Come specificato nell’indice, questo speciale si compone di 14 capitoli e oggi presentiamo il nono.
Non prima, però, di ricordare e ringraziare per la collaborazione il primo portale che ha dato spazio al bravissimo Vito La Colla come collaboratore, pubblicando con lo stesso nostro entusiasmo le puntate del suo interessantissimo speciale sul Terremoto: http://www.globalgeografia.com/, un sito internet molto interessante, ricco di curiosità e approfondimenti per chi è interessato al mondo della natura e della geografia.
Verso le undici apparve all’ingresso del porto di Messina il piroscafo Washington.
L’Agenzia Stefani comunicò l’indomani che, al momento del terremoto, la nave si trovava vicino alla costa, a capo Peloro. Un forte scrollone fece pensare al capitano che il piroscafo si fosse arenato. La potente luce del faro si spense, e così le luci sulla costa calabra. Una polvere, simile a nebbia, avvolse la nave, oscurò le stelle, e indusse il comandante Ribaudo a fermare le macchine, in attesa dell’alba. Poco dopo le otto una barca si avvicinò al Washington, comunicando che Messina era quasi completamente distrutta, che vi erano vittime e distruzione ovunque. Altre barche, altri pescherecci si avvicinarono sotto le murate, e invocarono, inutilmente, soccorso.
Verso le nove e mezzo, da Ganzirri, arrivò sotto bordo una barca con un delegato del sindaco del piccolo centro. “Abbiamo mille morti e cinquecento feriti!” gridò il delegato, ma il capitano fece salire a bordo solo un ferito. Dopo più di un’ora il piroscafo si avvicinava alle banchine semidistrutte del porto di Messina, e Ribaudo ebbe l’invito, dalle autorità provvisorie, di recarsi subito a Catania, per imbarcare truppe da portare sul posto dell’ecatombe. La nave si diresse a tutta forza verso Catania, ma senza imbarcare nessuno delle centinaia di feriti o di moribondi, che gemevano e imploravano aiuto sulle banchine del porto! Solo tre baldi giovani, tre militari ebbero la fortuna di trovare una barchetta e furono accolti, quasi per obbligo, sulla nave, subito prima che levasse le ancore. La folla, sulle rive, tumultuava e si accapigliava, per poter scappare da quell’orrenda carneficina, ma la nave Washington proseguì imperterrita, carica di soli quattro scampati! Panico, codardia, indecisione, elenca Attanasio nel suo libro. Non vi fu nessuna seria inchiesta per questa gravissima prova di egoismo, di fronte ad una tragedia così grande. Forse il capitano temeva di far sporcare la sua bella nave?
Nel porto, una nave danese fu costretta a bloccare le macchine: stava partendo di gran corsa, per sfuggire alle richieste di aiuto. Un piroscafo delle Messageries Maritimes, di nome Orenoque e diretto a Marsiglia, forzò lo Stretto, senza nemmeno accennare a rallentare. C’erano segnali marittimi che lo invitavano a farlo, e c’erano le terribili scene di distruzione sulle due rive opposte. Anche un’altra nave passò senza fermarsi: il commercio e gli affari avevano il sopravvento su qualunque emergenza…
Il Washington con solo i quattro giovani fortunati arrivò verso le ore 16 nel porto di Catania, dove le autorità della città appresero finalmente la verità sulla catastrofe. Fino ad allora solo voci, testimonianze per sentito dire, accenni vaghi. Il fatto che sia il telegrafo sia la ferrovia non fossero in condizioni di funzionare subito, ma necessitassero di riparazioni, produsse l’eccezionale effetto che, a soli cento chilometri da Messina, la sorella Catania per molte, troppe ore non aveva saputo quasi nulla di quanto era successo veramente.
Il sindaco Console si mise subito all’opera, con estrema solerzia. Avvisò tutti i Prefetti delle altre provincie siciliane e molti sindaci, per mezzo del telegrafo. Invitò a far pervenire subito con speciali convogli ferroviari, senza indugio, viveri e medicinali, e molti medici. Mobilitò i funzionari del Comune, che si misero a raccogliere in tutta fretta materiale per i soccorsi. Il sindaco di Siracusa, Toscano, aveva subito preso contatto con i comandanti delle navi britanniche, che si trovavano ormeggiate nel Porto Grande. Nel contempo telefonò al collega di Augusta, invitandolo a fare lo stesso con il comandante della flotta russa che era in rada. L’invito venne accolto con prontezza e generosità. Le navi delle due flotte straniere si mossero verso lo Stretto non appena furono caricate di ogni cosa che potesse servire per salvare vite umane. Erano in tutto sette, fra corazzate e incrociatori, pronte a salpare verso Messina. Partirono di notte, per non dover arrivare in tutto quel caos durante le ore notturne, e furono in vista del porto di Messina l’indomani, 29 dicembre, verso l’alba.
