Terremoto 1908: il dodicesimo capitolo dello speciale nello speciale di Vito La Colla

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  • Si muovono tutte le navi italiane disponibili

    In questi giorni, fino al 2 gennaio 1909, furono assistiti e curati quasi tutti i sopravvissuti. Appena i feriti erano in grado di viaggiare, venivano caricati sulle navi, anche su quelle, numerosissime, giunte da quel giorno in poi da tutta Italia e dall’estero, e trasferiti a Catania, Siracusa, Palermo, Milazzo, Napoli.

    Le fratture, specialmente ai femori, ma anche al cranio e alla colonna vertebrale, venivano immobilizzate con stecche di fortuna. Commozioni cerebrali, cancrene, tetano, febbri altissime, polmoniti, complicazioni cardiache per i più anziani.

    Inoltre, come sempre capita in questo tipo di disgrazie, molti vennero salvati, quasi miracolosamente, dopo dieci-quindici giorni. Erano riusciti a sopravvivere cibandosi di poco olio, di frutta, di pane che erano rimasti per loro fortuna nell’andito dove erano stati bloccati dai crolli.

    Dopo poche ore dall’arrivo delle navi inglesi e russe, giunsero in porto una nave italiana, partita da Napoli, e perciò svantaggiata nel percorso marino da compiere: la Cristoforo Colombo. Seguita, a mezzogiorno, dalle corazzate Regina Elena e Regina Margherita. Arrivò anche la Coatit, con a bordo, oltre ai soccorritori forniti di materiale per l’assistenza ai feriti, anche il ministro dei lavori Pubblici, Bertolini, inviato dal presidente Giolitti per comunicare a Roma, senza indugio, le vere condizioni delle due città e del circondario. Il ministro guardò atterrito lo spettacolo che si presentava ai suoi occhi, e subito inviò un messaggio, per vie straordinarie, che comunicava la realtà al Governo.

    Alle 17.15 venne collocato un filo volante telegrafico, di emergenza, e vennero finalmente ripristinati i collegamenti con Catania e con Palermo. Quest’ultima, ricordiamo, era collegata da un proprio cavo sottomarino con Roma, subito quindi partirono e arrivarono messaggi per organizzare al meglio tutta l’opera di aiuto.

    I treni che giungevano dal Nord si dovevano fermare a Bagnara. Le gallerie erano insidiose e in procinto di crollare, la linea ferrata era interrotta da frane. Il maremoto aveva divelto in più punti, e poi fatti scomparire, decine di metri di binari.

    Il prefetto di Messina, Trinchieri, inviò subito un telegramma a Roma, dal testo estremamente drammatico e vivido. “Il disastro è inconcepibile, supera qualunque supposizione si possa fare. Messina è quasi completamente distrutta. Del palazzo della Prefettura resta solamente la facciata. Gli edifici pubblici e privati sono tutti crollati. Nei mucchi, i cadaveri si contano a decine di migliaia. È impossibile descrivere la costernazione e lo scompiglio generale. I danni sono enormi. Qualunque soccorso non è sufficiente. …Urgono assolutamente soccorsi straordinari di ogni genere”.

    La sera prima, 28 dicembre, a Roma, ormai conosciuta per sommi capi la gravità della situazione, il Governo dispose per la partenza, in direzione di Messina, del maggior numero possibile di navi. L’unico dato positivo, se così si puo’ dire, era che il terremoto aveva colpito le regioni costiere della Calabria e della Sicilia, e che i soccorsi potevano arrivare in breve tempo. Bisognava trasportare con urgenza i sopravvissuti, feriti in maniera grave, agli ospedali di Catania, Palermo e Napoli.

    Ma purtroppo, la concomitanza con le festività di fine anno, con le ferie da tempo programmate, aveva ridotto di molto l’entità degli equipaggi delle varie navi disponibili. Inoltre molti piroscafi erano inutilizzabili, o quasi. La Brin era in un arsenale, l’Umberto si trovava in riparazione. Molte navi, nel porto di Napoli (Coatit, Iride, Vulcano, Tevere) erano prive di equipaggio. La parte della flotta che funzionava sarebbe stata immediatamente operativa, ma si trovava in navigazione per una crociera nell’Atlantico. I semafori della Sardegna riuscirono a comunicare l’ordine di fermarsi e fare urgente ritorno in Italia. Per fortuna la flotta si trovava ancora nel Mediterraneo, nella parte occidentale, fra Algeria e Spagna, e fu agevole mandare i segnali di allarme. La corazzata Regina Elena confermò via radio (alcune navi, le più importanti, erano fornite di rudimentali impianti radio) che sarebbero accorsi a Messina, alla velocità di 15 miglia.

    A Messina nel primo pomeriggio era arrivato un treno da Catania, carico di coperte, indumenti, medicinali e cibo; inoltre truppe, medici e infermieri, tecnici e pompieri. Questi ultimi, per poter trovare posto sul convoglio superaffollato, si erano addirittura sistemati sotto le gambe dei cavalli degli artiglieri.

