Quando si parla di terremoti e tsunami avvenuti nel nostro paese, molti ricordano soprattutto gli eventi più recenti. Per questo l’opinione pubblica nell’ultimo secolo ha considerato tra le regioni più sismiche d’Italia la Calabria, la Sicilia, il Friuli, la Campania, l’Abruzzo ed ultimamente anche l’Emilia. La Puglia viene spesso dimenticata ed in effetti ampie zone del suo territorio, in particolare la sua propaggine meridionale, il cosiddetto “tacco”, sono classificate tra le aree meno rischiose di tutto il territorio nazionale ai fini di un possibile disastro tellurico. La storia però, a chi sa interpretarla, racconta situazioni leggermente diverse che possono generare attente riflessioni per la salvaguardia del nostro territorio. Il geologo Giampiero Petrucci ne parla con il Prof. Paolo Sansò, docente di Geografia Fisica e Geomorfologia presso l’Università del Salento di Lecce nonché esperto dell’evoluzione geomorfologica del paesaggio costiero pugliese.
Prof. Sansò, generalmente la Puglia meridionale non viene considerata tra le zone più sismiche d’Italia: le intere province di Brindisi e Lecce sono a tutt’oggi classificate in classe 4, la meno pericolosa, in funzione del rischio sismico. Ma cosa accadde il 20 febbraio 1743?
“Il 20 febbraio 1743 intorno alle ore 23.30 locali (corrispondenti alle ore 16.30 attuali) tre forti scosse di terremoto interessarono la Puglia meridionale e le Isole Ionie. L’epicentro del terremoto è stato localizzato nel Canale d’Otranto, a soli 50 km dalla costa orientale del Salento. Questo sisma fu avvertito in un’area vastissima che ebbe come limiti a nord alcune città della pianura padana, a est il Peloponneso, le Isole Ionie e la costa albanese; a sud l’isola di Malta, a ovest Messina, Napoli e Roma. I maggiori danni si registrarono su entrambe le sponde del canale d’Otranto: le località che subirono gli effetti distruttivi più gravi furono Francavilla Fontana e Nardò, in Italia, e Amaxichi, sull’isola di Santa Maura (Lefkáda), in Grecia. In questi centri gran parte degli edifici crollarono o furono gravemente danneggiati; una decina di altre località pugliesi, fra cui Brindisi, Taranto e Bari, subirono gravi danni. Nell’area pugliese i morti furono circa 180, di cui circa 150 a Nardò. Nelle Isole Ionie vi furono più di 100 vittime, secondo quanto affermarono i rappresentanti locali della Repubblica di Venezia che allora governava su quei territori”.
Dal punto di vista sismotettonico come è stato interpretato questo evento?
“La Puglia meridionale può essere senz’altro considerata un’area a bassa sismicità. Ciò nonostante essa avverte in maniera sensibile gli eventi sismici con epicentro lungo la costa albanese e in prossimità delle isole Ionie (per es. l’evento del 27 agosto 1886) o ancora più lontano, dell’isola di Creta (evento del 16 febbraio 1810). Meno avvertiti sono i terremoti con epicentro in corrispondenza dell’area appenninica, del Tavoliere e del Gargano. In questo quadro l’evento sismico del 1743 è abbastanza singolare poiché l’epicentro è situato in mare e a tutt’oggi non si conosce la struttura tettonica responsabile di questo forte terremoto. Un’analisi degli effetti di questo sisma permette infatti di stimare una intensità del VIII-IX grado della scala MCS che può essere riconducibile ad una magnitudo compresa tra 6 e 7 gradi della scala Richter”.
Si trattò dunque di un sisma generato in mare aperto e con magnitudo elevata, addirittura intorno a 7. Condizioni che, come già descritto da MeteoWeb nell’apposita sezione, possono portare alla genesi di uno tsunami. La Puglia, tra l’altro, non è nuova ad eventi del genere: nel 1627 la costa settentrionale del Gargano venne devastata da un maremoto che provocò l’ingressione massima mai registrata nel nostro paese (circa 3 km). Nel 1743 accadde qualcosa di simile?