Medicinali, viveri, ma anche picconi, vanghe, scale, corde, barelle, vennero caricate sulle navi straniere. C’era fra i russi un ufficiale con una cinepresa, di quelle a manovella, di recentissima costruzione. ll cinema era stato inventato da poco più di dieci anni. Era allora pochissimo diffuso l’uso di cineprese. Ma la flotta russa le aveva probabilmente per poter filmare i movimenti delle navi inglesi, e poi riferire al loro Comando notizie sulle caratteristiche di battaglia e di manovra di questi mezzi navali. La cinepresa fu usata, imprevedibilmente, per testimoniare il soccorso alle popolazioni colpite dalla sventura, lo scavo dei marinai, il trasporto delle vittime, la medicazione dei feriti sui tavolini di marmo del lungomare, ad opera di ufficiali medici russi dai lunghi camici bianchi. Alexander von Burger, il colonnello medico di una nave russa, organizzò l’ospedale di fortuna, all’aperto, e operò lui stesso molti feriti.
Queste pellicole russe, rimaste per decenni nascoste in qualche archivio, vennero alla luce solo negli anni Novanta, e furono visionate e poi diffuse, in cassetta, destando emozione e commozione, per le scene ben inquadrate, riprese professionalmente. Oggi sono una veramente eccezionale testimonianza di questo terrificante evento, la morte di migliaia di messinesi, le rovine di questa bella e storica città, l’opera generosa e altruista di questi marinai stranieri, per caso fortuito arrivati poco prima delle navi italiane nel teatro orribile dello Stretto di Messina.
Ecco la cronaca dei fatti che si susseguirono in quel terribile lunedì di cento anni or sono.
I soccorsi che uno potrebbe immaginare fossero organizzati in breve tempo dalle residue autorità cittadine semplicemente non vi furono, perché le stesse Forze dell’ordine erano state decimate dai crolli, numerosi altri poliziotti e carabinieri erano feriti o non in condizione di operare. Gli ospedali erano distrutti, erano morti decine e decine di dottori e infermieri, oltre che numerosissimi ricoverati: da lì ogni soccorso era impensabile. Inoltre le strade erano in gran parte intasate da montagne di macerie, che rendevano quasi impossibile organizzare, da parte dei pochi volontari che si muovevano sul luogo della tragedia, un’ordinata opera di soccorso e di salvataggio dei feriti.
Gli incendi, i crolli alle scosse di assestamento – numerosissime; la ricerca spasmodica da parte di molti cittadini dei propri cari, recandosi di nuovo sul luogo dove sogeva la casa, e chiamando e frugando fra i calcinacci; la ricerca del cibo, dell’acqua e di indumenti per proteggersi dal freddo invernale; la ricerca di un riparo qualunque per la sera e la notte; il buio che avvolgeva, dopo le 17, ogni luogo, e che era interrotto solo dagli incendi spontanei ma anche dai roghi improvvisati, per ottenere calore e luce, con legna raccolta dalle case crollate; l’occupazione di piazze e giardini, unici punti “sicuri” e protettivi; e non ultima la preoccupazione per le quasi sicure aggressioni, appena fosse calato il buio, ad opera di ladri, galeotti evasi, tipi poco raccomandabili. Che approfittavano della situazione: brutti ceffi che pensavano solo a mutare la tragedia universale in un’occasione per arricchirsi, asportanto gioielli, denaro, oggetti di valore.
Tutto questo insieme di preoccupazioni, aggiunte al terribile choc della tregenda nella notte, alla perdita dei propri parenti e amici, al crollo improvviso di tutti i loro sogni, all’incertezza sul domani e sul futuro di Messina e di Reggio Calabria, unite al panico che attanagliava tutti nel vedere che non arrivavano navi di soccorso dal resto d’Italia e che la popolazione era completamente abbandonata a se stessa; tutto ciò creava nell’animo di migliaia di messinesi e reggini, e in tutti gli scampati dal macello nei paesini che attorniavano le due città sullo Stretto, una morsa di angoscia mortale, di senso di abbandono, di terrore per le ore che dovevano seguire.