L’abitato di Cavallerizzo, una piccola frazione del Comune di Cerzeto (Cosenza) è franato il 7 marzo 2005, a seguito di piogge intense e prolungate, con una destabilizzazione in fasi successive di ammassi instabili e contigui che alla fine ha prodotto una grande frana, complessa e composta, del tipo scoscendimento-colata. Il primo franamento di consistenti dimensioni ha avuto funzione di innesco ed è iniziato circa alle ore 2 del mattino dello stesso giorno su una limitata porzione di versante particolarmente instabile, già nota per la sua elevata pericolosità ed in fase di rottura progressiva. Il processo di destabilizzazione si è quindi sviluppato su un’area molto più vasta, mobilizzando corpi franosi preesistenti, per un totale di circa 5milioni di mc. La frana di innesco era delimitata da due nicchie, ben riconoscibili sul terreno per l’abbassamento del piano stradale attraversante l’abitato; abbassamento che era grossolanamente stimabile in 50-100cm e le cui prime segnalazioni storiche risalivano al 1945-50. La frana è stata preceduta, a partire da metà febbraio, da fenomeni precursori e da colate di fango superficiali e diffuse ai piedi dei versanti instabili; mentre la fase parossistica è durata uno-due giorni (7-8 marzo) ed è stata seguita per almeno un mese da movimenti lenti e retrogressivi. Le fasi premonitrici (così come l’evoluzione dei movimenti franosi a partire dal 1999), sono state dettagliatamente documentate e monitorate dal CNR; consentendo in tal modo un tempestivo allertamento (già dal giorno 1 marzo) ed un controllo passo-passo del processo di rottura, basati su valori-limite della velocità. E’ anche grazie a tale monitoraggio che non ci sono state vittime tra la popolazione locale, per lo più abituata a convivere con la frana e conseguentemente incline a sottovalutare il pericolo. Il calcolo a posteriori del momento atteso per il collasso con i metodi esistenti in letteratura mostra come questi ultimi siano meno tempestivi ed efficaci rispetto a quelli basati sui limiti di velocità. La franosità dell?area era stata oggetto di limitate indagini; ivi incluso uno controverso progetto di consolidamento. I monitoraggi eseguiti dal CNR dopo il 1998 e le indagini condotte dallo stesso dopo l’evento franoso per conto della Protezione Civile Nazionale hanno completato il quadro delle conoscenze e chiarito alcune problematiche geologiche che erano rimaste insolute. L’abitato, fondato intorno al 1600, è ubicato sul relitto di un corpo di frana antico, dello spessore di 50-60m: un consistente scoscendimento di rocce metamorfiche su argille messiniane postorogene. Il corpo di tale frana è costituito da metabasiti cataclastiche (detrito e blocchi ad abbondante matrice sabbiosa grossolana), contenenti a tratti – soprattutto in posizione basale – lenti di filladi e metaradiolariti argillificate; esso è stato quindi ricoperto da una consistente coltre di depositi pedemontani olocenici (10-12m di detriti ad abbondante matrice sabbioso-limosa di colore rossastro). Tutti questi ammassi sono stati a loro volta interessati da successive dislocazioni, che li hanno ulteriormente scompaginati ed avanzati verso i fondo-valle, dove l’erosione incanalata ne ha messo a nudo le propaggini. Lo studio è stato supportato da un’indagine storica che ha permesso di ricostruire i fenomeni franosi degli ultimi secoli e da cui risulta un quadro di diffuso e ricorrente dissesto territoriale. La franosità dell?area è caratterizzata dalla sovrapposizione spazio-temporale di diverse tipologie franose; in particolare sono state riconosciute nell?area in esame tre diversi meccanismi franosi: A) gravitativi profondi di versante, in lenta e continua deformazione, connessi con l’attività tettonica; B) mediamente profondi, per scoscendimento-colata di masse detritiche, prodotte dai sollevamenti delle falde acquifere in cui le stesse sono immerse; C) superficiali, di coltri alterate, essenzialmente per colata e prodotte da processi di saturazione per piogge prolungate e/o intense. L’assetto geologico-strutturale è caratterizzato dalla presenza della faglia regionale Nord-Sud che mette in contatto le unità cristalline della Catena Costiera con le formazioni argillose postorogene della Valle del Crati. Lungo tale faglia è presente una consistente fascia di metamorfiti cataclastiche altamente permeabili, della larghezza di un centinaio di metri, che drena ingenti quantità d’acqua e determina notevoli sottospinte, al contatto dei depositi postorogeni. Nell?area in esame, in particolare, la predisposizione idrogelogica è prodotta da due dislocazioni normali alla predetta faglia, che di fatto determinano l?incasso