Le maggiori eruzioni vulcaniche

MeteoWeb

a cura di Alfio Giuffrida

 

L’anno scorso, ad aprile 2010, era stato il vulcano islandese Eyjafjallajökul (un nome difficile da pronunciare a chi non è madre lingua islandese) a mettere in ginocchio i trasporti aerei sull’Europa del nord, con una colonna di fumo e ceneri che si estese fino alla Francia.

Quest’anno, a maggio, è stato di nuovo un vulcano islandese, lo Grímsvötn, a dare uno spettacolo impressionante della forza della natura e causare la cancellazione di gran parte dei voli che transitano sul Mare del Nord.

Dunque, ci viene da pensare: è l’Islanda la terra dei vulcani? Neanche per idea! La zona dove si trovano la maggior parte dei vulcani attivi sulla Terra è la cosiddetta “cintura di fuoco”, ovvero il bordo dell’Oceano Pacifico, esteso per circa 40.000 km e caratterizzato da un grandissimo numero di apparati vulcanici più o meno estesi, di cui numerosissimi attivi, con un massimo di concentrazione in Indonesia e nella penisola di Kam?atka (Russia orientale).
La stessa fascia è sede di frequenti terremoti (si calcola che il 90% dei terremoti mondiali avvenga all’interno di questa fascia). Il motivo di ciò è una diretta conseguenza dei lenti ma inesorabili movimenti delle varie placche che compongono la crosta terrestre.
In effetti l’Islanda conta circa 130 vulcani attivi (considerati tali dalla geologia se hanno eruttato negli ultimi 10.000 anni), di cui alcuni, come Hekla e Krafla, hanno avuto eruzioni circa ogni 10 anni.
Il vulcanismo islandese è molto particolare, di tipo “fissurale”, caratteristico proprio della dorsale media dell’Oceano Atlantico. Nelle eruzioni fissurali la lava non fuoriesce da un unico cratere ma piuttosto da una spaccatura che si apre nel terreno. Ogni spaccatura può avere una lunghezza anche di diversi chilometri. Al termine dell’attività eruttiva la spaccatura viene riempita e a volte nascosta dalla lava che vi si solidifica fino alla sua riapertura al successivo evento eruttivo.

Altra caratteristica dei vulcani islandesi è quella di emettere una grande quantità di cenere durante le eruzioni. Le ceneri vulcaniche sono minuscole particelle di rocce e minerali aventi un diametro inferiore ai 2 mm. Nel “fungo” di cenere che spesso si vede durante un’eruzione vulcanica è presente anche una grande quantità di vapore, proveniente sia dalle viscere della terra, assieme al magma, sia dalla ebollizione dell’acqua marina, quando l’eruzione avviene sotto la superficie o in prossimità del mare.
La cenere si forma durante la fase esplosiva di un’eruzione poichè, in quel momento le rocce si frantumano ed il magma si separa in minuscole particelle.
Il vulcano Grímsvötn è uno dei maggiori dell’Islanda, ha una grande caldera di cui è visibile solo il bordo meridionale (mentre il resto è sepolto dai ghiacci), nella quale è presente un lago di acqua allo stato liquido, anch’esso di solito nascosto sotto il ghiacciaio Vatnajökull, il più grande d’Europa. Il lago è generato dallo scioglimento del ghiaccio provocato dell’energia termica proveniente dal vulcano.
Una caldera è un’ampia depressione, di forma grosso modo circolare, che solitamente si forma dopo un’imponente eruzione vulcanica; un esempio di caldera sono i “Campi Flegrei” vicino Napoli.
Spesso l’attivazione del Grimsvotn avviene contemporaneamente all’attivazione di alcune di queste fessure vulcaniche.