“Sì, anche se la differente morfologia della costa limitò sensibilmente l’area della zona costiera interessata. Negli archivi storici si trova la segnalazione di un repentino e sensibile abbassamento del livello del mare nel porto di Brindisi subito dopo le scosse principali. Questa rimane l’unica testimonianza storica certa relativa al maremoto. Secondo il Maggiulli, uno storico locale dell’800, si osservò un repentino ritiro del mare ad Otranto ma questo evento viene riferito al terremoto calabrese del 1783 che in nessun modo avrebbe potuto influire sulla costa salentina”.
Tuttavia, come ogni bravo scienziato dovrebbe fare, avete voluto approfondire la questione, concentrando le vostre ricerche sulle coste pugliesi, alla caccia di indizi che potessero confermare lo sviluppo dei cosiddetti paleotsunami ovvero tsunami avvenuti nel passato e di cui non sempre si hanno notizie storiche. Quali sono questi indizi?
“Uno degli effetti principali provocati dalle onde di tsunami sulle coste rocciose è il distacco di blocchi rocciosi di grandi dimensioni dall’area prossima alla linea di riva ed il loro trasporto a diversi metri di distanza verso l’interno, in zone oggi spesso non raggiunte nemmeno dalle più forti mareggiate. Perciò la nostra ricerca si è focalizzata sullo studio delle caratteristiche degli accumuli di blocchi di grosse dimensioni presenti in diverse località lungo le coste della Puglia meridionale”.
Cosa avete scoperto in particolare riguardo a questi blocchi rocciosi?
“Le ricerche hanno permesso di capire che i blocchi provengono sia dalla parte emersa che da quella sommersa della costa. I primi mostrano infatti sulla superficie le tipiche vaschette che si formano nella zona a ridosso della linea di riva, mentre i secondi mostrano la superficie colonizzata da organismi marini (vermetidi, litodomi, ecc.). In molti casi abbiamo ottenuto la datazione dell’evento che ha prodotto il trasporto dei blocchi datando con il metodo del radiocarbonio i gusci di questi organismi o, più raramente, delle conchiglie marine che sono state trasportare nell’entroterra insieme ai blocchi. Molti blocchi sono stati rovesciati durante il trasporto mentre altri sono stati trasportati in sospensione dallo tsunami. Spesso i blocchi sono disposti in accumuli o addirittura in cordoni paralleli alla linea di riva. Molto frequentemente questi elementi sono embriciati, cioè appoggiati gli uni sugli altri. Questa particolare disposizione permette di individuare la direzione di provenienza dello tsunami. In molti casi le grandi dimensioni dei blocchi, il loro numero elevato, la posizione molto arretrata e ben al di sopra della zona raggiunta delle mareggiate permettono di attribuire subito con ragionevole certezza il loro trasporto e deposizione ad eventi di maremoto. In altri casi le nostre ricerche hanno dimostrato che piccoli accumuli di blocchi possono anche rappresentare l’effetto combinato di numerose mareggiate eccezionali nel corso del tempo. In questi casi è però possibile distinguere con relativa certezza gli accumuli prodotti da un maremoto da quelli connessi a mareggiate sulla base di formule idrodinamiche che, basandosi sul peso e le dimensioni dei blocchi, permettono di stimare l’altezza dell’onda di mareggiata e quella dello tsunami necessaria ad iniziare il loro movimento. Per i blocchi di maggiori dimensioni rilevati lungo la costa della Puglia meridionale i calcoli indicano altezze d’onda di mareggiata molto elevate, impossibili da raggiungere nel Mar Mediterraneo. D’altro canto, le altezze d’onda del maremoto risultano del tutto compatibili con i dati storici disponibili per gli eventi verificatisi nel passato nel Mediterraneo centrale”.
Relativamente al terremoto del 1743 è dunque confermato che fu seguito da uno tsunami?
