Il re rimase in Sicilia e in Calabria fino al 3 gennaio, segno del suo interessamento a che tutto scorresse nel migliore dei modi. Visitò tutti i centri, anche i più piccoli, e con la sua presenza rianimò non poco la popolazione, e impresse forza e velocità nelle opere di salvataggio e di ordine pubblico.
Prima di partire firmò, il 2 gennaio, il decreto che istituiva lo stato d’assedio, cioè la legge marziale, nelle due città dello Stretto e nel loro circondario. La comunicazione ufficiale che accompagnava il decreto affermava che la situazione fosse ”per certi versi identica e per altri piu’ grave di quella che si verifica in territori in stato di guerra”.
Intanto la regina, che in un primo tempo era rimasta sulla nave Campania, per organizzare le cure ai feriti e assistere con dedizione i poveretti ivi ricoverati, si trasferì sulla nave a lei dedicata, la Regina Elena. Anche lì era stato organizzato un piccolo ospedale, e i salvati dalle macerie venivano curati e confortati. Un giorno un tizio, esaltato e quasi pazzo, riesce a salire sulla nave. Gridava: “È il finimondo! La terra s’inabissa! Si salvi chi può…”. Forse lo stesso movimento della nave aveva scatenato questi assurdi timori. A queste parole una donna ferita che giaceva febbricitante in un letto si alza con l’intenzione di buttarsi in mare. La regina, che era presente alla scena, le si para dinnanzi a braccia distese, bloccando la porta d’uscita sul ponte. La poveretta si lancia a testa bassa contro il petto e la testa di Elena, che stramazza al suolo con la bocca insanguinata. L’incidente per fortuna non ebbe conseguenze per la sovrana, ma testimonia quei giorni di follia e di esasperazione.
Un po’ di scompiglio regnava nel porto di Messina. La nave Jonio, partita da Napoli con a bordo un battaglione di bersaglieri, dopo essere giunta nei pressi del porto il 29 mattina, dovette rimanere bloccata, all’ormeggio, per un intero giorno. Attorniata da numerosissime barche con a bordo feriti e scampati, attese gli ordini e solo il 30 mattina, dopo ventiquattro ore di inconcepibile perdita di tempo e di risorse, ebbe l’autorizzazione ad imbarcare i profughi. I bersaglieri però non potevano sbarcare, portando con sè il notevole materiale di soccorso: mancavano le scialuppe. Alla fine l’aiutante maggiore Morozzo riuscì a convincere i russi, che arrivarono con le loro lance e fecero sbarcare le truppe italiane!
Gli uomini del soccorso giravano senza soste fra le rovine, alla ricerca di un segno, di un lamento, che li potesse indirizzare verso qualche sopravvissuto, ancora in grado di chiamare, di gridare. I cadaveri giacevano, schiacciati e seminudi, e affioravano dovunque: un numero impressionante. Un orrore continuo. Ma gli sforzi, a due giorni dal sisma, erano tutti per le ricerche di persone da aiutare, di persone ancora vive.
Un lezzo mortale avvolgeva ormai tutta la città. I soccorritori, che giungevano ormai a centinaia e centinaia, ogni giorno – anche da Palermo, Catania, dall’interno della Sicilia – avevano sistemato sulla bocca garze imbevute di sostanze disinfettanti. Ma l’odore atroce pervadeva tutto, e attraversava anche le garze inumidite. Corvi, gatti e cani randagi si aggiravano, cupi, fra le rovine.
Attanasio: “Quando si udiva un gemito, quando si credeva di aver sentito un lamento, cominciava il lavoro febbrile ma prudente di scavo. Sotto muri pericolanti, con le rovine che tremavano. Bisognava spostare grossi massi, travi, sfondare pareti e pavimenti, scavare buche, togliere mattoni, calcinacci, masserizie infrante. Poi, finalmente, la fatica del soccorritore veniva premiata dall’apparizione di un braccio, di una gamba. Si tiravano i corpi gonfi, incollati alle lenzuola, alle coperte. Con croste dovute alla sanie, al sangue, al pus. I soldati sfilavano con il macabro carico delle barelle dalle quali penzolavano cenci, braccia, gambe putrefatte”.
Una prosa sconvolgente, rabbrividente: questo è il seguito di ogni grave terremoto, e quello di Messina e Reggio era il prototipo di ogni terremoto. Il terremoto dei terremoti, come titola un libro sull’argomento, uscito in questi giorni.
“Quando si tiravano fuori persone ancora in vita, avevano gli occhi gonfi, le palpebre tumefatte, la bocca riarsa, piena di terriccio. Le sole parole che pronunciavano era “Haiu siti”. Domandavano di bere e di morire.”
Le isole Eolie erano rimaste quasi indenni, senza alcuna vittima. Solo parecchie abitazioni erano lesionate.
Il 31 dicembre sera, al finire di quell’anno che si era concluso inopinatamente in modo dolorosissimo, una nave (l’Ophir, dell’Orient Line) venne bloccata da una torpediniera, mentre tentava di procedere senza fermarsi dopo l’invito ricevuto. A Reggio fu costretta ad imbarcare 230 feriti e mille profughi.
In Vaticano grande impressione aveva provocato la catastrofe dello Stretto. Il Pontefice era tentato, considerato il fatto enormemente grave, di interrompere la quasi quarantennale prigionia volontaria nei Sacri Palazzi, e accorrere, paterno e partecipe, sui luoghi dell’ecatombe, per pregare pubblicamente per i numerosissimi defunti, e per i molti feriti e debilitati nello spirito.