Abbiamo detto abbastanza dei vulcani islandesi, ma adesso ci viene un’altra curiosità: quali sono state le più grandi eruzioni vulcaniche della storia?
Sicuramente una quantità davvero elevata! In questo articolo ne citiamo solo alcune, scusandoci per molte altre, sicuramente importanti, delle quali, per questioni di spazio, non faremo menzione.
La più catastrofica eruzione di cui si ha notizia, sembra essere stata quella del supervulcano Toba, situato nella parte settentrionale dell’isola di Sumatra in Indonesia, che si fa risalire a 70-78 000 anni fa.
Essa è ritenuta una delle più catastrofiche degli ultimi 500 000 anni. Nella scala VEI (Volcanic Explosivity Index) viene classificata con una magnitudo di 8, il massimo della scala. Se avete letto su questo stesso blog il post sull’eruzione del Tambora, sappiate che quell’eruzione devastante si attestò al grado 7 della scala VEI.

Di un evento accaduto così tanto tempo fa evidentemente sappiamo poco di preciso. Secondo alcuni ricercatori, il volume del materiale eruttato deve essere stato all’incirca di 2800 km cubi, di cui 800 km cubi di ceneri, che seppellirono l’intera regione sotto numerosi metri di depositi. Si calcola che nella regione attorno al vulcano esse raggiunsero un’altezza superiore ai 400 metri e strati sedimentari di oltre 4 m di materiale, che può essere messo in relazione alle stesse ceneri, sono presenti in molte regioni indiane.
Sulla eruzione del Toba è stata formulata la “Teoria della catastrofe”. Essa sostiene che tra 75.000 e 70.000 anni fa, l’esplosione di un supervulcano nell’isola di Sumatra, probabilmente il più grande evento eruttivo negli ultimi 25 milioni di anni, rese ancora più rigido il clima del pianeta che già stava attraversando un’era glaciale. Sicuramente un simile evento lasciò delle ferite tremende in tutto l’ecosistema mondiale del tempo portando molti organismi sull’orlo dell’estinzione.
Alcuni studiosi sul genoma umano [1] sostengono che circa 75.000 anni or sono la specie umana su tutta la Terra fu ridotta a poche migliaia di individui. Questa drastica riduzione della popolazione spiega, in parte, la scarsa variabilità genetica nella nostra specie.
Una comparazione del DNA mitocondriale di appartenenti alla specie umana di diverse etnie e regioni, suggerisce che tutte le sequenze di DNA si siano evolute dalla sequenza di un antenato comune. Basandosi sul presupposto che un individuo erediti i mitocondri solo dalla propria madre, questa scoperta implica che tutti gli esseri umani abbiano una linea di discendenza femminile che deriva da una “donna” (non unica, ma appartenente ad una unica etnia costituita da pochi individui), che gli studiosi di questa materia hanno soprannominato “Eva mitocondriale”.
Alcuni ricercatori[2][3] fanno risalire all’eruzione del Toba la causa scatenante di quella drastica riduzione del genere umano. Questa teoria, attualmente, non è condivisa da tutto il mondo scientifico, per cui ci limitiamo a fornire le informazioni così come formulate dagli autori, lasciando ai lettori la possibilità di approfondire l’argomento su altri testi.

Un’altra eruzione che ha segnato una tappa nella storia della Terra è la cosiddetta “Eruzione minoica di Thera”, o eruzione di Santorini. Essa fu uno degli eventi più catastrofici dell’antichità, del quale si hanno tracce certe, anche se tramandate più nelle leggende che nella storia scritta.
Le stime attuali, basate sulla datazione del radiocarbonio, indicano che l’eruzione è avvenuta tra il 1627 a.C. ed il 1600 a.C. L’eruzione devastò completamente l’isola di Thera (Santorini), compreso l’insediamento minoico di Akrotiri che, secondo molti studiosi, sembra avesse fornito a Platone la base storica riguardo ad Atlantide. Sembra infatti che il magma sottostante al vulcano venne a contatto con l’acqua marina poco profonda dell’insenatura, provocando una violenta esplosione di vapore.
L’evento generò anche uno tsunami alto da 35 m a 150 m che devastò la costa nord di Creta, distante circa 110 km. Lo tsunami ebbe un impatto sulle città costiere quali Amnisos, dove i muri degli edifici furono deformati nel loro allineamento. Sull’isola di Anafi, 27 km ad est, sono stati trovati strati di cenere profondi 3 m, come pure strati di pomice sui pendii a 250 m sopra il livello del mare.

