E’ iniziata Mercoledì 1° Giugno l’Estate Meteorologica 2016, un trimestre che si prospetta certamente caldo come ogni anno nel Mediterraneo, ma probabilmente anche caratterizzato dal maltempo estremo, come sta già accadendo in questi giorni al Centro/Nord e nell’Europa centrale, e come illustrano numerosi indici e parametri stagionali.
Certamente il 2016 richiama alla memoria il celebre “anno senza estate“, che esattamente due secoli fa, nel 1816, determinava un’incredibile anomalia climatica in gran parte del pianeta (e in modo particolare Europa e Nord America) con freddo e maltempo fuori stagione al punto da provocare fame e carestie.
Il clima nel 1816 è stato infatti alquanto bizzarro. Proprio all’inizio di giugno si capiva che dal punto di vista climatico qualcosa non stava andando per il verso giusto, perché erano tornate le temperature fredde come se iniziasse l’inverno. Il cielo era quasi sempre nuvoloso. La carenza di luce solare era così rilevante che gli agricoltori hanno subito ingenti perdite (documentate) in termini di raccolto e la penuria di cibo è stata riportata in Irlanda, Francia, Inghilterra e Stati Uniti.
Moltissimi i giornali che hanno riportato le bizzarrie del clima, tra cui il Boston Independent Chronicle del 17 giugno 1816: ” Il 5 giugno c’è stata una mattinata calda, seguita da forti piogge nel pomeriggio, accompagnate da tuoni e lampi, con venti freddi da nord-est. Il 6, il 7 e l’8 giugno i fuochi nei camini delle nostre case erano molto gradevoli.“
Alla fine dell’estate, era chiaro a tutto che qualcosa di veramente strano stava succedendo. Il giornale newyorkese Albany Advertiser, ha pubblicato il seguente articolo: “Il clima dell’estate appena trascorsa è stato generalmente considerato fuori dal comune, non solo in questo Paese, ma, come risulta dai resoconti giornalistici, anche in Europa. Qui è stata arida e fredda. Non riusciamo a richiamare alla mente un tempo in cui la siccità sia stata così estesa, né quando (e se) ci sia stata un’estate così fredda. Ci sono state gelate in ogni mese estivo, qualcosa che non avevamo mai visto prima. C’è stato freddo in molte parti d’Europa e molte piogge in altri luoghi in quel quarto della Terra.”
L’articolo prosegue proponendo teorie. La menzione delle macchie solari è particolarmente interessante, perché è ancora oggi considerato un fattore di grande influenza. E’ inoltre affascinante che si proponga di studiare a fondo l’evento per capire cosa l’abbia provocato e cosa provocherà in futuro: “Molte persone credono che le stagioni non si siano ancora riprese dallo shock subito quando il sole si è eclissato. Altre sembrano imputare la peculiarità della stagione e dell’anno, alle macchie solari. Se l’aridità è dipesa da quest’ultima causa, vi è da notare che non ha agito in maniera uniforme, le macchie sono state visibili sia qui che in Europa, eppure, molte zone di questa sono state sommerse dalla pioggia. Pensiamo che dati e fatti debbano essere raccolti, e fatte delle comparazioni; e quando ciò verrà fatto, costituirà un enorme vantaggio sia per il medico, che per la scienza medica.”
Sarebbe passato più di un secolo prima che gli esperti si rendessero conto delle ragioni che hanno portato al particolare evento climatico: l’eruzione di un vulcano gigantesco su un’isola remota dell’Oceano Indiano, che un anno prima ha emesso nell’atmosfera una ingente quantità di polveri vulcaniche.
Le polveri del Monte Tambora, hanno avvolto l’intero globo, e con la luce solare bloccata al di fuori di esso, il 1816 non ha avuto una estate “normale”.
L’eruzione del Monte Tambora
L’eruzione del Monte Tambora ha portato con sé morte e distruzione. Molto più imponente dell’eruzione del vulcano Krakatoa del 1883: quest’ultimo episodio ha avuto maggiore risonanza non perché fosse più distruttivo e terrificante, ma semplicemente perché la notizia della sua eruzione ha viaggiato più velocemente per via telegrafica, apparendo prima sui giornali. La notizia dell’eruzione del Monte Tambora ha raggiunto l’Europa e gli Stati Uniti mesi dopo. Soltanto nel XX secolo che gli scienziati hanno iniziato a capire che poteva esservi una connessione tra il Monte Tambora e l’anno senza estate.