di una sequenza a permeabilità inversa ed un acquifero confinato lateralmente; quest?ultimo passa in continuità nella fascia cataclastica della faglia, trasferendosi in parte in profondità ed in parte nelle cataclasiti dislocate su cui è costruito l?abitato. Le cataclasiti mostrano permeabilità estremamente elevata e pessime proprietà meccaniche (specialmente alla base, dove si trovano lenti di radiolariti argillificate e filladi, e su cui agiscono le sottospinte idrauliche che hanno origine dalla fascia cataclastica). Tutto ciò determina l?instabilità del corpo di frana antico nel suo complesso, ma soprattutto dei versanti più prospicienti agli assi vallivi, sia a Nord (dove l?ultimo movimento franoso risale al 1935–40) che a Sud (eventi significativi nel 1635, 1720, 1758, 1827). Le oscillazioni stagionali della falda prima dell?evento franoso erano di circa 1-2m ed i suoi livelli nel 1999-2000 erano simili a quelli del 1982; mentre negli ultimi anni si osservava un loro leggero sollevamento, con un picco nel maggio del 2004 e con forti ed anomali valori nel marzo 2005.
SUMMARY
La frana dell’abitato di Cavallerizzo, una piccola frazione del Comune di Cerzeto (Cosenza, Calabria) è franato il 7 marzo 2005, a seguito di piogge intense e prolungate, con una destabilizzazione in fasi successive di ammassi instabili e contigui che alla fine ha prodotto una grande frana, complessa e composta, del tipo “scoscendimento-colata”. Il primo consistente franamento ha avuto funzione di innesco ed è iniziato circa alle ore 2 del mattino dello stesso giorno su una limitata porzione di versante particolarmente instabile, già nota per la sua elevata pericolosità ed in fase di rottura progressiva. Il processo di destabilizzazione si è quindi sviluppato su un’area molto più vasta, mobilizzando corpi franosi preesistenti, per un totale di circa 5milioni di mc. La frana di innesco era delimitata da due nicchie, ben riconoscibili sul terreno per l’abbassamento del piano stradale attraversante l’abitato; abbassamento che era grossolanamente stimabile in 50-100cm e le cui prime segnalazioni storiche risalivano al 1945-50. La frana, a partire dalle sue fasi premonitrici, è stata dettagliatamente documentata e monitorata dal CNR, consentendo in tal modo un tempestivo allertamento (già a partire da giorno 1 marzo) ed un controllo passo-passo del processo di rottura, basato su valori-limite della velocità; ragion per cui non ci sono state vittime tra la popolazione locale. Il calcolo a posteriori del momento atteso per il collasso con i metodi esistenti in letteratura mostra come questi ultimi siano meno tempestivi ed efficaci rispetto a quelli basati sui limiti di velocità. La franosità dell?area era stata oggetto di limitate indagini; ivi incluso uno controverso progetto di consolidamento. I monitoraggi eseguiti dal CNR dopo il 1998 e le indagini condotte dallo stesso dopo l?evento franoso per conto della Protezione Civile Nazionale hanno completato il quadro delle conoscenze e chiarito alcune problematiche geologiche che erano rimaste insolute. L?abitato, fondato intorno al 1600, è ubicato sul relitto di un corpo di frana antico, dello spessore di 50-60m: un consistente scoscendimento di metamorfiti cataclastiche su argille messiniane postorogene. L?area è caratterizzata da un diffuso dissesto territoriale, con la sovrapposizione spazio-temporale di diverse tipologie franose. Lo studio è stato supportato da un?indagine sui dissesti del passato, che ha permesso di ricostruire il quadro morfodinamico dei fenomeni franosi degli ultimi secoli. L’assetto geologico-strutturale è caratterizzato dalla presenza della faglia regionale Nord-Sud che mette in contatto le unità cristalline della Catena Costiera con le formazioni argillose postorogene della Valle del Crati. Lungo tale faglia è presente una consistente fascia di metamorfiti cataclastiche altamente permeabili che sono sede di importanti acquiferi. Nell?area in esame, in particolare, due dislocazioni normali alla predetta faglia regionale, determinano un acquifero confinato che passa in continuità nei detriti su cui è costruito l?abitato (aventi pessime proprietà meccaniche, specialmente in corrispondenza delle lenti di radiolariti argillificate di base e su cui agiscono le sottospinte idrauliche che hanno origine dalla fascia cataclastica). Ciò determina l?instabilità del corpo di frana antico nel suo complesso, ma soprattutto dei versanti più prospicienti agli assi vallivi, sia a Nord (dove l?ultimo movimento franoso del 1935-40 è una rimobilizzazione della frana del 1903) che a Sud (dove sono documentati significativi eventi nel 1635, 1720, 1758, 1827).
