Terremoto 1908: i paragrafi più densi dello speciale di Vito La Colla

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  • Il numero delle vittime

    Il numero esatto delle vittime del sisma del 28 dicembre 1908 non è mai stato accertato con esattezza. Infatti nei crolli e negli incendi dei vari palazzi municipali, nelle due città e in altri centri minori, erano andati distrutti e persi per sempre i documenti dell’anagrafe. A Roma non esistevano copie di questi elenchi; inoltre il fatto che intere famiglie erano scomparse, impediva spesso che qualcuno potesse denunciare la morte dei propri cari. Molti sopravvissuti, inebetiti e assenti, erano stati trasportati altrove, molti bambini orfani erano stati presi amorevolmente da famiglie italiane.

    Da un calcolo approssimativo, tenendo conto dell’entità dei crolli di interi quartieri, si arrivò a ipotizzare queste cifre: 80.000 in Sicilia e 40.000 in Calabria. Centoventimila vittime. Un numero veramente impressionante, “asiatico”, da alcuni contestato per eccesso, da molti altri per difetto. Alcuni giornalisti o studiosi, o funzionari dei ministeri, facevano ammontare il numero complessivo di morti a 90.000, altri a 200.000.

    La cifra di 120.000 è molto vicina alla realtà, secondo molti studiosi di questo avvenimento.

    Ripeto, in nessuna sciagura naturale europea, a memoria d’uomo, si è arrivati ad una cifra così spaventosa. Questa è la caratteristica che pone il terremoto di Messina e Reggio fra gli eventi di primaria importanza, nella storia recente dell’uomo.

  • 20.000 salme sotto le macerie

    A Messina, quando ci si convinse che nessuno poteva ancora essere vivo, là sotto, le ricerche si fermarono e si pose il problema. Rimuovere le migliaia e migliaia di tonnellate di macerie, solo per recuperare i corpi dei poveretti sepolti? Oppure spianare tutto, e fare del suolo della futura rinata città di Messina un enorme ossario? Sì, con dolorosa ma quasi inevitabile decisione delle autorità, i muri pericolanti furono fatti crollare con cariche di dinamite, le macerie spianate con apposite macchine, il suolo di Messina si alzò così di circa due metri, e sopra furono edificate le nuove case antisismiche. Nei punti in cui si trovavano antichi palazzi o chiese, non demoliti dal sisma di fine 1908, il suolo rimase ovviamente l’originale. E’ il caso dell’antica e robusta chiesa della Santissima Annunziata dei Catalani, che rimase in piedi, anche perché aveva muri di largo spessore, ed era stata costruita con molte cure ed attenzione. Oggi, per accedere all’ingresso del tempio, occorre scendere in una specie di grande cortile, sottomesso rispetto al piano stradale (come il suolo delle rovine di largo Argentina, a Roma).

    Le migliaia di cadaveri recuperati, quasi sempre senza prima poterli identificare – talvolta erano così mal ridotti che era francamente impossibile farlo – furono deposti in enormi fosse comuni. A Pellaro e in altre zone della Calabria le salme vennero cremate, all’aperto, per evitare peggiori danni provenienti da epidemie.

    Si calcola che circa ventimila cadaveri rimasero così insepolti, si disfecero con gli anni, e oggi sotto la moderna Messina si trovano altrettanti scheletri, ossa sparse, poveri resti degli Innocenti del 28 dicembre.

  • La polizia, i carabinieri e le autorità civili sono decimate

    Quello che più colpisce chi legge o ascolta il resoconto del terremoto di Messina e Reggio è la quasi totale assenza, nel primo giorno, della forza pubblica. Ma non perché fossero dispersi, spaventati, fuggiti. No. Erano morti anch’essi, i carabinieri, i poliziotti, i finanzieri, i vigili. Nelle sciagure siamo abituati ad aspettare che arrivino le squadre di soccorso locale, prima della messa in moto della macchina organizzativa esterna, diretta dai Ministeri. Dopo un’ora arriva un camion con degli agenti, che prestano i primi soccorsi, qualche ambulanza, un gruppo di medici e infermieri, che danno coraggio e speranza con la sola loro presenza. No. Quel maledetto lunedì mattina nessuno arrivava a recare conforto e aiuto. Gli agenti delle Forze dell’ordine erano morti, o feriti, o impossibilitati ad agire, a soccorrere. Anche loro, come le autorità, come i sindaci, come i medici, come gli infermieri, anche loro sfracellati sotto muri crollati, anche loro intenti ad implorare aiuto e soccorso per il terribile dolore delle ferite, per le emorragie, per le ossa spezzate.

    Certo qualche soldato, qualche poliziotto arrivò. Ma che poteva fare, in mezzo a centinaia di poveretti, laceri, feriti, terrorizzati, tremanti di freddo, che si rivolgevano all’uomo in divisa, credendo che lui sì, poteva tutto.

    Si organizzarono, ad opera dei pochi agenti e di molti generosi volontari, salvataggi di persone in pericolo, rimozione cauta delle macerie, se sotto si sentiva un’implorazione o un lamento. Molti aiutarono molti, la solidarietà umana in questi casi viene esaltata. Molti altri, però, erano come inebetiti, vagavano con lo sguardo allucinato fra i ruderi, scappavano al primo vicino crollo, non agivano, erano inerti e scioccati. Magari avevano perso, come Gaetano Salvemini, tutta la famiglia. Erano apatici, preda del cosiddetto “inebetimento”, che è prodotto dalla reazione catastrofica. Attanasio spiega meglio questa reazione, che a molti suonava incomprensibile. “I giornali del nord riportavano indignati « …i superstiti, fiacchi, avidi, indolenti, non alzano un dito per aiutare, non vogliono nemmeno interrarsi i cadaveri… stanno a guardare mentre le squadre scavano. Al momento del disseppelimento il congiunto superstite annuisce con il capo e dice stancamente: lo riconosco»”.

