I due ufficiali della Marina militare, Cerbino e Ciano, avendo appreso la notizia della morte del comandante della squadra navale messinese, Passino, presero subito i comandi, in assenza temporanea di altre autorità civili, anch’esse decimate dalle scosse.
Solo dopo un’ora e mezza dall’alba di quel tragico lunedì, fecero partire la torpediniera Serpente verso nord, lungo la costa tirrenica della Calabria, alla ricerca di un telegrafo funzionante. Infatti la prima cosa da fare, importantissima, era di avvisare l’ignaro Governo a Roma perché, conosciuta l’entità del disastro, inviasse i primi soccorsi.
Al comando della Serpente c’era il tenente di vascello A. Belleni, che così poi raccontò la sua esperienza durante un’intervista. La nave uscì lentamente dal porto devastato di Messina, puntando inizialmente verso Villa San Giovanni. Che apparve all’equipaggio come un ammasso di rovine. Come del resto appariva Messina, che in quelle prime ore del giorno si appalesò ai marinai della nave militare, avvolta nella coltre densa dei fumi degli incendi, con il mare tutto pieno di relitti, di carogne di animali, di corpi di vittime travolte dal maremoto; inoltre il tremendo spettacolo mostrava palazzi crollati, serie di cadaveri mutilati distesi accanto alle banchine, folla di donne e uomini, laceri e miserevoli.
Da Villa molte persone, con gesti e con urla, imploravano il soccorso. Ma Belleni aveva la consegna di arrivare il prima possibile ad un porto in cui il terremoto avesse lasciato in piedi i pali del telegrafo. Occorreva per prima cosa avvertire il Governo nazionale. Con la morte nel cuore, il comandante Belleni ordinò di ignorare le richieste di aiuto e di proseguire. Scilla, Bagnara, Palmi: tutte in rovina, con sventurati che facevano dai moli dei porticcioli segni disperati per essere presi a bordo. Sulla nave militare i marinai lavoravano in silenzio, il viso solcato dalle lacrime. Uno di essi chiese a Belleni “Comandante, ma sarà così fino a Napoli?”.
Dopo la foce del Metauro i danni del sisma erano evidentemente minori, e ben presto, dopo cinquanta km. e cinque ore di navigazione dal luogo del disastro, si raggiunse Marina di Nicòtera. Belleni sbarcò, si guardò intorno, e vide che lì il terremoto non era arrivato ferocemente come più a sud. “Il resto d’Italia viveva ancora!”
Subito si recò al telegrafo, che trovò collegato con il nord, ed inviò il primo telegramma. Il testo datogli a Messina era scarno e quasi riduttivo, anche se parlava di distruzione di buona parte di Messina. Ma si accennava ad alcune centinaia di morti – mentre erano decine di migliaia…
Il testo terminava con “Urgono soccorsi per sgombri, vettovagliamento, assistenza feriti – ogni aiuto insufficiente”.
Questo dispaccio, partito verso le ore 14, arrivò a Roma, misteriosamente, solo alle 17. Forse c’erano altre interruzioni sulla linea, e si persero altre tre ore preziose.
A Reggio Calabria, colpita ferocemente dal terremoto e dal maremoto, la situazione era di estrema gravità. Il prefetto della città, Orso, venne salvato ed estratto, incolume, dalle rovine della Prefettura. Subito egli si diresse al suo ufficio, e di là impartì le prime disposizioni per i soccorsi. Anche Orso sapeva che la prima cosa da fare era avvertire il Governo, di cui lui era il rappresentante a Reggio. Il brigadiere della Guardia di Finanza Landuzzi fu incaricato di recare il testo del telegramma al più vicino posto telegrafico rimasto in funzione, ma sulla costa ionica.
Landuzzi fu dotato di un cavallo di artiglieria, e si lanciò al galoppo lungo quello che rimaneva della strada costiera. Ponti e viadotti crollati: occorreva scendere nel letto dei torrenti e poi risalire. Spesso la strada era franata, spesso le onde dello tsunami notturno avevano eroso gravemente la zona costiera. Ma Landuzzi, armato di una grande determinazione, proseguiva senza soste, conoscendo il suo importantissimo compito. Pioveva, e i campi erano diventati pantani. Dopo dieci lunghe ore, percorrendo quasi cento km, il brigadiere arrivò a sera a Gerace Marina, e da quell’ufficio postale, che era il primo funzionante che incontrava, lanciò il drammatico messaggio, che rincalzava e aggravava le notizie di quello di Belleni, dalla costa tirrenica.
