Terremoto 1908: il maremoto, le testimonianze di quelle terribili ore

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  • Il Maremoto

    Coloro che abitavano nella Palazzata, una monumentale cinta di edifici che costeggiava per un chilometro e mezzo la Marina, o che dimoravano nelle case che davano sul mare, corsero negli spazi liberi, e senza pericolo di crolli, vicino alle banchine. Si ritenevano, così, al sicuro. Ma ignoravano che lì si annidava un pericolo ancora maggiore, e forse più spietato. Ben presto il mare si ritirò di diversi metri, e subito dopo ondate spaventosamente alte si abbatterono sulle due coste, travolgendo tutto. A Messina scavalcarono il molo, su cui si ergeva una fortezza, trascinarono e sbatterono contro gli edifici barche e battelli di notevoli dimensioni, si avventarono contro le centinaia di poveretti, alcuni feriti gravemente, che si trovavano nei pressi della riva. E trascinarono poi tutto con sè, in mare aperto: tronchi, massi, cadaveri, persone vive, barili, relitti di imbarcazioni, travi, carretti, animali. Le onde erano alte parecchi metri, forse più di quattro, ed erano di una violenza inaudita. Nessuno poteva resistere loro.

    L’acqua del mare in rivolta si aprì un varco fra le strade che si addentravano in città, proseguì mugghiando all’interno. Attraversò i varchi monumentali che si trovavano ogni tanto nel cordone della Palazzata, risalì per buon tratto i letti dei torrenti, sconvolse le navi nel porto, strappò le ancore dal fondale, spinse i piroscafi uno contro l’altro, sfasciò numerose imbarcazioni.

    L’onda si ritirava, dopo aver portato lutti e rovine, e dopo un po’ si ripresentava, leggermente meno alta e meno violenta, ma sempre terrificante. Tre, quattro ondate di tsunami si susseguirono nello Stretto, andando da nord a sud. E occorre ricordare che tutto ciò si verificava nel buio più totale, e rendeva quei momenti ancora più catastrofici.

    Le banchine del porto di Messina scesero dagli originari due metri sopra il livello del mare a mezzo metro sotto.

    Anche nei paesini a nord della città siciliana, nei piccoli centri sul mare, che portavano nomi sereni e quasi poetici (Paradiso, Contemplazione, Pace, Mortelle, S.Agata) il maremoto aveva distrutto le abitazioni, che sorgevano a pochi metri dal mare, in posizione pittoresca.

    Nei giorni successivi, agli inizi del 1909, relitti e cadaveri furono avvistati addirittura lungo le coste della Turchia e della Siria.

    Comunque, contrariamente a quanto è ritenuto da molti oggigiorno, il maremoto dello Stretto uccise molte meno persone di quelle che vennero travolte dal crollo degli edifici. Forse la scena apocalittica fa più impressione, forse la compassione per chi si era avventurosamente salvato ma che poi viene annientato dai gorghi ed annega in mare aperto suscita maggior partecipazione.

    Ma le vittime del maremoto furono senza dubbio in numero molto ma molto minore di quelle del terremoto vero e proprio.

    Bisogna fra l’altro tenere conto del fatto che era estremamente difficile per i sopravvissuti, tranne quelli che abitavano proprio sul lungomare, raggiungere in quei momenti di tregenda, nell’oscurità totale, in mezzo alla polvere e alla caduta continua di materiale, le aree lungo la banchina, a pochi metri dal mare. Le altissime onde dello tsunami arrivarono dopo una decina di minuti: troppo poco per permettere un notevole assembramento di folla in quei luoghi. Anche se poi il mare penetrò violentemente nelle zone dietro la Palazzata e trascinò con sè altri poveretti.

    Oggi, forse per il ricordo del recente tsunami nel Golfo del Bengala (26 dicembre 2004) si tende a ritenere che Messina sia stata distrutta dal maremoto, soprattutto da parte di giovani che si accostano per la prima volta a questa immane sciagura di un secolo fa, come ho letto recentemente in domande apparse in Forum dedicati all’avvenimento.