Oggi sappiamo che quella terribile eruzione del 10-11 Aprile 1815 in realtà fu una vera e propria esplosione che cancellò 1300 metri di montagna e catapultò circa due milioni di tonnellate di detriti e particelle di zolfo negli strati più alti dell’atmosfera. Questi aerosol ridussero la radiazione solare sulla superficie terrestre, influenzando i fattori climatici a livello mondiale negli anni a seguire. Migliaia di persone morirono a causa degli effetti diretti dell’eruzione della durata di 4 mesi, che sprigionò nubi e gas velenosi, grandi flussi piroclastici e onde di tsunami. Nei dintorni del vulcano morì tutta la vegetazione e il terreno rimase avvelenato per anni. Migliaia di persone risentirono degli effetti climatici successivi, con disastrose conseguenze. Quasi tutto l’emisfero settentrionale, in un periodo climatico già fresco, registrò un ulteriore crollo delle temperature, mentre fame e carestie si diffusero nel mondo. Soltoanto svariati anni dopo venne pubblicato un resoconto dettagliato della catastrofe da parte dell’Asiatic Journal (1816-1829) dal governatore inglese di Indonesia e dal naturalista Sir Thomas Stamford Bingley Raffles (1781-1826) prima, e dal Lyell “Principles of Geology “(1850) successivamente. Andiamo a leggere i tragici momenti di quei giorni.
L’EVENTO DEL 1815 – “Isola di Sumbawa, 1815. – Nel mese di Aprile, una delle più spaventose eruzioni registrate nella storia, si verificò in provincia di Tambora, nell’isola di Sumbawa, a circa 200 km dall’estremità orientale di Java. Nel mese di Aprile dell’anno precedente il vulcano era stato osservato in uno stato di notevole attività, dopo aver eruttato ceneri sui ponti delle navi che navigavano davanti alla costa. L’eruzione del 1815 iniziò il 5 aprile, ma raggiunse la massima violenza tra l’11 e il 12, e non cessò del tutto fino a Luglio. Il suono delle esplosioni fu udito sino a Sumatra, alla distanza di 970 miglia geografiche in linea retta, e in direzione opposta alla distanza di 720 miglia. Su una popolazione di 12.000 residenti, in provincia di Tambora, solo ventisei individui sopravvissero all’evento. Turbini violenti portarono uomini, cavalli, bovini in aria, sdradicarono i più grandi alberi dalle radici, e coprirono tutto il mare di legname galleggiante. Grandi tratti di terreno furono coperti dalla lava, diversi flussi dal cratere raggiunsero il mare. La caduta di cenere fu così pesante che fece irruzione sino alle abitazioni di Bima, città sulla costa orientale dell ‘isola Sumbawa posta a 64 chilometri ad est del vulcano, rendendo varie abitazioni inabitabili. Sul lato di Java le ceneri arrivarono sino a 500 chilometri e circa 350 verso Celebes, in quantità sufficiente per scurire l’aria.
Le ceneri si depositarono per uno strato di circa 2 metri di spessore per diversi chilometri di estensione, attraverso il quale le navi si fecero strada con difficoltà. Il buio provocato durante il giorno sull’isola di Java fu così intenso, che rappresenta un evento unico nella storia, più buio anche delle attuali notti. Anche se la polvere vulcanica rappresenta un materiale impalpabile, diviene notevolmente pesante se compressa, tanto che all’epoca riferirono di un peso di ‘dodici once e tre quarti’. “Alcune delle particelle più fini – dice il signor Crawfurd – sono state trasportate alle isole di Amboyna e Banda, l’ultima a circa 1280 chilometri ad est dal sito del vulcano, anche se il monsone di sud-est era allora al suo culmine. Lungo la costa di Sumbawa e alle isole adiacenti, il mare salì improvvisamente di circa 3,6 metri, per poi successivamente placarsi. Anche se il vento era calmo, il mare avvolse tutta la riva e allagò le aree inferiori delle case, con acqua profonda circa 30 cm. Le barche furono sospinte verso terra e furono costrette all’ancoraggio. La città di Tambora, sul lato ovest di Sumbawa, fu inondata dal mare, che usurpò la riva in modo che l’acqua rimase definitivamente a diciotto metri di profondità in luoghi precedentemente non sommersi. Qui si può osservare che la quantità di subsidenza dei terreni era evidente, nonostante le ceneri. L’area coinvolta dagli effetti vulcanici fu di 1000 miglia inglesi di circonferenza, compresa tutta la Molucche, Java, una parte considerevole di Celebes, Sumatra e del Borneo. Nell’isola di Amboyna, nello stesso mese e anno, il terreno aperto eruttò acqua prima di richiudersi.
