano allora di essere riportati all’attenzione generale per evitare il ripetersi di tragici errori e migliorare la salvaguardia del nostro territorio. E’ il caso di quanto accaduto il 23 Ottobre 1923 in Val di Scalve, nel cosiddetto disastro del Gleno.

L’ambiente. Il torrente Povo scorre in un paesaggio idilliaco ed incantato: la sua sorgente si trova a 2390 m di altitudine, sulla sua sponda destra spicca la Presolana, dall’altra parte il Pizzo Pianezza. Il suo alveo, mediamente largo tre metri, sbuca dapprima nella Val di Scalve e termina in Val Camonica. Alpi Orobie, al confine tra le province di Bergamo e Brescia: territori incontaminati, lontani da smog e caos. Ma teatro di un terribile disastro, oggi dimenticato ma che novant’anni fa portò morte e devastazione per un’intera valle. Una distruzione, se non annunciata, comunque causata da una sommatoria di errori e concause che è impossibile definire imprevedibili. Un evento non strettamente naturale ma che ha causato al paesaggio ed all’uomo ferite incancellabili le quali portano una testimonianza di dolore ed incuria il cui monito dovrebbe far riflettere tutti noi. Il passato insegna ma sono in troppi, allora come adesso, a dimenticare questo semplice assioma.

Lo squarcio nella diga dopo il disastroso crollo: una spaccatura di 80 m su un totale di 260 (per gentile concessione di www.scalve.it)

 Dighe ed energia. Nella prima decade del XX secolo il mondo si sta prepotentemente modernizzando e la richiesta di energia elettrica cresce a dismisura, anche nel nostro paese: il modo migliore per produrla sembra legato alle centrali idroelettriche, alimentate da appositi bacini artificiali. Dunque inizia la caccia ai luoghi migliori per sviluppare questa nuova attività. Nel 1907 viene chiesta la prima autorizzazione per creare uno sbarramento sul torrente Povo, nella località detta Piano del Gleno, a circa 1500 m di altitudine, per ottenere un serbatoio di circa 4 milioni di mc. La guerra 1915-18 blocca tutto e solo nel 1919 la ditta Viganò (allora una potenza nell’industria cotoniera ma evidentemente interessata a differenziare le proprie attività) presenta il progetto ed inizia i lavori. Ma il progetto viene cambiato in corso d’opera, passando da una diga “a gravità” ad una struttura “ad archi multipli” più economica della precedente. Ma qui subentrano le prime difficoltà: il nuovo progetto va ad innestarsi direttamente sul precedente, in parte già realizzato, ma senza particolari ancoraggi né ammorsamenti. In sostanza sopra al cosiddetto “tampone di fondo” già realizzato in muratura lapidea viene “appoggiata” un’altra struttura, con materiali diversi ed in calcestruzzo armato. Tutto va avanti nonostante manchino le definitive autorizzazioni: gli interessi economici e la “fame” di energia (in Val Camonica si producono ghisa ed acciaio) fanno passare in secondo piano qualsiasi altro dettaglio. La diga, che quasi raddoppia la sua altezza inizialmente prevista e dunque il cubaggio dell’invaso (raggiunti i 6 milioni di mc), viene completata nella primavera del 1923 e, senza nessun collaudo, inizia timidamente a rifornire la centrale idroelettrica a valle. Ma non mancano i problemi: già durante la fase costruttiva, non appena riempito l’invaso, si sono notate alcune infiltrazioni nella struttura, con lievi perdite d’acqua che si è tentato di tamponare attraverso un’impermeabilizzazione in catrame. Tentativo fallito perché con le forti precipitazioni autunnali (e le prime nevi) il livello del bacino raggiunge il culmine della diga e le infiltrazioni aumentano: nessuno si preoccupa ed ogni decisione viene rimandata.