PREMESSA
L’abitato di Cavallerizzo, una frazione di circa trecento abitanti del Comune di Cerzeto (Cosenza), il 7 Marzo 2005 è stato coinvolto in un vasto movimento franoso, che ha totalmente distrutto circa 30 fabbricati e ne ha danneggiati molti altri (figure 1 e 2). Per ragioni di sicurezza e su decisione della Protezione Civile Nazionale e della Regione Calabria, lo stesso abitato è stato completamente evacuato. La frana ha anche interrotto la strada provinciale SP19 e lambito l’acquedotto che fornisce la città di Cosenza; per quest’ultimo è stato necessario costruire un percorso alternativo di emergenza e quindi spostare definitivamente il suo tracciato. Vista la gravità dell’evento la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza e emanato l’ordinanza emergenziale n°3427 del 29/04/2005. La fase parossistica del movimento franoso, sviluppatasi in modo repentino nelle prime ore dello stesso giorno, non ha prodotto vittime, anche grazie al tempestivo allertamento e al controllo passo-passo del processo di rottura, basato sul monitoraggio della velocità della frana e di “valori-soglia” che erano stati trasmessi dall?IRPI –CNR all?Ufficio Tecnico comunale, già a partire dal 1 Marzo 2005. Tale velocità è stata misurata in superficie ed in condizioni di emergenza sull?apertura della nicchia principale, con frequenza prima giornaliera e quindi oraria; al monitoraggio hanno partecipato soprattutto persone della comunità locale, istruite per far fronte alle specifiche esigenze. E? stato così possibile: evidenziare l?instaurarsi progressivo delle diverse fasi che hanno caratterizzato il processo di rottura; sensibilizzare la popolazione ad un atteggiamento attivo, con l?abbandono -in gran parte spontaneo- dell?abitato; sollecitare l?attenzione di alcuni residenti ai valori estremi di velocità di allarme. L?ultima fase, quella che ha segnato l?inizio del collasso, è iniziata alle ore 2 del mattino ed è stata annunciata dal provvidenziale suono delle campane di uno dei pochi abitanti rimasti nell?area più instabile (figura 1), ormai in un clima di generale evacuazione dell?abitato. Nel complesso la fase emergenziale che ha preceduto l?evento è stata gestita in sede locale senza il necessario coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionalmente competenti, evidenziando quindi l?assenza di protocolli operativi condivisi a vario livello attraverso i quali disciplinare in maniera ordinata le fasi di attenzione, preallarme e allarme proprie di un piano di emergenza. Occorre sottolineare come all?assenza di tali protocolli abbia contribuito il quadro sociale, normativo ed ambientale esistente ma ciò non deve nascondere il fatto che i problemi relativi all?installazione di efficaci sistemi di allertamento possono essere superati, almeno per la gran parte delle frane, grazie al progresso tecnologico e della conoscenza. Disastri come il Vajont oggi non sono più tollerabili e l?esperienza di Cavallerizzo lo riconferma. In questo quadro il CNR ha dato un contributo sostanziale, evidenziando la problematica e progettando, già parecchi anni or sono, reti prototipali di sorveglianza e logiche di allertamento comparate alle diverse tipologie franose [RIZZO, 1990].