UNA CATASTROFE DI ENORMI PROPORZIONI – Anche in Europa rappresentò una vera e propria catastrofe. L’eruzione del 1815 è stata, a detta dei vulcanologi, una delle più potenti eruzioni vulcaniche almeno dalla fine dell’ultima Era glaciale; l’emissione di ceneri fu, quantitativamente, circa 100 volte superiore a quella dell’eruzione, pur rilevante, del monte Sant’Elena del 1980, e fu maggiore anche di quella della formidabile eruzione del Krakatoa del 1883. I morti registrati furono circa 60.000, deceduti tra l’eruzione vera e propria e il lungo periodo successivo di carestie conseguenti, dovute anche agli scarsi raccolti. Un evento del genere ai oggi attuali, provocherebbe una catastrofe di dimensioni ancor più maestose visto il numero di abitanti raggiunto sul nostro pianeta. Un evento, che speriamo, possa ripresentarsi il più tardi possibile.
UN EVENTO DA RECORD – Esattamente al tramonto dell’11 Aprile 1815 il Monte Tambora produsse la più violenta e la più mortale eruzione vulcanica dall’ultima Era Glaciale. L’emissione di ceneri fu, quantitativamente, circa 100 volte superiore a quella dell’eruzione, pur rilevante, del Mount St. Helens del 1980, e fu maggiore anche di quella della formidabile eruzione del Krakatoa del 1883. L’evento fu scatenato da un’eruzione pliniana capace di generare una gigante colonna euttiva di 50 chilometri di altezza.
Il vulcano produsse sino a 150 chilometri cubici di cenere e aerosol in atmosfera, mentre la caduta di tefrite devastò l’isola indonesiana di Sumbawa e le sue aree circostanti. L’esplosione distrusse 30 chilometri cubici di montagna e fu catalogata come VEI 7 nell’indice di esplosività vulcanica. Gli effetti furono così devastanti che si fecero sentire in tutto il mondo. Fiumi di cenere incandescente si riversarono lungo i fianchi della montagna, bruciando praterie e foreste. La terra tremò ripetutamente e il pianeta conobbe un’epoca di estati mancate ed inverni freddissimi, che ebbero come conseguenza scarsissimi raccolti e un impoverimento importante di vaste aree del pianeta. Il 1816, l’anno successivo all’eruzione, fu poi ricordato come l’anno senza estate.
LE CONSEGUENZE GLOBALI – L’eruzione produsse effetti climatici globali che uccisero più di 100.000 persone direttamente ed indirettamente. In seguito a tale evento, tuttavia, il colera che ebbe origine nel Golfo del Bengala, causò milioni di vittime verso la fine del secolo. I primi segnali precursori ebbero inizio nel 1812 con piccoli terremoti e fuoriuscite di vapore. Tali manifestazioni continuarono sino al 5 Aprile 1815, quando ebbe inizio la prima significativa eruzione con un pennacchio di 24 chilometri.
La sera del 10 Aprile 1815 l’eruzione cominciò ad intensificarsi. Una massiccia eruzione stava per avere inizio. Una serie di potenti boati, simili a tuoni o cannonate, che misero sull’avviso le truppe britanniche che da non molto tempo si erano stanziate nella regione dopo averne scacciato gli olandesi, ebbe inizo durante il tramonto del giorno 11, quando l’attività continuò con flussi piroclastici e ricadute di cenere sino al 19 Aprile, quando si verificò l’esplosione finale. Le emissioni di cenere oscurarono il cielo dell’intera regione per giorni e provocarono pesanti accumuli in tutti i villaggi circostanti. Le navi incontrarono anche dopo 4 anni dall’eruzione la cenere in mare nella forma di isolotti di pomice galleggianti. Tre mesi di convulsioni simili provocarono nel Tambora una diminuzione di quota di 1.300 metri; da più dei 4.100 metri originari, la montagna era passata agli attuali 2.850. Il vulcano sprigionò gas tossici su tutta l’isola, uccidendo 10.000 persone nella sola provincia di Tambora. Quando i flussi piroclastici raggiunsero il mare provocarono una serie di tsunami verso le isole dell’arcipelago, provocando ulteriori vittime e devastazioni.
