Una percentuale compresa tra il 47 e 70% degli allergici al polline soffre di SOA, la Sindrome Orale Allergica, principale manifestazione da reattività incrociata tra pollini e alimenti. In Italia si riscontra raramente nei bambini, la prevalenza aumenta con l’età diventando la manifestazione più comune dell’allergia alimentare negli adolescenti e negli adulti. E’ il Nord a soffrirne più del resto del Paese.
Gli alimenti coinvolti appartengono alla nostra alimentazione quotidiana, come frutta e verdura fresca che scatenano i sintomi, soprattutto se ingeriti crudi. Queste le associazioni più frequenti: pollini di Graminacee e pomodoro, frumento, kiwi, melone, anguria, arancia; pollini di Urticacee (come la Parietaria) e basilico, piselli, ciliegie; pollini di Composite e sedano, prezzemolo, camomilla, melone, anguria, mela, banana, lattuga; pollini di Betulaceae e mela, pera, albicocca, carota, finocchio e noce.
Se n’è discusso oggi a Como, nel corso del convegno “Non solo pollinosi. Pollini e alimenti: la sindrome orale allergica” organizzato, in occasione della VII Giornata Nazionale del Polline®, dall’Associazione Italiana di Aerobiologia (AIA), insieme a Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), Fondazione Minoprio e la Federazione Italiana delle Associazioni di Sostegno ai Malati Asmatici e Allergici – Federasma Onlus (che nella stessa data celebra anche la II Giornata del Paziente Allergico).
Il monitoraggio di pollini, spore fungine e allergeni aerodispersi, che vede l’impegno costante di AIA, ISPRA, Agenzie Ambientali, ASL, Università, Ospedali e fondazioni IRCCS, oltre a studiare un importante parametro di qualità dell’aria (spesso in azione sinergica con gli inquinanti chimici e fisici) e di valutazione dello stato dell’ambiente, consente alla Medicina Generale e agli specialisti di migliorare le prestazioni diagnostiche e terapeutiche non solo per la pollinosi (rinite, asma) ma anche per la Sindrome Orale Allergica (SOA).
La melissopalinologia si occupa dello studio dei pollini che si trovano nel miele: riconoscendo questi pollini si può risalire al tipo di miele ed è così possibile individuare eventuali sofisticazioni del prodotto. I mieli contengono infatti diverse quantità di pollini che provengono dalle piante presenti nel luogo di produzione; in un certo senso il miele porta con sé il proprio certificato d’origine. Attraverso l’analisi microscopica si può quindi stabilire l’origine geografica o botanica di un miele e controllare quindi la veridicità delle dichiarazioni presenti in etichetta.
Una ricca sezione dei lavori è stata dedicata al miele, alle api, all’inquinamento ambientale e alla sicurezza alimentare.
Le api svolgono un ruolo biologico fondamentale nell’ecosistema, garantendo, con l’impollinazione, la sopravvivenza di un grande numero di specie vegetali. Secondo l’Unep, il programma Onu per l’ambiente, l’84 per cento delle principali colture europee dipende dall’impollinazione degli insetti, capitanati dalle api.
In Italia è stato calcolato che l’apporto economico annuale di tale attività al solo comparto agricolo è di circa 1.600 milioni di euro, con un contributo da parte di ogni singolo alveare di circa 1.240 euro.
Infine, attraverso fenomeni di bio-accumulo, scomparsa e mortalità, l’ape consente di effettuare valutazioni sulla qualità dell’ambiente in cui vive. Una sentinella ambientale, quindi, nel cui corpo, se pur in concentrazioni che non fanno temere per la salute umana, sono spesso rinvenuti contaminanti ambientali quali metalli pesanti (Piombo, Cadmio, Cromo, Mercurio, Nichel, Rame e Zinco), radionuclidi gamma emittenti, microinquinanti organici (diossine, furani), idrocarburi policiclici aromatici (IPA), policlorobifenili (PCB), pesticidi (insetticidi, fungicidi, erbicidi e battericidi), microrganismi patogeni (batteri, funghi e virus).
L’Agenzia ambientale europea riferisce che, negli ultimi 20 anni, è scomparso il 60% delle farfalle mentre un quarto degli insetti è a rischio estinzione. La Commissione Europea ha così proposto al Comitato permanente Ue per la catena alimentare, di sospendere l’uso dei neonicotinoidi (clothianidin, imidacloprid e thiametoxam) come concianti e granulari su mais, colza, girasole e cotone, per due anni a partire dal 2013. L’utilizzo di queste sostanze è però consentito per le altre colture, per cui si teme la persistenza nel terreno di queste molecole. Si spiegherebbero così la moria delle api e i pericoli per un settore economico importate, quello dell’apicoltura, che in Italia vanta un patrimonio di 1.150.000 alveari (di cui il 10% allevati con metodo biologico) che rendono il nostro uno dei Paesi più importanti per la produzione di miele.