Al tempo dell’antica Roma, il Vesuvio si risvegliò dal suo solito letargo con una eruzione che distrusse in poche ore la città di Pompei, una delle più fiorenti del suo tempo nell’area campana, assieme a molte altre città minori. Correva l’anno 79 dopo Cristo e la data esatta dell’eruzione è attestata da una lettera di Plinio il giovane a Tacito, “nove giorni prima delle Calende di settembre”, cioè il 24 agosto.
Una illustre vittima dell’eruzione fu proprio lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, comandante della flotta di Miseno, che ben conosceva il litorale vesuviano, dove erano le residenze di numerosi personaggi importanti. In quella occasione egli si era prodigato in soccorso delle persone rimaste intrappolate dalle ceneri incandescenti nelle case di Stabia, Pompei ed Ercolano dall’unica via possibile: il mare.
Plinio (il Giovane) descrisse così il cono di fumo e cenere che si levò alto dal cono del Vesuvio: « Non posso darvi una descrizione più precisa della sua forma se non paragonarla a quella di un albero di pino; infatti si elevava a grande altezza come un enorme tronco, dalla cui cima si disperdevano formazioni simili a rami. Sembrava in alcuni punti più chiara ed in altri più scura, a seconda di quanto fosse impregnata di terra e cenere. »
In un’altra lettera a Tacito, Plinio descrive la morte dello zio. Mentre si stava dirigendo verso Ercolano ai piedi della montagna, la nave fu investita da una pioggia di cenere rovente, che diveniva più intensa e calda quanto più si avvicinava, cadendo insieme a grumi di pomice e roccia nera e rovente. Una grande quantità di frammenti rotolava giù dalla montagna.
Plinio si diresse verso Stabia e lì approdò, facendosi ospitare da Pomponiano (Pomponianus), un suo vecchio amico. Nel frattempo, le fiamme scaturivano da ogni parte della montagna con grande violenza, l’oscurità che nel frattempo era calata, faceva aumentare il loro splendore. Nonostante tutto, Plinio decise di riposare. Ma presto la zona si riempì di lapilli e ceneri; i suoi servi lo svegliarono e lui raggiunse Pomponiano e la famiglia. La casa tremava per le forti scosse di terremoto e, nel frattempo, lapilli e ceneri continuavano a piovere all’esterno. Valutati i vari rischi, tutti pensarono che fosse più sicuro uscire all’aperto proteggendosi la testa con cuscini. Anche se era ormai giorno, l’oscurità era più profonda della notte più nera. Plinio era persona robusta ma asmatica, dopo aver bevuto acqua fredda, si sdraiò su una vela che era stata stesa per lui ma, quasi immediatamente, la lava, preceduta da un forte odore di zolfo lo obbligò ad alzarsi. Con l’aiuto di due servi ci riuscì, tuttavia, soffocato dai vapori tossici, morì istantaneamente. Il corpo, rintracciato dopo tre giorni, “sembrava di persona che dormisse”

Al calar della sera del secondo giorno, l’attività eruttiva iniziò a calare rapidamente fino a cessare del tutto. L’eruzione era durata poco più di 25 ore, durante le quali il vulcano aveva espulso quasi un miliardo di metri cubi di materiale.