“In seguito ad una violentissima scossa di terremoto la città di Reggio è stata quasi completamente distrutta. Vi sono parecchie migliaia di morti. La prefettura ed altri edifici sono crollati. Anche altri Comuni della provincia sono distrutti. Occorrono urgenti soccorsi, viveri, soldati e medicinali poiché la città nulla offre. Il telegrafo e la ferrovia non funzionano. Anche più centinaia di soldati sono morti e fra gli agenti della forza molti sono feriti e alcuni morti.”
Diversi episodi drammatici, fra le migliaia di analoghi rimasti per sempre sconosciuti alla gente, sono ricordati nel libro di Attanasio. Articoli che apparivano sui quotidiani nei giorni successivi al terremoto, interviste rilasciate dai superstiti ai numerosi giornalisti arrivati sullo Stretto da tutta Europa.
Questi cinque si sono tutti svolti a Messina.
FALKENBURG
È il nome del capitano del traghetto Calabria, che alle cinque in punto del 28 dicembre si stacca dal molo del porto di Messina, avvolto nel silenzio della notte. La piccola nave si accinge ad attraversare lo Stretto, manovra compiuta centinaia di volte. Il giovane capitano – il padre è di origine tedesca – è al comando, sotto la cappa del cielo stellato, in una notte non fredda e senza vento.
La nave è piena di viaggiatori che, scesi dalle carrozze a Messina, si apprestavano a salire sui vagoni del treno che li aspettava a Villa San Giovanni. In quegli anni i treni non venivano imbarcati sui traghetti, ed era necessario fare il trasbordo dei soli passeggeri, con tutti i loro bagagli.
Alle 5.21 il traghetto Calabria è in prossimità del centro del braccio di mare. Improvvisamente, un boato terrificante, nel mare si apre come una voragine, il traghetto scende, precipita velocemente, fra le urla dei passeggeri, che si aggrappano dove possono. Fra due alte muraglie di acqua, nel buio angosciante, la nave si risolleva: l’acqua ha riempito di nuovo la voragine. Il Calabria viene sballottato, beccheggia violentemente. Ermanno Falkenburg fa fermare le macchine, e il battello rimane così in mezzo allo Stretto. I passeggeri a bordo sono sconvolti, urlano e piangono.
Le luci elettriche della riva calabrese si spengono improvvisamente e subito dopo la stessa cosa capita alla costa siciliana. Il capitano afferra un binocolo e scruta le due rive. Un’enorme nuvola nera, di polveri e fumo, si innalza rapidamente dalle due sponde dello Stretto di Messina, si congiunge in alto, annulla il firmamento. La polvere cade copiosa sui ponti del Calabria, penetra negli occhi, in bocca, nei polmoni. Il panico a bordo è indescrivibile. Il capitano decide di attendere in mezzo al mare le prime luci dell’alba. Dopo un’ora e mezzo si riavvia verso Messina: il programma di viaggio è drasticamente cambiato.
Il porto della città dello Stretto appare sconvolto, banchine sommerse, crollate, moli scomparsi, naviglio rovesciato o in pessime condizioni. Relitti e cadaveri mutilati galleggiano, in un orrendo viluppo: spettacolo spaventoso. La Palazzata è in alcuni punti crollata, e mostra l’ammasso di macerie che si stende per centinaia di metri alle sue spalle. I passeggeri del Calabria, appena il capitano riesce ad ormeggiare fortunosamente, si lanciano urlando sulla passerella, corrono verso le rovine, alla ricerca dei loro amici o parenti.
MONDELLO
Il giovane sposo Santi Mondello, di ventotto anni, si era alzato alle cinque, perchè doveva essere presente al lavoro, alle Poste, alle ore sei. Il rione di Camaro non era molto lontano dal centro, ma occorreva camminare speditamente e uscire almeno quaranta minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro.