“La risposta a questa domanda è scritta nel paesaggio costiero a sud di Otranto, in corrispondenza di Torre Sant’Emiliano. In questa località abbiamo individuato e studiato un accumulo costituito da centinaia di blocchi calcarei di grosse dimensioni. Il più grande di questi blocchi ha dimensioni di 5×3.5×1.5 m e pesa circa 70 tonnellate. Il rilievo di dettaglio ha rivelato che l’accumulo è costituito da due cordoni di blocchi giustapposti, costituito da elementi embriciati ad indicare univocamente una direzione di provenienza dell’onda da SE-SSE. L’accumulo raggiunge la quota massima di 11 m in corrispondenza della cresta del cordone verso mare; i blocchi più interni sono stati trasportati ad oltre 80 m dalla linea di riva e abbandonati su di una superficie terrazzata posta a 8 metri di quota. La datazione dell’accumulo è stata realizzata mediante analisi con il radiocarbonio su piccole conchiglie marine ritrovate tra i blocchi e confermata da resti di ceramica rinvenuti nel suolo al di sotto di un grosso blocco posto al margine interno dell’accumulo. In sintesi, i dati indicano che il distacco, trasporto e deposito dei blocchi è stato prodotto circa tre secoli fa da almeno due onde di maremoto successive provenienti da SE-SSE. La quota massima raggiunta dal maremoto è di almeno 11 m. Ricerche ulteriori lungo il litorale brindisino hanno permesso di individuare gli effetti di questo maremoto anche a Torre Santa Sabina, una località a nord di Brindisi. Qui la quota massima raggiunta dal maremoto sarebbe stata di soli 1.5 metri. I dati cronologici e geomorfologici confermerebbero quindi l’attribuzione di questo maremoto all’evento sismico del 1743 che ha avuto il suo epicentro poche decine di chilometri a SE di Otranto”.
Ma se vi fu effettivamente uno tsunami così intenso, capace di spostare massi di 70 tonnellate e con run-up di 10-11 metri, perché non vi sono tracce storiche e letterarie di questo evento?
“La mancanza di documentazione storica non deve meravigliare se si considera che l’area costiera compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca, quella interessata direttamente dal fenomeno, all’epoca era completamente disabitata per via delle numerosi paludi costiere e della malaria, ad esclusione del piccolo borgo di Otranto. Inoltre la morfologia della costa, costituita prevalentemente da ripide coste rocciose, nonostante un run-up così elevato, ha determinato l’inondazione di una fascia litoranea molto ristretta. Ultimo elemento da tenere presente è che gli tsunami si propagano molto male nel Mediterraneo a causa della elevata irregolarità batimetrica dei fondali e dell’elevata frastagliatura della linea di costa: ciò probabilmente spiega come gli effetti più evidenti si trovino solo sulla costa immediatamente prospiciente l’epicentro”.
Grazie alle vostre ricerche ed alle prove da voi evidenziate, in riferimento al 1743 dunque si può parlare di tsunami “ritrovato”. Ma vi sono evidenze di altri tsunami che hanno colpito la costa adriatica pugliese?
“Certamente quello che colpì il Gargano settentrionale nel 1627 e di cui avete parlato anche voi di MeteoWeb (qui e qui). Altrettanto avete fatto per il meteotsunami di Vela Luka del 1978 che produsse effetti, sia pur limitati, su tutta la costa da Giulianova a Bari: questo è l’ultimo evento in ordine di tempo abbattutosi sulle coste pugliesi. Le ricerche hanno evidenziato inoltre gli effetti di un maremoto che interessò la costa brindisina il 6 aprile 1667 quando un forte terremoto a Ragusa (la moderna Dubrovnik), posta sull’altra sponda dell’Adriatico, produsse un maremoto ben documentato storicamente. Nelle cronache storiche sono segnalati due altri maremoti lungo le coste adriatiche pugliesi. Il primo in concomitanza del terremoto del 20 marzo 1731 con epicentro nei dintorni di Foggia che produsse un rapido sollevamento del livello del mare e causò il naufragio di alcune imbarcazioni a Siponto e a Barletta. Il secondo interessò la costa del Gargano, ed in particolare la foce del Fiume Fortore, l’8 dicembre 1889 e fu prodotto da un terremoto con epicentro in mare tra la costa garganica e le Isole Tremiti”.
La vostra ricerca non s’è però limitata all’Adriatico. Avete scoperto altre tracce di paleotsunami anche nella costa ionica del golfo di Taranto?