Tra le eruzioni che hanno segnato la storia dell’umanità, merita senz’altro una citazione quella dell’Etna, del 1669. Essa è considerata tra le più devastanti in epoca storica, ebbe inizio il 25 febbraio 1669 con una serie di violenti terremoti, che sconquassarono il fianco sud-orientale del vulcano provocando danni e crolli a Nicolosi.
L’otto marzo si aprì una enorme fenditura nel fianco della montagna da Monte San Leo (1200 m s.l.m.), a Monte Frumento (2800 m s.l.m.). Lo storico Giovanni Alfonso Borrelli, nella sua “Storia e meteorologia dell’eruzione dell’Etna del 1669”, ebbe a scrivere testualmente: “La mattina di quel dì si offerse altro sorprendente spettacolo, aprendosi, con gran ribombo ed ululato, una ingente fenditura per dodici miglia circa, disuguale nella larghezza di cinque o sei piedi, che estendevasi dal mezzogiorno al settentrione dal piano di S.Leo verso il supremo cratere sino alla pianura di Monte Frumento, dodici mila passi distante da Catania”.

Durante tutto il mese di marzo una enorme quantità di magma fuoriuscì dai vari crateri che si erano aperti, seppellendo con uno strato di lava alto oltre 10 metri i paesi di Nicolosi, Belpasso, Mompilieri, Mascalucia, San Pietro Clarenza, Camporotondo Etneo, San Giovanni Galermo e Misterbianco. Contemporaneamente veniva emessa una grandissima quantità di cenere che cadeva su Pedara, Trecastagni ed altre località del versante etneo mentre un forte tremore vulcanico, incessante, faceva vibrare il terreno in tutta la Sicilia orientale. A fine mese la lava iniziò a seppellire i quartieri occidentali di Catania, compreso il fiume Amenano ed il Lago di Nicito ed arrivò fino al mare, dove formò un piccolo promontorio. L’eruzione si concluse a metà luglio dello stesso anno.
La distruzione di Mascalucia è descritta in un commovente brano del romanzo “Deserto Verde” di Alfio Giuffrida, nel quale si ricorda che l’unico edificio che rimase visibile dei quartieri a nord ovest del paese fu la parte superiore della “Torre del Grifo” che emergeva solitaria in un deserto di lava nera.
In seguito all’eruzione del 1669 la morfologia di tutta l’area sud dell’Etna subì notevoli trasformazioni; alla quota di circa 1000 m s.l.m. si formarono i due caratteristici coni gemelli detti Monti Rossi. È stato interamente seppellito il fiume Amenano che, essendo un fiume perenne, ha scavato il suo corso nel sottosuolo ed oggi emerge nella Piazza Duomo a Catania, che allora era circa sulla linea del bagnasciuga.

Abbiamo già detto dell’eruzione del Tambora, avvenuta ad aprile del 1815, che fu la causa dell’anno senza estate nel 1816, tuttavia in questa breve rassegna sembra corretto farne una piccola menzione.
Il Tambora è considerato il secondo vulcano al mondo per indice di esplosività, stimata a 7 nella scala VEI. Anch’esso si trova nell’area indonesiana, dove il movimento della placca australiana verso una parte della zolla euroasiatica ha creato, nel corso di millenni, i tre vulcani più esplosivi e devastanti finora conosciuti: il Toba, il Tambora e il Krakatoa (in ordine VEI).

L’eruzione del 1815 iniziò l’11 aprile, con una serie di potenti boati che tuttavia non diedero luogo ad emissione di magma. Il giorno 19 dello stesso mese l’attività del vulcano riprese con altri potentissimi boati e l’emissione di una enorme quantità di cenere. L’attività esplosiva durò per circa tre mesi, che provocarono nel Tambora una diminuzione di quota di 1.300 metri; dai più di 4.100 metri originari, la montagna era passata agli attuali 2.850. Complessivamente, vennero proiettati in aria circa 150 miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali.
L’eruzione creò disastri di proporzioni bibliche, da una stima fatta all’epoca,si calcola che essa causò oltre 60.000 morti dovuti sia direttamente all’esplosione che alle pesanti carestie che seguirono il disastro.

