Il riscaldamento globale fa migrare i pesci (e non solo loro). Tutti al Nord, lungo rotte che per più di un secolo sono state praticamente impraticabili. Nel 1906 quel diavolo di Amundsen scoprì il famoso Passaggio a Nord-Ovest, la via per scavallare le Americhe dall’Atlantico al Pacifico sfidando un dedalo di arcipelaghi e acque ghiacciate. Nei 100 anni successivi, solo 69 imbarcazioni sono riuscite a seguire l’esempio dell’esploratore norvegese. Lo stesso numero di navi che hanno compiuto il tragitto tra il 2006 e il 2010. L’ultima spedizione parte la settimana prossima, per risolvere quello che il Financial Times definisce «uno dei grandi misteri dell’Impero Britannico»: che fine abbiano fatto le due navi con cui Sir John Franklin lasciò l’Inghilterra nel 1845, con 134 marinai a bordo e l’obiettivo di aprire una nuova via commerciale attraverso il Grande Nord. L’avessero pure trovata, sarebbe rimasta inutilizzata fino all’accelerazione attuale: «Lassù le cose si stanno evolvendo in maniera molto più rapida di quanto avevamo preventivato – dice all ‘Ft Louis Fortier, direttore scientifico di ArticNet, un think tank basato a Quebec City -. In termini di sfruttamento delle vie commerciali, industrializzazione, impatto sulle comunità Inuit, riscaldamento globale: stiamo assistendo a un’accelerazione imprevista».
È il ghiaccio che, sciogliendosi, non riflette più la luce del sole e provoca l’aumento della temperatura dell’acqua. E quindi nuovi scioglimenti. Secondo le autorità Usa le dimensioni della calotta polare si sono ridotte a un livello record a luglio: 7,92 milioni di chilometri quadrati. L’allarme degli scienziati corrisponde al giubilo dei grandi armatori. Certo ci vorranno ancora una ventina d’anni prima che la via del Grande Nord possa diventare una rotta commerciale, facendo risparmiare alle navi, dirette a Tokyo da Rotterdam, 7 mila chilometri rispetto al passaggio per il Canale di Suez. Intanto però si è già scatenata la corsa alle risorse naturali. I Paesi interessati sono soprattutto cinque: Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia e Danimarca. Una corsa pacifica, per il momento. Michael Byers, professore di diritto internazionale alla Columbia University, «per ora» vede «soltanto una straordinaria cooperazione tra i vari Paesi». Non c’è altra questione «su cui Mosca collabori di più con il resto del mondo». Ma non è detto che le cose non possano cambiare: «Di tanto in tanto soprattutto Canada e Russia sfruttano il nazionalismo de “l’Artico è roba nostra” sul palcoscenico della politica interna». Gli Stati Uniti badano al sodo, cioè al dollaro: le compagnie petrolifere come Shell hanno cominciato le ricerche per sfruttare i giacimenti mai toccati (per motivi ambientali) a Nord dell’Alaska (un terzo delle riserve di gas naturale è sopra il Circolo Polare). Cinque anni fa gli Usa avevano solo un paio di rompighiaccio a fronte della flotta russa. L’acquisto di nuovi navigli si è arenato.
Da una parte c’è la crisi economica. Dall’altra c’è sempre meno ghiaccio. Le preoccupazioni circa una possibile sfida geopolitica ed economica nel Grande Nord scoppiarono negli Stati Uniti nel 2007, quando un sottomarino russo piantò una bandiera sul fondale del Polo Nord. Una mossa di propaganda che non ha avuto seguito. Dal 2009 la Russia ha cominciato a far pagare dazio alle navi commerciali di passaggio al largo della Siberia. Il disgelo dei mari non ha portato a una nuova guerra fredda. Tra vent’anni forse, quando tutto sarà più sciolto (e più operativo), con i resti delle navi scomparse affioreranno anche i contrasti maggiori. Per ora tutto si scalda lassù, anche le relazioni diplomatiche. Sarebbe il caso di spostare il Palazzo di Vetro nella Baia di Baffin?
di Michele Farina – http://www.corriere.it/