    A Messina, il sindaco D’Arrigo era scappato lontano, preda di un terrore inconsulto. Il prefetto Trinchieri era incolume, e venne salvato da una squadra di soccorritori. Del comandante del porto, Passino, non si aveva nessuna notizia.

    Le poche autorità efficienti erano alcuni ufficiali dell’Esercito e della Marina, qualche funzionario comunale o prefettizio, qualche medico, qualche amministratore scampato a questa “livella”.

    Erano rimasti uccisi il questore Caruso, il generale Cotta, il procuratore generale Repellini. Moltissimi poliziotti e carabinieri, tecnici, avvocati e ingegneri, insegnanti e alunni, commercianti e sacerdoti.

    Qualche medico generoso, che aveva messo da parte la sorte della sua famiglia, andava in giro a medicare. Sui tavolini di marmo di un caffè, lungo la Palazzata, erano distesi feriti gravi, su cui i medici, con mezzi di fortuna, cercavano di fissare le fratture con legni trovati qua e là, di lavare le ferite, anche con l’infetta acqua di mare. Molti volontari, animati da spirito di umanità e di dedizione, si affannavano a soccorrere o almeno rincuorare i feriti, le persone scioccate per la perdita dei loro cari e della loro casa.

    Oltre i dieci marinai tedeschi della nave Salvador, quasi nessuna autorità era presente, appena arrivò l’alba, a dirigere le opere di soccorso.

  • Le prime iniziative ufficiali

    I capitani di corvetta Cerbino e Ciano avevano quasi subito preso il comando e l’organizzazione degli aiuti da parte delle navi da guerra che, fortunatamente, si trovavano nel porto. La moglie e la figlia di Ciano erano perite nel crollo della casa; ma, con la morte nel cuore, lo spirito di disciplina militare aveva preso il sopravvento. Cerbino invece si era salvato con la famiglia (entrambi gli ufficiali dormivano a casa, con i loro familiari, in quella tragica notte). Ciano era l’ufficiale in seconda dell’incrociatore Piemonte, da tempo fermo nel porto per riparazioni. I due radunarono, con il maggiore dell’Esercito Graziani, un certo numero di soldati (dei trecento che formavano il plenum), e così ebbe vita un’unità di emergenza. Erano le prime ore di luce, e bisognava velocemente prendere alcune decisioni, di fronte all’inimmaginabile che era davanti ai loro occhi. Alcune squadre furono mandate a terra, per prestare i primi soccorsi, e trasportare sulle navi alla fonda i feriti gravi, i bambini, gli anziani.

    Una squadra, dopo un po’ tornò riferendo che il comandante del Piemonte, Passino, era morto nei crolli: allora Ciano prese il comando della nave, mentre Cerbino, più anziano in grado, si mise al comando della squadra di emergenza.

    La primissima cosa da fare, come si è detto prima, era avvisare le autorità del Governo, a Roma. I due decisero di inviare la corvetta Serpente (e non la Spica, come dicono le cronache; questa torpediniera era stata gravemente danneggiata dal sisma) lungo la costa tirrenica della Calabria.

    A cinque ore dalla tragedia, finalmente qualcosa si mosse. I profughi cominciarono ad essere portati, mediante scialuppe, sulle navi alla fonda. I miserabili, scioccati e resi quasi pazzi da quello che avevano provato e visto, terrorizzati dalla città che si rivelava per loro una trappola mortale e un luogo pieno di pericoli, si disputarono selvaggiamente il posto sulle barche. Vi furono tremende risse e tafferugli, che nessuna autorità poteva sedare. Molti calpestarono i feriti, molti camminavano sui cadaveri, molti caddero nelle acque del porto. Alla fine il Piemonte, acciaccato e privo di un’elica, si mise lentamente in navigazione verso ovest, per attraccare al primo porto funzionante.

    ll mare era molto agitato, e la navigazione avvenne con estrema prudenza e lentezza. Solo alle ore 19.30 i marinai attraccarono al porto di Milazzo, centro risparmiato abbastanza dalle scosse.

    La nave Montebello, della società di Navigazione Italiana, raccolse circa cinquecento persone, scampati e feriti. Ma la ressa era tale e il terrore di quello che era successo era così forte, che solo i più giovani, i più forti riuscirono a salire.

    Un treno, messo su con estrema fatica dai pochi ferrovieri rimasti, partì dopo le dieci, pieno fino all’inverosimile: persone sul tetto delle carrozze, in precario equilibrio, scampati che stavano nel tender e nella locomotiva, o abbarbicati ai respingenti. Destinazione Catania. Il viaggio, eseguito con estrema lentezza per le condizioni dei binari e dei ponti, a sud della città martoriata, durò ben dodici ore, anziché due. Catania, allertata, accolse con meravigliosa organizzazione e dedizione i poveri feriti e gli scampati, dando subito alloggio, vitto, medicazioni.

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