A quei tempi il telegrafo era ancora in fase di sviluppo, e la notizia dell’eruzione viaggiò molto lentamente, trovando impreparati interi villaggi. Migliaia di persone non capivano cosa stesse accadendo. In Galles molte famiglie viaggiarono per lunghe distanze elemosinando cibo, ma i raccolti di patate, del grano e dell’avena erano ormai compromessi. La crisi colpì duramente anche la Germania, dove i prezzi alimentari salirono bruscamente. Le nubi di solfato rallentarono probabilmente lo sviluppo del monsone indiano per ben due anni, determinando gravi siccità in tutto il subcontinente indiano, devastato poi da intense inondazioni. Una combinazione che alterò l’ecologia microbica del Golfo del Bengala, dando inizio al colera. Entro la fine del secolo, il bilancio delle vittime del colera era di decine di milioni. Gli effetti si ripercossero anche nella Cina sud-occidentale, dove le provincie di montagna soffrirono terribilmente il freddo. A tre anni dall’eruzione gli agricoltori locali decisero di affidarsi ad un raccolto più affidabile: l’oppio. Nel giro di pochi decenni l’oppio veniva coltivato in tutta Yunnan, divenendo con la Birmania e Laos il triangolo d’oro della produzione. I tramonti sulla Terra si colorarono di tinte spettacolari, tanto da ispirare numerosi pittori fiamminghi. La mancanza di avena ispirò l’inventore tedesco Karl Drais alla costruzione del velocipede, l’antenato della bicicletta moderna.
IL 1816 E L’ANNO SENZA ESTATE – Nel 1816 poi, il Nord America e l’Europa Nord Occidentale vissero un terribile anno senza estate. Sulla Pennsylvania e sui rilievi del New England caddero ben 15 cm nel mese di Giugno, seguiti da una prima sequenza di gelate. In piena estate si girava con cappotto e guanti e si arrivò ad una pesante crisi alimentare. Fu un anno di carestia e i prezzi lievitarono alle stelle. Molti andarono in miseria e altri si tolsero la vita. Il pane era introvabile, l’uva andata distrutta. Pesanti i disagi in Inghilterra e Francia, mentre in Svizzera si macellava di tutto. Anche i racconti di Mary Shelley in villeggiatura sul lago di Ginevra in compagnia di Lord Byron e del marito, descrive interminabili settimane fredde e piovose. Epidemie interessarono il Bengala e la Russia europea, arrivando al colera. A quei tempi si rifanno le meravigliose fiabe di Andersen e i racconti di Natale di Dickens, sempre raffigurati con la neve. Dalla primvera del 1816 le temperature aumentarono come previsto, ma in alcuni luoghi persisteva il freddo. Gran parte dell’emisfero settentrionale sperimentò notti gelide tra Giugno e Settembre. Un freddo fuori stagione accompagnato da calamità naturali, carestie ed epidemie.
IL MINIMO DI DALTON – Al vulcano si aggiunse un minimo storico dell’attività solare: il minimo di Dalton, che durò dal 1790 al 1830 circa, durante il quale si verificò una serie incredibile di grandi eruzioni vulcaniche. In quel periodo si ricordano le eruzioni del vulcano Soufrière, nei Caraibi, mentre l’anno prima fu il vulcano Mayon, nelle Filippine, ad entrare in attività. A questi vanno ricordate le eruzioni dell’Ula, tra i più letali in indonesia e del Suwanosejima nelle isole Ryukyu, in Giappone. La causa precisa del calo sotto media delle temperature, registrato durante il periodo del minimo, non è stata ancora ben capita, ma una delle tesi più accreditate afferma che, vista la concomitanza dei flare con le macchie solari, in questi periodi di minimo diminuisca anche l’energia emanata. Il vulcano Tambora se ne sta tranquillo nella zona di subduzione creata dal movimento della placca australiana verso una parte della zolla euroasiatica, ed è oggi costantemente monitorato dalle autorità competenti. Sono trascorsi 199 anni da quell’evento, ma ancora oggi il mondo ricorda le vittime di quella immane tragedia.