Molti scampati si rifugiarono nei vagoni ferroviari alla stazione o nelle vicinanze: offrivano un riparo abbastanza sicuro, non sarebbero crollati ad un’eventuale nuova forte scossa, riparavano dalla pioggia e dal vento. Altri, con feriti anche gravi, portati su barelle improvvisate – porte, scale, materassi – si diressero all’ospedale, per ricevere i primi soccorsi. Ben consci che anche lì avrebbero trovato confusione, mancanza di medicinali, magari pochissimo personale scampato al disastro. Ma certamente un posto dove ricevere un benché minimo aiuto. Era una misera processione di persone seminude, coperte di stracci, sporche di polvere e bagnate fradicie, doloranti e spesso insanguinate, che si trascinavano, fiduciose, verso l’edificio oggetto di tante speranze. Ma l’immagine che si presentò, quella mattina, ai loro occhi che tanto avevano pianto, li lasciò sbigottiti e increduli. L’ospedale, anch’esso, non era altro che un enorme ammasso di rovine, pietre su pietre, solo qualche muro, in attesa di sbriciolarsi anch’esso.
La disperazione più nera attanagliò gli animi dei derelitti, che si abbandonarono, esausti, per terra, aspettando e invocando la morte. Attanasio scrive: “Presto le strade che circondavano l’ospedale frantumato: via Maffei, via di Porta Imperiale, via Conti, si trasformarono in un immenso campo di agonizzanti, in un’orrenda distesa di cadaveri”.
Questa era la tragedia di Messina e Reggio, e dei numerosi paesi schiacciati dalla forza della natura. Gente che moriva, a centinaia di persone al minuto, senza che quasi nessuno li soccorresse.
Oltre la fame li tormentava la sete: man mano che progredivano le ore, i superstiti, coperti di polvere, di fango e di stracci, cercavano disperatamente da bere. Tutte le tubazioni ovviamente erano andate distrutte. Da qualche fontanella, miracolosamente, usciva un filo di acqua fangosa: si accesero violente risse, rese ancora più tristi dall’aspetto di chi vi partecipava. Poi qualcuno si accorse che al porto erano pronte, per la partenza, moltissime casse di arance e di mandarini. Vennero prese d’assalto, nei magazzini, dalla folla che si dissetò e si nutrì provvisoriamente in questo modo. Molti altri bevvero l’acqua delle pozzanghere, o raccolsero con mezzi di fortuna le gocce di pioggia che cadevano abbondanti, quasi un pianto disperato della natura di fronte a quello spettacolo miserevole.
Molti barili che galleggiavano sul mare, nel porto, vennero ripescati e disposti sulle banchine. Essi sono visibili in molte fotografie di quei giorni. Servivano anche come barriere, per isolare i medici che apprestavano i primi soccorsi ai feriti gravi, utilizzando, oltre ai tavolini dei caffè davanti alla Palazzata, anche rudimentali tavoli operatori, mediante porte e tavole disposte su sostegni improvvisati.
Man mano che passavano le ore, i sopravvissuti notavano con angoscia che non arrivavano i soccorsi. Solo i marinai di qualche nave che era nel porto – primi fra tutti una decina di marinai della nave tedesca Salvadòr – o di altri piroscafi invitati a fermarsi nelle acque di Messina, erano riusciti a dare un veramente minimo aiuto, e solo nelle zone prospicienti la costa. I viveri che fortunosamente si trovavano in mezzo alle macerie, magari contenuti in qualche armadio sventrato, erano subito preda dei poveretti, che vagavano senza meta, disperati. Molti negozi vennero assaltati, dopo la rottura delle vetrine, e la gente si disputò selvaggiamente una forma di pane, i salumi, la frutta, le bevande imbottigliate.
Ma il freddo e la pioggia continua (era iniziata poco dopo le scosse mortali della notte) reclamavano per le persone all’addiaccio coperte e vestiti di fortuna. Ovviamente nessuno si riparava, come si fa normalmente, sotto i muri o le porte di qualche casa. Molti si industriarono a costruire alloggiamenti provvisori, utilizzando porte divelte, travi, materassi e mobili. La necessità, il terrore di non essere soccorsi, l’incertezza sul domani rendevano tutti frenetici, e alla ricerca disperata di cibo e riparo, per loro e i propri cari.
È agevole constatare, dalle foto e dai filmati dell’epoca, che molti palazzi non crollarono, le facciate, anche di 4-5 piani, rimasero in piedi. Certo, dietro alcune di esse si celava il vuoto, le scale crollate, i pavimenti accatastati uno sull’altro. Ma è anche vero che molti delle migliaia di cittadini che si salvarono, colpiti solo dallo spavento e la disperazione per i lutti, abitavano in case che rimasero in piedi, pur tremando e scuotendosi violentemente.
Queste note vanno bene per qualunque terremoto che fa numerose vittime. Le storie che si sentono raccontare, o che si immaginano senza fatica, sono sempre le stesse.
