Qualcuno avvistò l’imponente Palazzata del porto di Messina con i suoi edifici monumentali; altri, invece, notarono lo strano silenzio ( anche in onde radio) dalle due parti dello Stretto e chiesero informazioni al comando militare di stanza a Napoli.
Fu così che l’Italia seppe della sua catastrofe più grav
Della Palazzata di Messina non rimanevano in piedi che le facciate.
A terra non si vedeva nessuno.
E’ stato il terremoto più tremendo di cui si abbia memoria nel nostro paese: 12° grado della scala Mercalli, magnitudo 7,1 Richter, distruzione completa di due città e di molti paesi attorno,, la cifra di 100 mila morti, contando anche le vittime di incendi e maremoto.
Il sismologo Mario Baratta, perlustrando il luogo, non riusciva neppure a raccogliere informazioni sul disastro, visto il soverchiante stato si shock che affliggeva i sopravvissuti.
A Messina rimasero in piedi 2.200 abitazioni su circa 8.000, a Reggio 176 su 3.600. La città di Messina si abbassò di almeno 70cm e Reggio di circa 50cm. Tutta la regione sprofondò, fatto eccezione per Melito di Porto Salvo che, invece, si sollevò di circa 10cm.
Fu la prima presa di coscienza di una realtà nazionale costellata di rischi e costruita su un territorio vulnerabile, la tavoletta di cera che avremmo dovuto pulire con la pomice per provare a scrivere una storia diversa del nostro rapporto con i terremoti.
Da subito non andò cosi.
Il governo varò una serie di riforme straordinarie a carico dello stato, finanziate da un’apposita tassa: circa 30 milioni di lire furono stanziati per l’emergenza e si costruirono baracche (le antenate dei container) nelle aree libere attorno ai centri urbani.
Poi si promulgò una legge per la ricostruzione imperniata su accorgimenti antisismici che ricalcavano quelli già adottati dai Borbone e dallo Stato della Chiesa.
Tra questi, il divieto di innalzare palazzi più alti di dieci metri (che doveva pure essere la larghezza minima delle strade) e il divieto di costruire su pendii e in aree paludose.
Nessuno di questi accorgimenti è stato rispettato.
Oggi fra Messina e Reggio si azzarda il progetto monumentale di un ponte di cemento e acciaio di 166.000 tonnellate.
Nel progetto si riconosce che la zona è una delle più sismiche del mondo, ma non si constatano tracce di faglie “attive”, cioè in grado di sviluppare terremoti.
Un’affermazione contraddittoria che si fonda sulla teoria del “terremoto caratteristico” – quello del 1908 – che avrebbe un tempo di ritorno di 1.000-1.500 anni ed escluderebbe la possibilità teorica di sismi più deboli ma pur sempre catastrofici (da 6 a 6,6 gradi della scala Richter).
In altre parole, un altro terremoto come quello del 1908 può ripetersi, però da qui ad almeno un millennio.
La faglia responsabile dei sismi della zona sarebbe “cieca”, sepolta a 3.000 metri dal fondo dello stretto di Messina; le altre faglie in superficie non sarebbero riscontrate perché diverrebbero visibili solo quando si attiva quella principale.
Cioè: niente faglie attive in superficie perché tutto dipende da una profonda che però non si vede, e quindi non può essere studiata.
Il ponte sarà costruito per resistere a un sisma di magnitudo 7,1 Richter; ma se fosse avvenuto un terremoto di magnitudo 7,5 mille anni prima di Cristo senza lasciare traccia, vista l’assenza di civiltà e il fatto che la faglia è sepolta?
E se il tempo di ritorno di quel terremoto fosse, poniamo, di 3.000 anni?
Vorrebbe dire che quasi ci siamo?
Nella zona dello stretto c’e’ stato solo un altro terremoto forte dal 1908 a oggi, quello del 1975 ( magnitudo 4,5 Richter) che ebbe come ipocentro proprio la faglia ritenuta responsabile dell’evento di inizio secolo.
Non abbastanza per stare sicuri.
* Mario Tozzi è geologo e Primo Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche