Naufragi: quando Fogar e Mancini rimasero 74 giorni nell’Atlantico

MeteoWeb

“Un’esperienza che può servire anche a chi non naufragherà mai. Ciò che conta è la volontà di vivere, di non arrendersi e continuare. Siamo tutti su una zattera”

zattera ambrogio fogar mancini“Eravamo a 4 giorni di vela da Rio de la Plata quando un branco di orche o balene ci ha attaccato affondando il Surprise in quattro minuti. Ci siamo gettati sul battello di gomma e sulla zattera autogonfiabile con pochissima roba da mangiare. Era la mattina di giovedì 19 gennaio (1978, ndr) e adesso sono 3 settimane che stiamo vagando per l’oceano senza che nessuno abbia potuto e saputo cercarci”. Ambrogio Fogar e Mauro Mancini trascorsero 74 giorni in mare, in balia delle onde e dei venti, fino al 2 aprile 1978, quando furono raccolti da un mercantile greco di passaggio. Un lieto fine che si rivelò una beffa del destino. Mancini, il giornalista amico dell’esploratore che lo stava accompagnando nell’impresa di circumnavigare il Polo Sud, morì dopo due giorni, stremato nel fisico – aveva perso 41 chili – non superò una polmonite. Nella lettera di addio alla moglie, in cui raccontava del naufragio, Mancini faceva chiarezza su tutte le ombre che si abbatteranno poi su Fogar, da lui definito “un uomo coraggioso, equilibrato, buono”. “Ci siamo fatti compagnia – scriveva Mancini – con grande fermezza d’animo e questo è già qualcosa”. Ma la lettera divenne nota solo alcuni mesi dopo, nel frattempo, contro Fogar, ormai in salvo, si era scatenato un processo mediatico che lo indicava come responsabile della morte dell’amico giornalista, con trasmissioni televisive che puntavano il dito sulla smania di protagonismo dell’esploratore italiano. Una delle poche voci contrarie fu quella di Oriana Fallaci, che difendendolo scrisse: “Ti ho visto in tv e voglio dirti che se davvero un giorno ti servisse un compagno di viaggio che fuma moltissimo, nuota malissimo, soffre il mal di mare […] ti accompagno. Con la barca di legno, non di ferro, per­ché mi fido totalmente di te. E va da sé che questa sarebbe, in ogni senso, la più temeraria, la più suicida delle tue imprese”. La verità era che i due – Fogar e Mancini – avevano fatto appena in tempo a saltare sulla zattera di salvataggio, portandosi dietro un po’ di zucchero e pancetta. Durante gli oltre due mesi alla deriva si nutrirono della carne dei cormorani, e di qualche pesce catturato con le mani, bevendo l’acqua piovana che si accumulava nella zattera. Condivisero uno spazio angusto, speranze e i loro destini, rigonfiando il battello con la forza dei polmoni e della disperazione, fino al momento in cui si stagliò all’orizzonte il mercantile ‘Santo Stefano’, scambiato inizialmente per un miraggio e invece vero. La fine è nota. E anche a Fogar, a distanza di quasi 15 anni da quel naufragio e dal ritrovamento del loro canotto, duecento miglia a nord delle isole Falkland, il destino riservò una triste fine: in sedia a rotelle dopo un incidente in un rally, morì esattamente dieci anni fa, ad agosto del 2005. Ciò che resta, oltre alla leggenda di uno dei naufragi più lunghi e rocamboleschi della storia, è ormai solo il battello di salvataggio pneumatico tipo Avon4, che è tutto ciò che rimane della vicenda, esposto presso la ‘sala della Tempesta’ del Museo del Mare Galata, a Genova. E le lettere dei due, a ricordo di quei 74 giorni: “Un’esperienza che può servire anche a chi non naufragherà mai. Ciò che conta è la volontà di vivere, di non arrendersi e continuare. Siamo tutti su una zattera”, scriveva ancora Mancini.

Condividi