    Recentemente, all’inizio del 2008, si è avanzata l’ipotesi che, a scatenare il violento maremoto nel piccolo specchio d’acqua dello Stretto, non sia stato direttamente il sisma stesso, bensì una frana sottomarina, nei pressi di Giardini, vicino a Taormina. Infatti da studi e testimonianze (studiosi dell’Università di Roma e di quella di Messina) l’onda violenta colpì prima la costa in corrispondenza di questa località (2-3 minuti dopo la scossa tellurica) e solo dopo una decina di minuti raggiunse le coste di Messina e di Reggio. La frana, molto imponente, fu in effetti scatenata dalle scosse sismiche ma, se non ci fosse stata, non si avrebbe avuto un maremoto di quelle proporzioni. Infatti gli tsunami, in genere, sono prodotti da sismi di intensità superiore al nono grado della Scala Richter; mentre quello di Messina e Reggio Calabria superò di poco il grado settimo. Il maremoto del dicembre 2004, in Indonesia, fu provocato da un sisma di inaudita violenza, superiore al 9° grado Richter.

  • Testimonianze di quelle terribili ore

    Il capitano della nave “Washington” seguì la catastrofe dal mare e così ne racconta:

    “Facevamo rotta da Palermo a Messina; nei pressi del faro messinese, alle 5.20, il mio vascello sussultò tremendamente e fu sollevato in alto; le onde in quel momento non erano alte e io credetti che avessimo urtato contro uno scoglio. Ma nello stesso istante il faro di Messina si spense, sul mare si abbassò una strana nebbia, secca, come fosse polvere, e perdemmo di vista sia il porto di Messina che la costa calabra. Continuai a procedere lentamente, con ogni precauzione, inquieto, percependo che a terra stava accadendo qualche disgrazia.

    Alle 5 e 25 un nuovo scossone sul vascello e un rombo sulla costa. Le scosse e i boati si ripeterono a terra alle 6 e 15, 6 e 40, 6 e 45, accompagnati da fracasso e strepito. Alle 7 stavamo alla fonda immersi nella foschia, la quale diradandosi lentamente ci permise di vedere il faro diroccato. Si avvicinò una barca che ci informò della disgrazia e chiese soccorso. L’imboccatura dello Stretto era ingombra di battelli capovolti, barche, mobili, pezzi di legno. Avvicinandoci alla riva scorgemmo al posto della città mucchi di rovine e dappertutto case diroccate”.

    Il farmacista Fulco dice:

    “Mi trovavo sul ferry-boat che collega Messina e Reggio. Erano le 5 e 20 del mattino. All’improvviso risuonò un forte boato, il livello del mare si abbassò, l’acqua si ritirò, tanto che il vascello toccò il fondo, dopodiché fu sollevato in alto a più di otto metri sopra il livello normale. Vidi dal ferry-boat come l’acqua irrompeva e allagava la stazione, i magazzini, il forte della Cittadella, dove si trovava la brigata d’artiglieria, nella quale, come seppi dopo, morirono quasi tutti i soldati che vi si trovavano. Sulla città si sollevò una densa nebbia, come non si era mai vista, impenetrabile anche alle luci dei riflettori. Appena albeggiò corsi a riva, ma riuscii a muovermi con grande difficoltà: dappertutto vi erano macerie. Non incontrai quasi nessuno. Cercai, con alcuni soldati-artiglieri sopravvissuti che mi erano venuti incontro quasi nudi, scalzi e tremanti per il freddo, di darmi da fare per dar soccorso sotto le macerie, ma ci riuscì di tirar fuori solo due uomini, in quanto intorno a noi crollava ogni cosa, e la polvere dei calcinacci e il fumo degli incendi impediva di respirare”.

    Dalla nave illuminata dalle luci di bordo si poteva scorgere qualcosa sulla banchina: ecco perché Fulco può affermare di aver visto l’onda mostruosa dello tsunami abbattersi sul porto e sugli edifici vicini. Un’altra testimonianza dice che la bella e ricca città e i suoi dintorni accoglievano più di centocinquantamila abitanti; adesso era ricoperta da una nuvola di fumo e polvere, le sue rovine bruciavano, e tra esse, macabri scheletri, si ergevano gli enormi edifici del municipio e dell’albergo “Trinacria”. Quasi tutti i palazzi, l’Università, la Posta, sono scomparsi; la stazione ferroviaria è distrutta fino alle fondamenta, e i ferrovieri e gli operai sono morti schiacciati.