    Lo stesso giorno partirono dalla città distrutta anche alcune navi, che recavano però pochi feriti a bordo. Il vergognoso comportamento, frutto dell’aridità di cuore dei vari comandanti, o di ordini dalla Compagnia, si verificò sulla nave Mariner, che trasportava solo 16 feriti, e sull’Avvenire, che ne aveva solo 24. Mentre la nave inglese Ebro si mosse verso Palermo con 25 feriti, fra i quali non c’era nemmeno un italiano.

    Nello stesso tempo migliaia di poveri sopravvissuti, feriti o in fin di vita, attendevano spasmodicamente di essere trasportati in ospedali, e curati.

    Lo stesso 29 arrivò nel porto di Messina la nave Napoli, una corazzata italiana comandata da Cagni. Il quale ricevette subito l’ordine di trasferirsi a Reggio Calabria. La costa della città calabra appariva sconvolta: tutte le case che si affacciavano sul mare erano crollate, numerosi gruppi di poveretti, avvolti in bende e cenci, aspettava sotto la pioggia, ormai sicuri che il peggio era già passato. Scesero dalla Napoli 250 marinai, che subito provvidero ad imbarcare centinaia di feriti, alcuni dei quali arrivavano sotto bordo con lance, barchette e scialuppe.

    Il ministro Bertolini temeva soprattutto una grave epidemia, considerato l’elevatissimo numero di cadaveri insepolti, che giacevano in mezzo alle macerie.

  • I reali d’Italia arrivano nello Stretto

    Il 30 dicembre, di prima mattina, arrivò a Messina la nave Vittorio Emanuele, che recava i sovrani d’Italia. Dopo aver percorso, su di una lancia, una rotta parallela alla costa, per osservare il panorama delle distruzioni, i reali tornarono a bordo.

    Il sovrano era sul trono dal 1900, ed era succeduto al padre, Umberto I, assassinato da un anarchico a Monza.

    Assieme alla Vittorio Emanuele, giunsero in porto la Campania, la Lombardia, la Marco Polo (una corazzata) e altre navi militari.

    La regina Elena, che allora aveva 35 anni, si trasferì sulla Campania, che era stata trasformata in tutta fretta in nave ospedale. Indossati normali e semplici abiti da infermiera, si diede subito da fare, soccorrendo, curando, lavando e confortando i numerosissimi feriti, anche moribondi, che arrivavano a bordo. Il suo esempio dava a tutti i medici e gli infermieri un’ulteriore spinta a occuparsi con abnegazione dei nostri poveri fratelli, caduti di colpo in così terribile rovina e miseria.

    Il re Vittorio Emanuele III, con i ministri della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, dei Lavori Pubblici Bertolini e della Marina Mirabelli, scese a terra, nei pressi della Palazzata diroccata. Ad attenderlo c’era il sindaco di Messina, Gaetano D’Arrigo, il quale, per nulla intimorito, si rivolse al sovrano dicendo che l’aiuto era giunto ai messinesi dai russi, e non dagli italiani. Il re lo interruppe dicendo “E lei si fa vivo adesso che tutto è finito?”. Infatti poco prima il prefetto della città, Trinchieri, gli aveva comunicato che il sindaco era scappato, preso dal terrore, e per un giorno si era reso irreperibile.

    Comunque, D’Arrigo venne immediatamente destituito, sia per la fuga che per l’ardita polemica con il capo dello Stato.

    Subito dopo il corteo delle autorità si incamminò fra le rovine, e tutti apparivano fortemente colpiti dallo spettacolo atroce che si presentava loro, dalla quantità di salme riunite subito sotto le rovine, dalle macerie che, a montagne, ingombravano le strade. Sulle macerie si muovevano, instancabili, i soldati e i volontari. Inglesi, russi, italiani: tutti si prodigavano senza riposo per salvare quante più vite umane si potesse. Orlando piangeva in continuazione, mormorando “È troppo…”. Anche Vittorio Emanuele, in genere compassato e riservato, era visibilmente commosso, e aveva le lacrime agli occhi. Abbracciò, scosso dai singhiozzi, un povero e lacero ragazzino, attonito e terrorizzato.

    In una successiva sosta, la macchina fotografica al seguito riprese il sovrano, accanto ai corpi di alcune povere vittime. Il re, allora trentanovenne, e che vestiva l’uniforme militare, aveva le mani in tasca. Subito dopo ci si accorse del fatto, e venne deciso di correggere il negativo – a quell’epoca erano su vetro o metallo – ridisegnando con abile ritocco le braccia, con le mani bene in vista!

    Sconvolto dalla constatazione dell’enormità della strage, dall’apocalittico spettacolo di una città quasi completamente distrutta, il sovrano fece inviare un telegramma al presidente Giolitti (che non si fece vedere a Messina per parecchi mesi) con la famosa frase, che scosse gli animi in Italia e nel resto d’Europa. “Qui c’è strage, fuoco e sangue: Mandate navi, navi, navi e navi”.

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