Da ultima in ordine di tempo, tra le grandi eruzioni di cui si ha memoria, diamo notizia di quella che viene considerata la più spettacolare, forse perché quella che ha causato i maggiori danni fisici alla crosta terrestre da quanto si hanno notizie documentate e foto originali.
L’eruzione del Krakatoa si verificò nei giorni 26-28 agosto 1883, in Indonesia, nello Stretto della Sonda, fra le isole di Giava e Sumatra. Fu tra le più violente esplosioni vulcaniche nell’era moderna, classificata con VEI pari a 6, equivalente a 200 megaton (200 milioni di tonnellate di Tritolo) (il sito Wikipedia riporta 500 megaton). Le onde d’aria generate dall’esplosione “viaggiarono” sette volte intorno al mondo e il cielo si scurì nei giorni successivi. L’isola di Rakata quasi cessò di esistere, dal momento che oltre due terzi della superficie fu polverizzata, e il fondo dell’oceano che la circondava fu drasticamente alterato. Due isole vicine, Verlaten e Lang, incrementarono la loro superficie a causa della cenere vulcanica che vi si depositò sopra.

L’eruzione ebbe inizio alle ore 13 del 26 agosto, quando si verificò una violenta esplosione, che fu udita fino a 160 km di distanza. Un’ora dopo un’esplosione ancora più forte lanciò ceneri e pomici a 27 km di altezza. Seguirono esplosioni nei giorni successivi, la cenere espulsa era tanta da oscurare completamente il cielo.
L’esplosione di massima violenza si ebbe il 27 agosto: essa formò una nube di ceneri che raggiunse gli 80 km di altezza ed una fitta pioggia di pomici e ceneri cadde su un’area di quasi 880 mila chilometri quadrati (due volte e mezzo l’Italia). I boati si udirono fino a 4800 km di distanza. A questa prima esplosione ne seguirono altre due, altrettanto violente, nello stesso giorno. Durante la notte la forza dell’eruzione diminuì ed il 28 agosto la grande eruzione ebbe fine.
Secondo i vulcanologi, l’eccezionale potenza dell’esplosione del 27 agosto fu dovuta al fatto che nei due giorni di attività si erano aperte delle vaste fessure nella roccia del vulcano. In questo modo l’acqua del mare si riversò nella camera magmatica e l’esplosione risultante del vapore surriscaldato fu quella che distrusse gran parte dell’isola. Il suono dell’esplosione fu avvertito finanche in Australia, lontana 3500 km e nell’isola di Rodriguez vicino a Mauritius, lontana 4800 km. Fu il suono più forte registrato nella storia: tale primato è però conteso dal suono generato dall’eruzione del monte Tambora nel 1815, sempre nell’arcipelago indonesiano.

Le coste delle isole di Sumatra e Giava furono completamente distrutte dagli tsunami causati dalle eruzioni, le vittime furono oltre 36.000. Per tutta la notte del 26 agosto violente onde invasero le spiagge a più riprese, raggiungendo in alcuni punti l’altezza di 40 metri. Una cannoniera (nave militare grande e pesante), ancorata presso la costa dell’isola di Sumatra, su sollevata dal mare e scaraventata al centro della città di Telukbetung. Ma il maremoto successivo fu ancora più violento e la stessa nave fu ritrovata poi in piena giungla.
Le ceneri espulse dal vulcano avevano invaso la stratosfera, che inizia a circa 20.000 metri di quota ed avvolge tutta la terra (la stratosfera è quella parte di atmosfera che si trova al di sopra dello strato dove avvengono i fenomeni meteorologici), restando sospese a quelle quote per alcuni mesi. Nella stratosfera, mancando i movimenti di rimescolamento che di solito si verificano nello strato di atmosfera a contatto con la terra, le sostanze che vi penetrano tendono a spargesi orizzontalmente, rimanendo in essa per un periodo abbastanza lungo. In questo modo le ceneri del Krakatoa coprirono un’area di circa 4 milioni di chilometri quadrati (13 volte l’Italia!). Le particelle più fini, secondo alcuni scienziati, fecero tre volte il giro della Terra, schermando sensibilmente le radiazioni solari e producendo splendidi tramonti di un rosso intenso.

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