Il percorso della terribile onda: dalla diga di Gleno fino al Lago di Iseo attraverso la Val di Scalve e la Val Camonica. Un disastro di proporzioni immense, definito a ragione “il piccolo Vajont” (per gentile concessione di www.scalve.it)

Il disastro. Il 1 dicembre 1923, tra le 7 e le 7.15, il guardiano della diga (l’unica persona presente), mentre sta per avviare l’invio di acqua alla sottostante centrale, avverte un forte tonfo ed alcune vibrazioni nella struttura da cui cadono frammenti di muratura. Improvvisamente nella diga si apre uno squarcio di circa 80 m (sui 260 totali), dando libero sfogo a 6 milioni di mc di acqua che irrompono nella valle del Povo come un’immensa onda di tsunami, provocando un disastro catastrofico. Il paese di Bueggio, il più vicino alla diga, viene spazzato via, poi tocca a Dezzo dove l’acqua giunge circa un quarto d’ora dopo e provoca forti distruzioni nella fornace e nella centrale idroelettrica. L’onda impazzita e senza freni percorre l’intera valle, finendo la corsa addirittura in Val Camonica, nei pressi di Darfo Boario Terme, per esaurirsi nel lago di Iseo, circa a 45 minuti dal verificarsi dello squarcio e dopo 20 km di tragitto a folle velocità. Per i poveri abitanti della valle c’è poco scampo: preavvertiti da un forte spostamento d’aria (che strappa loro di dosso i vestiti) e da un sinistro boato, non hanno tempo di trovare rifugio. Alla fine si conteranno 356 vittime, anche se la cifra effettiva non si saprà mai e presumibilmente potrebbe sfiorare le 500 unità. Un’intera valle, vero paradiso ambientale, è devastata e si trasforma in un inferno dantesco, con i pochi attoniti superstiti a vagare spauriti ed increduli tra macerie, fango, pietre e carcasse di animali. Un disastro immenso che ovviamente ricorda la ben più famosa tragedia del Vajont, similare per sviluppo dell’onda nella valle ma diversa per cause e più grave per numero di vittime.

Il processo. Se il Vajont rimane giustamente ancora nella memoria di tutti, il Gleno passa presto nel dimenticatoio. Il Regime Fascista, appena giunto al potere, non può permettere che venga leso il prestigio internazionale dell’Italia né soprattutto che il disastro porti un rallentamento nella produzione di energia elettrica e nello sviluppo di altri bacini e centrali. La tragedia però non può comunque passare inosservata e viene istituito un processo contro l’amministratore della ditta Viganò ed il progettista della diga. Tra accuse, difese, testimonianze e ritrattazioni, perizie e controperizie, passano 4 anni prima della sentenza che a molti non sembra né equa né esemplare: gli imputati vengono condannati a 3 anni e 4 mesi di reclusione per “imperizia ed inosservanza delle leggi vigenti”. In particolare sono colpevoli per non aver eseguito le necessarie prove propedeutiche alla costruzione, per il cambio di progetto non autorizzato, per aver utilizzato materiale scadente nella costruzione e non aver provveduto al collaudo dell’opera. Ma, applicata la condizionale, nessuno fa un giorno di galera e tutto viene messo a tacere. Non sembra una storia dei giorni nostri?

Il paese di Dezzo semidistrutto dal passaggio della terribile onda (per gentile concessione di www.scalve.it)

Le cause. Come spesso accade, si cerca di salvare il potente di turno, il dirigente che non ha vigilato, il progettista che ha sbagliato i calcoli, il direttore dei lavori che ha chiuso un occhio, l’imprenditore che rischia i suoi soldi per la comunità e per il bene dei cittadini. Nel tentativo di mistificare la realtà, sui giornali dell’epoca non mancano le ipotesi più svariate nella ricerca della causa scatenante il crollo della diga. Oggi possiamo affermare che non tanto di causa si deve parlare quanto di concause. Innanzi tutto il cambio di progetto ha provocato nella struttura una zona di interfaccia (tra la costruzione originaria inferiore e quella nuova superiore) a minore resistenza, non adeguatamente protetta, sede privilegiata di infiltrazioni e rotture (lo squarcio si svilupperà proprio in corrispondenza di quest’area). Il calcestruzzo utilizzato, con materiali reperiti nelle vicinanze, è risultato troppo poroso e con granulometria inadatta. Il bacino è stato riempito man mano che cresceva l’altezza della diga ed i lavori sono proseguiti nonostante le evidenti infiltrazioni. Non sono stati eseguiti collaudi a sufficienza. Una serie di errori, in parte rimediabili, cui non è stata data adeguata importanza e che hanno certamente contribuito all’indebolimento della struttura.