La franosità dell’abitato era già stata oggetto di tesi di dottorato dell’UNICAL nel 1982-83 [MONGIOVI, 1982] e di successive indagini comunali, nel 1998-99; queste ultime finalizzate all’esecuzione di interventi sistematori [GUERRICCHIO, 1998], che erano stati visti come risolutori dal Commissario comunale pro-tempore. L’autore, chiamato ad esprimere un parere, in qualità di ricercatore del CNR-IRPI esperto in materia di rischio idrogeologico, per conto del Dipartimento di Protezione Civile Nazionale (DPCN), aveva evidenziato la pericolosità dei siti subito dopo l’evento del 7 marzo 2005 e la necessità di mantenere la frazione evacuata fino a studi più dettagliati sull’evoluzione del fenomeno . I risultati di un anno di indagini eseguite dal CNR-IRPI su incarico comunale, presentati ad un workshop locale il 16.09.1999, mostravano piani di scorrimento localizzati a circa 32m di profondità e livelli di falda (con relative oscillazioni) sostanzialmente invariati rispetto al 1982. Successivamente, pur in assenza di specifici incarichi ufficiali e conscio della pericolosità della frana, lo stesso CNR aveva seguito il processo franoso con saltuari monitoraggi inclinometrici e piezometrici, evidenziando nel Maggio del 2004 livelli della falda acquifera anomali e superiori ai massimi livelli storici. A metà Febbraio 2005, a seguito di una stagione di piogge intense e prolungate, venivano osservati una serie di segni preoccupanti. Per cui si intensificava l’attenzione e, alla fine di Febbraio, venivano avviati monitoraggi di emergenza in superficie (alternativi a quelli inclinometrici non più eseguibili). L’evento si è prodotto all’interno di un’area di studio, dove il CNR-IRPI di Cosenza sta applicando, nell’ambito di un progetto europeo interregionale, metodologie di interferometria differenziale satellitare per valutazioni di pericolosità delle frane [RIZZO, 2006]. Immediatamente dopo l’evento la Protezione Civile Nazionale e la Regione Calabria hanno avviato ulteriori indagini, di cui si è fatto carico il CNR (in qualità di Centro di Competenza del DPCN), coordinate dallo scrivente e finalizzate alla valutazione della pericolosità di Cavallerizzo e dei paesi limitrofi, unitamente all’analisi di fattibilità di possibili aree di delocalizzazione dell’abitato (RIZZO, 2005; RIZZO et al, 2005; RIZZO et al, 2005).
INQUADRAMENTO GEOLOGICO – L’area su cui insiste l’abitato di Cavallerizzo è segnata da contatti tettonici Nord-Sud a carattere regionale, per faglie dirette subverticali, tra metamorfiti della Catena Costiera (metamorfiti di alta pressione e bassa temperatura, accostate dai sovrascorrimenti tettonici orogenici) ed argille post-orogene. La tettonica lungo tale struttura ha dato luogo ad estesi fenomeni distensivi, con notevoli dislocazioni subverticali e la messa in posto dei sedimenti argilloso-sabbiosi dei cicli sedimentari mio-pliocenici e plio-quaternari della Valle del Crati. L’area in esame è stata oggetto di diversi rilevamenti geologici e di un recente studio geostrutturale e geomorfologico di dettaglio (figure 3 e 4). In particolare, con riferimento alle metamorfiti della Catena Costiera [TORTORICI, 1982] sono riconoscibili, dal basso verso l’alto:
Filladi da grigio–scure a nerastre, omogenee e a scaglie minute, contenenti rare lenti di quarzo, di età giurassico–cretacica. Questi affioramenti sono riferibili all’Unità del Frido. In corrispondenza dell’abitato questo termine si trova a tratti accostato lateralmente a quello delle cataclasiti. In affioramento le filladi sono rappresentate da un sottile e discontinuo lembo alla base delle masse franate (corpo di frana relitta di figura 4).