Sarebbe stato un fatto clamoroso: allora i Papi non viaggiavano (occorrerà aspettare per un fatto simile Giovanni XXIII, nel 1962). Inoltre, a causa dell’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane, nel settembre del 1870, il Pontefice per protesta si era chiuso volontariamente in Vaticano, e non ne usciva per alcun motivo. Dopo Pio IX, anche i due successori, Leone XIII e Pio X, si erano rigorosamente attenuti a questa rinuncia polemica.
Certo, un treno speciale, o una nave apposita, avrebbe potuto trasportare il Santo Padre, con tutti gli onori del caso, fino alle località dello Stretto.
Ma, si commentava nelle sale dei Palazzi pontifici, come sarebbe stato interpretato politicamente il fatto? La Santa Sede con questo gesto inatteso riconosceva l’Italia, che aveva con le sue truppe occupato Roma e di fatto relegato il Papa nella sua cittadella? Il significato di questa uscita, pur provocata dall’enormità della sciagura naturale, sarebbe stata certamente interpretata come un cedimento da parte del Pontefice, una mano tesa al Governo italiano e al Re per accordarsi e mettere una pietra sopra l’annosa Questione Romana. I prelati consiglieri del Papa furono concordi nello sconsigliare vivamente il viaggio: si disse, pubblicamente, che il motivo era da ricercarsi nella volontà di Pio X di non recare intralcio alle opere di soccorso, e di non distogliere ingenti forze di polizia e dell’esercito dalla loro attività nelle zone colpite. D’altra parte il Papa, personalmente, si dimostrò contrario anche alla sola sua uscita dai sacri Palazzi con destinazione la basilica di Santa Maria Maggiore, per incontrare ivi gli sfollati dalle zone colpite.
Rimane ancora da parlare, in questa fitta ma incompleta rievocazione della catastrofe dello Stretto – che si interessa solo al giorno del sisma e a quelli immediatamente successivi – degli sciacalli, che imperversano, in ogni parte del mondo, laddove c’è stata una grave sciagura, una tragedia immane.
Subito dal giorno del terremoto, quel sinistro 28 dicembre, si aggiravano fra le macerie persone in cerca di denaro, gioielli, o anche solo di oggetti vari, che rappresentassero un valore. Oltre a tutti quelli che frugavano per trovare un po’ di cibo, dell’acqua, delle coperte, delle tavole per proteggersi dalle intemperie. La proprietà era pressocché tramontata, ogni cosa era di tutti, del primo che arrivava. Il caso di forza maggiore di un sisma di tale portata, che aveva spento d’un colpo la civiltà e l’ordine costituito, e soprattutto l’essere abbandonati a sè stessi, spingeva a questa ricerca continua di alimenti per placare la fame e di oggetti che potessero servire.
Gli sciacalli si arrampicavano sulle rovine e, se trovavano una donna incastrata fra le travi, impossibilitata a muoversi, non solo ignoravano le sue implorazioni, e non la aiutavano, ma le toglievano gli anelli o, dietro promessa di aiuto, si facevano dare i soldi che avventurosamente la poveretta era riuscita a portare con sè.
Non di rado, poi, uccidevano le persone derubate, per non essere in futuro riconosciuti. A molti cadaveri rubavano dalle mani gli anelli, e, se le dita erano gonfie, non esitavano a tagliarle con un coltello. Stessa sorte, purtroppo, toccò in alcuni rari casi anche a donne ancora vive: orrore nell’orrore.
Si è detto che i marinai russi si prodigarono instancabilmente per il soccorso ai poveri fratelli italiani, immersi nell’inferno che era diventata Messina. Erano bene organizzati, muniti di tutti gli strumenti indispensabili, erano grandi lavoratori, avevano coraggio, anche sotto le rovine pericolanti, e si fermavano raramente per riposarsi. Ma, di contro, eseguirono diverse condanne a morte, lì per lì. Certo, su ordine degli ufficiali che li comandavano, e che forse avevano avuto questa consegna dall’ammiraglio che stava sopra di loro. Fucilarono, dopo poche secche domande, in italiano stentato alcuni, in russo o in inglese gli altri, dei tipi che avevano trovato mentre rovistavano dentro un appartamento distrutto. O mentre scappavano, con un sacco pieno di refurtiva. Ora, il commento non puo’ che essere negativo.
Questo soprattutto avvenne nel martedì 29, perché nei giorni seguenti arrivarono notevolissimi rinforzi di carabinieri, poliziotti e finanzieri italiani. Ma ci si domanda sgomenti, come puo’ accadere che militari di un Paese si arroghino il diritto di uccidere persone in territorio straniero, anche se sottoposto ad un’emergenza inconcepibile, e immerso in un’anarchia irragionevole? Non potevano limitarsi ad arrestare questi criminali, e consegnarli alle autorità italiane appena fossero arrivate (e che anzi il 29 mattina già erano presenti a Messina)? Non si era in guerra, anche se in una piena e drammatica emergenza. Inoltre molti di questi cittadini italiani scoperti a frugare, potevano benissimo essere abitanti di quell’edificio parzialmente crollato, che cercavano disperati qualche oggetto caro, o dei soldi nascosti nei cassetti, o del cibo che loro sapevano dove trovare. Come potevano spiegarsi, nel loro magari stentato italiano, con militari duri e spietati, che parlavano un’altra lingua?