Il laghetto di Gleno oggi, con i ruderi della diga ed il massiccio della Presolana visibile attraverso lo squarcio lasciato dal crollo (foto Cristian Riva)

Ma l’aspetto fondamentale è il momento cruciale della rottura finale, improvvisa, istantanea e puntuale. Difficile ipotizzare la causa ultima scatenante: cosa ha provocato il collasso della struttura in quel preciso istante? Proprio su questo punto s’è scatenato un acceso dibattito, non ancora concluso a 90 anni di distanza. In prima analisi i difensori degli imputati al processo tentarono la via sismica: un terremoto o meglio una serie di terremoti, anche di intensità limitata, potrebbero aver ulteriormente indebolito la struttura, peraltro già di per sé non costruita in maniera perfetta. In effetti, anche secondo i cataloghi sismici, non mancano scosse nell’area lombarda durante la costruzione della diga: ma si tratta di eventi con magnitudo limitate (sempre inferiori a 5.0) e che molto difficilmente avrebbero potuto creare non tanto un simile sconquasso quanto pure microfratture nel calcestruzzo. Analizzando i ruderi della diga, ancora esistenti e visitabili, è stato scoperto che la galleria connessa allo scarico inferiore della struttura presenta un crollo di circa otto metri, in direzione da valle a monte. Anche negli anni immediatamente successivi al disastro alcuni periti ipotizzarono come causa di questo crollo uno scoppio: considerando che due giorni prima della tragedia in cantiere scomparvero 75 kg di dinamite e dando credito alle dichiarazioni del guardiano (che parlò di “tonfo”), i più fantasiosi propendono per un sabotaggio od un attentato, magari senza l’intento di creare una simile devastazione. Lo scoppio di una carica, anche di piccole dimensioni, in una struttura già debole avrebbe comunque verosimilmente potuto creare il collasso generale. Altri invece, ripensando al successivo Vajont, parlano di una frana che in qualche modo si sia “appoggiata” alla diga, dandole il colpo di grazia anche se non sembrano presenti particolari evidenze di crolli sui versanti dell’alveo. A prescindere dalla causa ultima scatenante, esiste, a detta di tutti gli esperti, un’unica certezza: la diga era già debole perché costruita in maniera non ottimale.

I ruderi della diga visti da valle (foto Cristian Riva)

Situazione odierna. Oggi la diga è ancora là, a monito delle future generazioni. Sulle cartine topografiche della zona il luogo è segnalato come “ruderi del Gleno”. Sono passati quasi 90 anni dal disastro, ricordato ormai soltanto dalle popolazioni locali. Nel nostro paese attualmente esistono oltre 500 dighe ed altrettanti bacini collegati alla produzione di energia elettrica. Fortunatamente non mancano i controlli ed i monitoraggi delle strutture atti a valutare lo stato di conservazione del cemento armato, i cedimenti della diga ed i suoi eventuali movimenti in qualsiasi direzione dello spazio: inclinometri e stazioni topografiche gli strumenti più utilizzati in questo campo. Però è compito dei cittadini rimanere sempre all’erta e sorvegliare il territorio. Il disastro, legato all’errore umano o all’ineluttabile capriccio della natura, è sempre in agguato. Se aspettiamo le istituzioni od i politici, siamo perduti. Tocca a noi auto-difenderci, possibilmente non dimenticando il passato dal quale è sempre possibile e doveroso trarre insegnamenti: il disastro di Gleno, con i suoi ruderi ancora ben evidenti, non deve essere sottovalutato.

  • Il monumento in ricordo delle vittime del disastro (foto Cristian Riva)

    Si ringrazia Giorgio di www.scalve.it per la gentile collaborazione e la concessione delle foto d’epoca. Per approfondire l’argomento del disastro di Gleno si consiglia di visitare il sito www.scalve.it

  • Si ringrazia Cristian Riva (www.cristianriva.it) per la gentile collaborazione e la concessione di alcune foto relative allo stato odierno dei ruderi della diga

BIBLIOGRAFIA 

  • BARBISAN U., Il crollo della diga del Gleno: errore tecnico?, Tecnologos, 2007
  • PILOTTI M. ed altri, 1923 Gleno Dam Break: Case Study and Numerical Modelling, Journal of Hiydraulic Engineering, ASCE, 2011
  • SOARDO P., Il disastro della Diga del Gleno in Val di Scalve, Notiziario Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia, n°2, 2011  
  • www.scalve.it
  • www.vikipedia.org
Condividi