Venezia sott’acqua. Località del Sud in tilt. Allagamenti. Alberi caduti. Automobili devastate. Uragani che spazzano via tutto ciò che trovano sulla propria strada. Fino a qualche anno fa questo tipo di notizie arrivavano da oltre oceano, dall’Asia, dall’America. Noi europei ci sentivamo quasi degli ‘eletti’: caldo d’estate, freddo e pioggia in inverno, giornate tiepide in primavera e foglioline gialle che cadevano in autunno. Tutto nella norma.
Poi, un giorno – non proprio all’improvviso – il caos: maltempo e freddo fino a giugno, caldo fino a novembre, uragani e tempeste in ogni momento dell’anno, caldo afoso che si alterna a freddo intenso. Quello che sta succedendo ce lo siamo detti più volte: con il cambiamento climatico in corso lo scenario sarà questo, se non peggio, per parecchio tempo. Ciò che è necessario sottolineare, però, è che il clima in mutazione non va sottovalutato, o meglio, bisogna definirlo per bene prima di potervi far fronte.
Il cambiamento climatico non è l’Apocalisse, come molti vogliono far credere: non segnerà la fine del mondo, non decimerà l’umanità. Quel che è certo, però, è che farà diversi danni se consideriamo che questo è solo l’inizio.
Gli allarmismi non servono a nulla. Gridare alla “fine del mondo” non serve a nulla. Pontificare non serve a nulla. L’unica cosa giudiziosa da fare, da parte dei cittadini, è quella di pretendere dai propri amministratori e dai propri governanti delle politiche completamente nuove per far fronte a quanto ci aspetta e a quanto ci sta già accadendo. Perché i metodi finora utilizzati per affrontare le emergenze sono ufficialmente e palesemente vetusti. Bisogna aggiornarsi, ripartire quasi da capo, formare nuovamente tecnici e dirigenti. Bisogna risvoltare l’Italia come un calzino. Utopia? Forse. Ma se non diventerà realtà daremo ragione agli allarmisti: sarà la fine.