    Dei quattrocento soldati in servizio doganale ne sono morti trecentocinquanta, e quasi tutti i fanti dell’83° e dell’80° reggimento sono rimasti sotto le macerie della caserma… I soldati dormivano, dopo qualche minuto avrebbero dovuto alzarsi… I sopravvissuti raccontano che la loro caserma dapprima si spaccò in due, quindi le due metà si riaccostarono con un terribile urto e si sbriciolarono seppellendo i militi. Alcuni saltarono dalle finestre del pianterreno, sugli altri adesso si è innalzata una collina di pietre e calcinacci. Sono morti tutti gli ufficiali, e le famiglie che vivevano con loro in caserma.

    L’onda del maremoto, alta una decina di metri, si rovesciò sul lungomare, completando la distruzione degli edifici prossimi alla riva già squarciati dalle scosse del sottosuolo e trascinò in mare la gente. Nello Stretto galleggiavano centinaia di cadaveri, riuniti in orribili grappoli sballottati dalle onde.

    Un uomo di Reggio racconta:

    “Nel sonno fui gettato a terra dal letto, e su di me crollarono non so quali pesi; ferito alla testa, al collo e alle gambe perdetti conoscenza, e quando tornai in me riuscii con grande sforzo e sofferenza a trascinarmi fuori del cumulo di macerie acuminate, che mi incidevano la pelle e il corpo. Per la strada vidi un maestro di mia conoscenza, che, barcollando, mezzo svestito, portava sulle spalle la madre e teneva per mano la moglie; tutti e tre tacevano. Ad un tratto, inciampando tra le macerie, egli cadde, lo aiutai a rialzarsi e insieme continuammo attraverso le barricate di rottami verso una piazza, sobbalzando e cadendo di continuo per le scosse del terreno, coperti di polvere, assordati dal fracasso degli edifici che crollavano.

    Giunti in piazza, incontrai un mio conoscente; piangendo, ci abbracciammo fortemente, e solo allora notai che entrambi eravamo quasi nudi. Davanti a noi giacevano le rovine di un orfanotrofio, qualcuno mi disse: ‘Tutti i bambini sono morti’. Per un qualche miracolo un balcone era rimasto intatto, e da lì un’ombra bianca ci gridava: “Aiuto! Qui ne sono sepolti sette!”. Ma quasi nello stesso istante il muro, inclinandosi, crollò lentamente, e l’uomo, dopo un ultimo grido, tacque. La polvere eccitava la sete, e la gente si gettava sulle fontane, ma queste erano asciutte. Corsi verso la stazione telegrafica, ma ormai era già stata distrutta, e ciò che rimaneva si disfece sotto i miei occhi.

    Si udì un rumore sordo proveniente dal sottosuolo, e sentendo come la terra tremava sotto i piedi, mi lanciai verso il Corso, ma fui fermato da soldati della dogana che mi pregarono di aiutarli ad estrarre un ferito da sotto un mucchio di calcinacci. Iniziammo l’impresa, ma una nuova scossa lasciò cadere sul ferito altre pesanti pietre che lo schiacciarono. Da sotto le rovine giungevano urla e lamenti. Con incedere tranquillo e misurato passò innanzi a me un uomo avvolto in un lenzuolo, gli chiesi qualcosa, ma egli né rispose né si fermò, e guardando il suo volto impassibile percepii che era impazzito. Qui e là si muovevano lentamente persone febbricitanti, vestite sommariamente; scavando con le mani tra le macerie, i figli cercavano i padri e le madri, le ragazze singhiozzavano, i bambini piangevano, le donne gridavano, imprecando Dio.

    Qualcuno mi disse che dei 105 malati dell’ospedale se ne erano salvati 12, ma questi stavano morendo per il freddo e soffocati dal fumo degli incendi. Ricordo due militari, che a rischio delle loro vite, si arrampicarono sulle rovine per salvare una famiglia, ed avevano già portato in salvo sette persone. Tutte le case intorno erano abbattute. Il capostazione mi disse che il mare si era prima ritirato per una trentina di metri, e quindi, sollevandosi in un’onda dalla grandezza diabolica si era scagliato sulla riva distruggendo tutto, e ritirandosi nuovamente aveva trascinato in mare persone e macerie; furono gettati sulla riva due battelli a vapore e alcune imbarcazioni a vela, i cui equipaggi perirono. I magazzini del porto furono vuotati, e lungo la riva galleggiavano casse, latte di petrolio e sacchi di pane”.

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