“Sì, riguardo allo tsunami connesso alla devastante sequenza sismica sviluppata tra il dicembre 1456 ed il gennaio 1457. Un evento tra i più catastrofici della nostra storia, che colpì dal Lazio alla Basilicata, dal Tirreno all’Adriatico, provocando più di diecimila morti. Ad una di queste scosse è associato molto probabilmente uno tsunami che colpì la costa ionica pugliese, tra Taranto e Gallipoli. Lo tsunami non fu generato direttamente dal terremoto ma molto probabilmente fu l’effetto di un grande frana sottomarina innescata dall’intenso scuotimento sismico lungo la ripida scarpata presente poco al largo delle coste ioniche salentine. Anche in questo caso mancano delle testimonianze storiche perchè la fascia costiera all’epoca era praticamente deserta e le uniche prove di questo evento sono gli accumuli di blocchi che abbiamo ritrovato ed analizzato in diversi punti della costa ionica della Puglia meridionale”.
Dunque la Puglia è “terra di tsunami” più di quanto possa credere l’opinione pubblica. Ed evidentemente anche le zone in “classe 4” possono essere soggette potenzialmente sia a terremoti distruttivi (il 1743 ne è la dimostrazione lampante) che a tsunami. Pensando a quante costruzioni, talora abusive, sono state edificate sulle spiagge pugliesi, forse c’è stata (e c’è) una sottovalutazione del fenomeno e del rischio?
“La pericolosità e il rischio legati ad eventi di maremoto sono stati e sono ancora tutt’oggi completamente ignorati. Un esempio eclatante è rappresentato da Marina di Lesina, un vasto insediamento turistico sorto in una zona costiera interessata più volte nel passato geologico da maremoti catastrofici, i più recenti dei quali, come abbiamo visto, ben documentati anche storicamente. Parte di questo insediamento è stato sgomberato perchè minacciato dalla rapida evoluzione di cavità nel sottosuolo, costituito da rocce gessose molto solubili. Ebbene in quest’area saranno stanziati dei fondi per sanare il dissesto idrogeologico ma ignorando che in questo modo si verrà ad aumentare in maniera sensibile il rischio legato ad eventi di maremoto. A differenza di quanto avveniva nel passato, oggi i maremoti non produrranno l’inondazione di una fascia costiera deserta, ma verranno ad interessare aree intensamente popolate, soprattutto d’estate, e per molti tratti fortemente industrializzate (Manfredonia, Brindisi e Taranto)”.
Cosa si può fare allora per ottimizzare lo studio del passato e la salvaguardia del nostro futuro dal punto di vista dei terremoti e degli tsunami?
“Credo che il primo passo da compiere sia una efficace azione di educazione ambientale. La realizzazione di interventi per la mitigazione del rischio legato ai terremoti e ai maremoti nasce innanzitutto dalla consapevolezza di abitare in aree che purtroppo hanno sperimentato più volte in passato gli effetti catastrofici di questi fenomeni. Da questa consapevolezza diffusa possiamo ottenere dalla società una richiesta di maggiore attenzione nella pianificazione del territorio costiero evitando che nel futuro venga ad aumentare il rischio, già oggi elevato. Per cercare, invece, di mitigare il rischio di maremoto oggi esistente è quanto mai necessaria una attività di informazione rivolta alla popolazione residente e ai numerosi turisti che affollano nel periodo estivo i litorali pugliesi. Questa attività deve essere finalizzata al riconoscimento dei segnali precursori di un maremoto (scossa sismica, ritiro repentino del livello del mare, ecc.) e all’adozione di comportamenti responsabili. La vicinanza delle aree epicentrali alla costa pugliese e l’elevata velocità di propagazione dei maremoti, infatti, determinano tempi di reazione brevissimi (alcuni minuti), rendendo praticamente inutili i sistemi tecnologici di allertamento precoce attualmente esistenti”.
Ultima domanda. Quali sono i prossimi obiettivi delle vostre ricerche?
“Stiamo cercando di sviluppare dei modelli che a partire dalle dimensioni e peso dei blocchi e dalle caratteristiche morfologiche della fascia costiera ci permettano di determinare l’estensione delle aree inondate durante l’evento di maremoto. Il risultato di questa ricerca potrebbe permettere di delineare degli scenari possibili a seguito di eventi futuri di cui tener conto nella pianificazione della fascia costiera e di interventi per la mitigazione del rischio”.