C’erano, dunque, cittadini intrappolati sotto cumuli di detriti, che non erano feriti, ma erano solo incastrati, magari con le gambe e il bacino bloccati, vivi ma destinati a spegnersi lentamente, per il freddo e la fame, se qualche soccorritore non riuciva a trovarli, prima, e a dissotterrarli poi.
V’erano poi persone con gravi fratture, impossibilitati a muoversi, a trascinarsi; altri che perdevano copiosamente sangue dalle ferite; individui con il torace compresso dalla sabbia e dal cemento, che semplicemente non potevano più respirare normalmente, e ben presto morivano di asfissia. Poveretti che erano inermi, magari solo con qualche graffio, ma intrappolati in uno stanzino bloccato, o protetti da un tetto formato da un letto matrimoniale rovesciato, o un armadio robusto, o una trave che sorreggeva montagne di massi e blocchi di cemento. Loro si muovevano cautamente nelle tenebre, cercavano qualche alimento, dell’acqua; pensavano, speravano, gridavano e urlavano per attirare i soccorritori: ma nessuno rispondeva mai. Piano piano si spegnevano, nella disperazione, per l’inedia e per il freddo. Fino all’ultimo speravano, si aggiravano nel buio completo del rifugio provvidenziale ma nello stesso tempo spietato, magari parlavano con una persona al di là dei cumuli di macerie, ugualmente viva e in attesa del miracolo.
Da ultimo, abitanti di Messina e Reggio all’aperto, ma in luoghi alti e inaccessibili, senza lunghissime scale, lenzuola da annodare o corde robuste. Su cornicioni pericolanti, su balconi semidistrutti, su angoli esigui di pavimento, che erano parti di una stanza crollata. Aggrappati a ringhiere, inferriate. Sfiniti, si lasciavano andare: per stanchezza, per un malore, per sfuggire alle fiamme, o semplicemente per istinto suicida, dettato dalla disperazione; e precipitavano, proprio come le povere vittime dei due grattacieli newyorchesi, l’11 settembre 2001.
Un episodio, piuttosto toccante, capitò alla famiglia di Gaetano La Corte Cailler, impiegato al Museo Civico. La vigilia di Natale la moglie aveva dato alla luce una piccola, cui venne assegnato il nome Maria. Dopo la terribile notte, pur in mezzo ai calcinacci, alle travi divelte e ai soffitti sgretolatisi, la famigliola riuscì di pomeriggio a uscire quasi indenne dalle rovine, usando lunghe scale di legno precarie e legate le une alle altre. Mancava, purtroppo, solo la piccola neonata, rimasta bloccata chissà dove. Risultava introvabile, in quella indescrivibile confusione. Con la morte nel cuore la famiglia, unitasi ad altri parenti, riuscì fortunosamente ad installarsi in un vagone ferroviario, un vagone merci. Il resto del pomeriggio lo dedicarono alla ricerca di cibo e di vestiti, o almeno coperte.
Passata bene o male la notte, l’indomani tornarono nella disastrata via Cardines, muniti di picconi, vanghe e corde. Lavorarono a lungo, per recuperare la salma della piccola sfortunata. Avevano con sè anche una piccola cassetta, per deporvi il corpo della bimba. Una ragazza, Domenica Costa, ad un certo punto ritrovò Maria. Sotto un soffitto di canne, il corpicino avvolto in uno scialle di lana. Ma era viva! L’incannucciato aveva parzialmente resistito e le aveva salvato la vita. Piangeva per la fame, e subito una popolana, che aveva perso il suo bimbo, si offrì di allattarla, chiedendo poi in lacrime di poterla tenere con sè. Infatti non sapeva che i genitori erano vivi, e l’avevano da poco ritrovata, considerando la cosa un vero miracolo.
La Corte Cailler, poi nominato direttore provvisorio del Museo, ha scritto diverse pagine di testimonianze sue e di suoi conoscenti, che sono risultate utilissime per la ricostruzione dei fatti di quelle terribili giornate.
Un altro caso di questo tipo avvenne all’imprenditore Bonanno, pure a Messina. Nel pomeriggio, spacciandosi per un cugino del console onorario russo, che era deceduto sotto un palazzo, Bonanno aveva ottenuto, al porto, che una squadra di marinai russi lo aiutasse a scavare nelle rovine della sua casa.
Ecco le efficaci parole di Sandro Attanasio: “Là sotto erano la moglie Rosina, figlia del famoso etnologo palermitamo Giuseppe Pitrè, e la figlioletta. Il corpo della donna non era stato trovato ma, alla fine, la bambina venne tratta fuori. Il padre pazzo di gioia afferrò la piccola e se la strinse forte forte al petto. Baciandola e accarezzandola l’avvolse in un lenzuolo per proteggerla dal freddo e la portò via, in cerca di un sicuro riparo. Bonanno corse come un folle. Piangeva, rideva. Parlava alla ritrovata creatura. «La depongo, ma non si muove…la scuoto, la chiamo. Era un cadavere. L’avevo portato meco senza accorgermene, senza aver coscienza di ciò che facevo»”.