Reca la firma di un ricercatore italiano, Simone D’amico, docente di Aeronautica e Astronautica alla Stanford University e direttore dello Space Rendezvous Lab (Slab), un ambiziosissimo progetto che, se dovesse andare in porto, potrebbe portare all’individuazione di pianeti dalle caratteristiche simili a quelle della Terra, potenziali candidati ad ospitare forme di vita. D’amico, insieme alla sua equipe, sta difatti vagliando la possibilità di inviare in orbita attorno alla terra dei satelliti in grado di creare delle eclissi artificiali che permettano di osservare pianeti altrimenti invisibili perché coperti dalla luce della propria stella madre.
Prima di addentrarci in questo progetto, è doveroso fare alcune precisazioni. Gli esopianeti o pianeti extrasolari si sono formati in dischi di gas o polveri circumstellari quando le stelle genitrici erano astronomicamente “giovani” ( qualche milione di anni”). Da “neonati” non è facile individuarsi per via della complessa struttura del materiale del disco in cui si formano che li nasconde dalle osservazioni dirette; mentre quando sono più in là con l’età, la presenza della stella centrale continua a rendere difficile la rivelazione dell’esistenza di un esopianeta in modo diretto. A parte pochissimi casi in cui si è riusciti ad ottenere, con difficoltà, l’immagine diretta di un esopianeta, nella grande maggioranza dei casi ci si avvale di metodi indiretti di rivelazione.
Uno dei metodi principali è quello delle velocità radiali che si basa sull’effetto Doppler: quando una sorgente luminosa si avvicina o si allontana rispetto a chi la osserva, la lunghezza d’onda osservata cambia. Se intorno a una stella orbita un pianeta, la sua gravità fa sì che questa stella “oscilli” con una certa periodicità intorno al centro di massa del sistema. Il cambio d’onda determinato dall’effetto Doppler può essere misurato con spettrografi, indicando così la presenza di un pianeta in modo indiretto.Grazie a questo principio, nel 1995, è stato scoperto 51 Pegasi, il primo esopianeta orbitante intorno a una stella “normale” che siamo riusciti a scovare.
Un altro metodo impiegato dai “cacciatori di pianeti” è quello dei transiti. In questo caso, la presenza del pianeta è “tradita” dal cambiamento di luminosità della stella, misurabile con fotometri come quello a bordo del satellite Kepler. Col metodo delle velocità radiali si possono dedurre periodo del pianeta o la sua massa; mentre con quello dei transiti si può ricavare di nuovo il periodo ma anche il raggio. Combinando i due metodi, si calcola la densità media; un parametro importantissimo che può dirci, per esempio, se il pianeta è un gigante gassoso (Giove) o un piccolo pianeta roccioso (Terra)o magari un pianeta dissimile da entrambi. Perché è importante cercare esopianeti?
Il solo fatto che esistano ha cambiato la concezione che l’uomo ha dell’Universo e del suo posto all’interno di esso, interrogandosi sull’esistenza di forme di vita al di fuori del nostro sistema solare e su quale sia il suo aspetto; riflettendo sul futuro della nostra specie, ponendo interrogativi come il famoso “Saremo sempre legati alla terra o riusciremo ad espanderci nella Galassia?”.L’individuazione di esopianeti simili alla Terra permette di capire la loro presenza sia comune nell’Universo. Grazie ai dati raccolti dalla missione Kepler, telescopio spaziale che dal 2009 è alla ricerca di altri mondi a miliardi di chilometri di distanza da noi, per ora gli astronomi hanno confermato l’esistenza di ben 2355 esopianeti, 21 dei quali in zona abitabile, sebbene l’osservazione di pianeti lontani non sia facile, non brillando di luce propria, quasi sempre oscurati dalla luce emessa dalla stella attorno alla quale orbitano, fino a 10 miliardi di volte più intensa.
Uno dei metodi più promettenti per osservare direttamente il dintorno delle stelle è quello dello Starshade, che prevede la creazione di uno scudo o uno schermo artificiale che blocchi la luce della stella, creando una sorta di eclissi artificiale. Ciò può essere possibile tramite : un satellite largo almeno qualche decina di metri ed un telescopio orbitante che dovrebbero volare a una distanza pari a un multiplo del diametro della terra. E’ per questo che nasce Mdot (miniaturized Distributed occulter/telescope), ossia il telescopio occultatore distribuito miniaturizzato.L’equipe ha in mente due piccoli satelliti che volano in formazione. Un microsatellite dal peso di circa 1 quintale che estende uno schermo stellare di 2-3 metri di diametro, a forma di fiore; ed un nanosatellite, pesante circa 10 chili, dalle dimensioni 30x10x10 cm, equipaggiato con un telescopio di 10 cm di diametro.
Il nanosatellite vola nell’ombra proiettata dal microsatellite a 500/1000 km di distanza e osserva direttamente il dintorno della stella. La forma a fiore dello schermo permette di sopprimere il più possibile la luce della stella. Si tratta, dunque, di un’ambiziosa missione attorno alla Terra, utilizzando piccoli satelliti a basso costo, riducendo così il budget a meno di 100 milioni di dollari. Tra le principali difficoltà del progetto: la grandissima precisione richiesta nel sostenere, per almeno due ore, l’allineamento del microsatellite con il cono d’ombra generato dallo schermo; la stabilità strutturale e termica dei petali del fiore; l’interferenza di altre sorgenti luminose (Sole e Luna) , la miniaturizzazione di sensori e altri componenti dei satelliti.