Ricerca, memoria cellulare: così il nostro corpo si ricorda come combattere le malattie

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Il sistema immunitario rappresenta una componente fondamentale del nostro organismo: ci protegge sia contro le aggressioni esterne, come batteri e virus, sia contro le cellule malate del nostro organismo, come nel caso del cancro. Il nostro sistema immunitario è composto dai linfociti, un esercito di cellule efficiente e ben organizzato, che oltre ad attivarsi immediatamente in presenza di virus o batteri è anche in grado di riconoscere in maniera specifica questi agenti e di imparare dall’esperienza: dopo aver vinto una battaglia contro un particolare agente patogeno, i linfociti della memoria ricordano come rispondere in caso lo stesso pericolo si ripresenti.

Questa fondamentale proprietà di memoria era nota ma ora, grazie allo studio coordinato da Luigia Pace, biologa ricercatrice all’Italian Institute for Genomic Medicine (IIGM) di Torino, siamo capaci di comprendere per la prima volta il meccanismo biologico su cui si basa. I risultati pubblicati sul numero di Science del 12 gennaio sono frutto di anni di ricerca di Luigia Pace, rientrata in Italia a gennaio grazie al doppio finanziamento della Fondazione Armenise Harvard e della Compagnia di San Paolo, dopo 10 anni di lavoro prima in Germania e poi all’Institut Curie di Parigi.

La scoperta è arrivata grazie a uno studio multidisciplinare comprendente l’epigenetica – che studia modificazioni dell’espressione dei nostri geni che non coinvolgono la variazione della sequenza del DNA– l’immunologia e le moderne tecnologie di genomica molecolare. Si tratta di un approccio completamente nuovo, che ha permesso di individuare con un dettaglio senza precedenti il ruolo di nuovi fattori molecolari coinvolti nel differenziamento della risposta immunitaria.

Come le sentinelle a difesa di una fortezza, esistono prima di tutto alcuni linfociti che fanno la guardia al nostro organismo: si tratta dei cosiddetti linfociti T naive, che non hanno mai incontrato antigeni (ovvero molecole in grado di essere riconosciute dal sistema immunitario, ad esempio virus o batteri). Quando il nostro organismo viene attaccato, la popolazione di linfociti naive risponde e prolifera in maniera esponenziale: in una sola settimana, da circa 100 cellule specifiche per l’antigene, si può arrivare anche a un milione. Durante il processo di attivazione e proliferazione, i linfociti esprimono dei geni specifici per l’eliminazione del patogeno che li ha attivati. Grazie all’attivazione di questi geni, la maggior parte dei linfociti T si trasforma nei cosiddetti linfociti effettori, cellule killer programmate con l’unica missione di uccidere le cellule infettate dal patogeno.

Queste cellule – spiega Pace, prima firma dell’articolo – diventano super soldati, ma pochi giorni dopo il processo di differenziazione muoiono. Infatti, quando l’infezione è terminata, i linfociti effettori non tornano più indietro e non possono riprogrammarsi: hanno un ‘destino condannato’, che permette così anche di ripristinare il numero di linfociti precedente all’attacco patogeno.”

Non tutti i linfociti però seguono questo destino. Durante il processo di differenziazione, un piccolo numero di queste cellule si trasforma in linfociti della memoria, il cui compito è quello di ricordare l’identikit dell’intruso che ha scatenato la reazione immunitaria e riconoscerlo in caso si ripresenti in futuro.

A differenza dei linfociti effettori – continua la ricercatrice dell’IIGM di Torino – i linfociti della memoria hanno caratteristiche in comune con le cellule staminali, diventano quiescenti dopo la fine dell’infezione e possono restare a difesa del nostro organismo anche cent’anni. E poiché derivano da una cellula che è stata in precedenza attivata dall’antigene, ereditano uno specifico programma epigenetico, che permette loro di riattivarsi in presenza dello stesso antigene, e quindi di proliferare e riattivare i geni coinvolti nel differenziamento degli effettori.”

Ma cosa determina se un linfocita avrà un destino da effettore o della memoria? La scoperta di Luigia Pace e del suo team di collaboratori è che il processo di differenziazione implica un controllo epigenetico di geni chiave: alcuni saranno attivati, altri disattivati o repressi.

Come dimostrato dalla ricercatrice dell’IIGM di Torino, il differenziamento dei linfociti effettori è regolato dall’enzima Suv39h1, un enzima epigenetico che svolge un ruolo chiave nel modificare l’organizzazione del nostro DNA all’interno del nucleo delle cellule, compattando o de-compattando regioni dell’intero genoma, con conseguenze sull’espressione dei geni localizzati in queste regioni del DNA. Una volta che il programma dei geni che guidano il differenziamento degli effettori è stabilito, i geni della memoria vengono definitivamente spenti, e il destino degli effettori è definitivamente concluso.

Perché l’epigenetica è così importante? A differenza della sequenza del DNA, che è unica ed identica in ogni cellula, i processi epigenetici sono modificabili e reversibili: un aspetto cruciale rispetto alle potenziali applicazioni cliniche dello studio. Infatti in alcune patologie, come il cancro, i linfociti effettori non sono numerosi e dopo un po’ smettono di essere funzionali: si parla in questo caso di ‘cellule esauste’, che di fronte ad attacchi al sistema immunitario particolarmente potenti perdono la loro capacità di difesa contro il tumore. Il meccanismo biologico scoperto da Luigia Pace e colleghi potrebbe essere sfruttato per ‘invertire la freccia’, ovvero per manipolare i linfociti effettori, aumentandone il numero, anche sfruttando la reversibilità a linfociti della memoria. In altri termini, si potrebbe riprogrammare e potenziare la risposta immunitaria per sconfiggere i tumori. Questa scoperta apre quindi a nuove prospettive nella manipolazione dei fattori epigenetici nell’ambito dei nuovi e promettenti trattamenti di immunoterapia del cancro.

Questi risultati aprono a nuovi scenari di ricerca nell’ambito dei nuovi trattamenti terapeutici di immunoterapia del cancro.

“Il problema delle precedenti terapie contro il cancro – spiega Luigia Pace– è che, oltre a colpire altre cellule dell’organismo, sono basate su farmaci efficaci solo per il periodo in cui vengono somministrati. Se invece manipoliamo anche il sistema immunitario, con i nuovi protocolli di immunoterapia possiamo intervenire direttamente sui linfociti in maniera specifica, modulando quindi cellule ad hoc per ogni particolare tipo di cancro. Un altro vantaggio è l’adattabilità dei linfociti: aver identificato uno dei meccanismi chiave della differenziazione dei linfociti ci permetterà nei prossimi anni di condurre nuove ricerche per adattare la risposta immunitaria, andando ad esempio ad accendere o spegnere i linfociti in tempi diversi e in diversi compartimenti: nel sangue, nei linfonodi o direttamente nel sito tumorale. Infine la comprensione dei meccanismi di differenziamento dei linfociti della memoria ci consentirà di potenziare la memoria immunologica, in modo che dei linfociti rimangano come sentinelle anche una volta sconfitto il tumore.

Questa è esattamente la direzione in cui continueranno gli studi di Luigia Pace e del suo nuovo laboratorio nei prossimi anni. Una grande risorsa che è potuta rientrare in Italia grazie alla Fondazione Armenise Harvard e della Compagnia di San Paolo.

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