La moglie era agli ultimi giorni di gravidanza. Vestitosi, dopo un bacio alla sposa, il giovane si avvia verso la porta dell’appartamento. Essa si spalanca di colpo e la casa inizia a tremare violentemente. Mondello comprende subito quello che sta avvenendo, e non ha che un pensiero: torna indietro di corsa, entra nella camera da cui era appena uscito e si lancia sul letto, per proteggere la moglie e il piccolo nel suo grembo. Appena in tempo: crolla una trave di legno, che lui riesce a bloccare sulla schiena, ma ferendosi gravemente. Il palazzetto resiste e non crolla. Accorsi subito gli altri parenti presenti, traggono via dal letto il corpo della donna, che sembra stare bene e non avere ferite. Ma il povero Mondello ha la spina dorsale fratturata, e di lì a poco muore. La moglie viene portata sulla piazza, due carri vengono avvicinati, viene steso fra di loro un telo, e così viene alla luce il figlioletto, pochi minuti dopo la scossa micidiale. La poveretta, per la polvere caduta a dismisura sui suoi occhi sbarrati dal terrore, perde la vista, ma salva la vita sua e del bambino.
SALVEMINI
Gaetano Salvemini, nota figura di storico e studioso di politica, era giovane professore all’Università di Messina. Abitava in affitto in un appartamento, con la moglie, la sorella e i cinque figlioli. Quella notte gli sposi si svegliano di soprassalto. Tutta la casa ondeggia paurosamente, e la moglie si lancia verso la vicina stanza, dove dormono i cinque piccoli figli della coppia.
Il pavimento crolla, e trascina tutti i poveretti con sè, tranne Salvemini, il quale si era affacciato al vano della finestra, per osservare quello che avveniva fuori. Il muro maestro tiene, lui non precipita subito nel baratro, anzi si aggrappa alle tende, mentre l’edificio si squassa sempre di più. Ad un tratto il reggitenda cede, e il professore precipita sulle macerie che nel frattempo si sono accumulate. Nonostante egli si trovi al quarto piano, atterra pochi metri più sotto, e le macerie attutiscono l’urto della caduta. Salvemini resta incolume, e puo’ subito uscire all’aperto, disperato e annichilito dalla scomparsa dei suoi sei cari, più la giovane sorella.
Il destino gli riserverà ancora quasi mezzo secolo di vita.
GAMBA
L’astigiano tenore Gamba aveva interpretato la figura di Radames nell’Aida, la sera prima, al teatro Vittorio Emanuele. Era stata una bella serata, le varie arie e la Marcia erano state accolte da molti applausi. Gamba si era ritirato con la famiglia nel suo albergo. Al momento del crollo, la moglie scomparve sotto le macerie e i figli del cantante, cadaveri, rimasero accanto al disperato padre. Il quale era incastrato con le gambe e il bacino sotto le pietre e le assi. Nessuno – come accadde a moltissimi, a troppi – arrivò per soccorrerlo. Ben presto le fiamme degli incendi che stavano torturando la già martoriata Messina arrivarono vicino a lui. Non aveva più scampo. Alcuni testimoni sostengono che Gamba intonò per l’ultima volta, fra i singhiozzi, la romanza finale dell’opera verdiana “Oh terra addio! Addio valle di pianto!”.
Il ruggito dell’incendio dell’albergo Europa mise fine a questo commiato dalla vita così singolare ed eroico.
PROVENZAL
Era professore in una scuola “normale” di Messina. Il giorno della vigilia di Natale era anche il suo giorno natale, ed aveva festeggiato con amici la doppia ricorrenza. Con la consorte e una bambina di pochi mesi abitava in una palazzina, dove domenica sera aveva festeggiato, con biscotti, rosolio e frutta secca, e dopo aver giocato all’immancabile tombola natalizia. Il giorno del suo trentunesimo compleanno qualcuno aveva scattato una curiosa foto, nel laboratorio di scienze dell’Università. Assieme a Provenzal e ad alcuni amici, faceva bella mostra di sè uno scheletro…
Era nativo di Livorno, e sarebbe diventato un noto scrittore, autore di arguti libriccini di poesie e di curiosità. Il fragore, il boato, seguiti dalle violente scosse li spinse ad abbracciarsi, e ad attendere così uniti gli eventi. Ma ad un certo momento la moglie si spostò nella stanza accanto, dove dormiva la domestica, e dove poteva trovare dei fiammiferi. La polvere riempiva tutto, il soffitto si stava spaccando. Quando Provenzal raggiunse la porta, si accorse che il pavimento al di là era crollato; la voce della moglie, da sotto, gridò di non proseguire, “qui precipita tutto”. La famigliola comunque riuscì a salvarsi, e a raggiungere Catania tre giorni dopo con il treno. La cameriera era invece perita sotto i massi.