Metabasiti riferibili all’Unità ofiolitica (nota anche come Unità di Diamante–Terranova), caratterizzata da litotipi metamorfosati in condizioni di alta pressione e bassa temperatura. Essa è localmente rappresentata da vari litotipi, tra cui argilliti silicee, calcari marnosi, metaquarziti, passanti verso l’alto a metaradiolariti, con colorazioni tipiche grigio–verdastre o violacee, intensamente alterate ed argillificate, di età giurassico–cretacica. Questo termine, dislocato insieme al precedente dai movimenti franosi e dalle faglie, affiora con diffusa struttura cataclastica, sia sul lato Sud che su quello Nord dell’Abitato. Nella parte centrale di quest’ultimo le strutture cataclastiche scompaiono, mostrando affioramenti poco fratturati (ammassi provenienti dai versanti soprastanti il “gauge” e dislocati per frana). Lo smembramento di questa formazione e la sua struttura cataclastica derivano quindi sia dal sovrascorrimento tettonico, ma soprattutto sia dalle dislocazioni gravitative sia dalla presenza della faglia regionale attiva. La cataclasite, per lo più altamente permeabile per fatturazione e notevolmente alterata, possiede caratteristiche meccaniche pessime ed è il termine più scadente della sequenza.
Calcari metamorfosati, sottilmente interstratificati con livelli metacalcarenitici, metaarenaci e subordinatamente con marne argillose fogliettate, di età cretacica inferiore; costituite da rocce originariamente di ambiente neritico e poggianti sulle unità precedenti, localmente rovesciate. Queste rocce hanno caratteristiche meccaniche discrete, ma sono altamente permeabili per fratturazione; per cui, insieme alle metamorfiti cataclastiche, danno origine ad importanti acquiferi sulle formazioni impermeabili (filladiche e/o argillose) sottostanti.
Con riferimento alle unità postorogene sono riconoscibili, dal basso verso l’alto:
Gessi e gessareniti massivi, microcristallini, di età messiniana. Argille ed argille–marnose, di colore grigio scuro, ricche in montmorillonite ed altamente plastiche; fortemente scagliettate e caoticizzate; contenenti a tratti livelli arenaci o gessarenitici, di età messiniana.
Le sequenze messiniane hanno uno spessore alquanto ridotto e sono accostate bruscamente (per tettonica o spinte gravitative laterali) ai termini alti dell?ultimo ciclo sedimentario. Argille e argille siltose, di colore grigio–azzurro, più compatte ed omogenee delle precedenti, plio–quaternarie. Arenarie, sabbie e calcareniti fossilifere, di età plio–quaternaria, in passaggio graduale dalle argille sottostanti. Depositi eluvio–colluviali, pedemontani, ad abbondante matrice sabbiosa, di colore bruno-rossastro, dell?Olocene. Il contatto di faglia tra metamorfiti della Catena Costiera e depositi postorogeni (“master fault”) è segnato da un?ampia fascia, della larghezza di circa un centinaio di metri, ad andamento subverticale, di ammassi metamorfici altamente fratturati (fascia di “gauge”, rappresentata da miloniti e/o cataclasiti) che costituiscono importanti vie di filtrazione (figura 5) e dove si producono elevati carichi idraulici anche a notevole profondità, come già segnalato in altri lavori [RIZZO & BOZZO, 1998]. Lungo la faglia regionale, tali ammassi si trovano spesso dislocati per gravità sulle argille messiniane e sepolti sotto i depositi pedemontani del Pleistocene superiore-Olocene. Si tratta di frane relitte, di cui si hanno esempi documentati anche non lontano dell?area in esame [RIZZO et al., 2005]. In alcuni casi le faglie attive staccano cunei del margine orientale del cristallino che, laddove esistono condizioni geomeccaniche e strutturali favorevoli, sono spinti da movimenti gravitativi profondi contro ed al di sopra degli ammassi argillosi del ciclo postorogeno messiniano, ubicati immediatamente a contatto. A seguito di tali spinte gli stessi ammassi argillosi sono spesso verticalizzati in prossimità del cristallino. Si determinano in tal modo, lungo la fascia cataclastica e di dislocazione tettono-gravitativa, notevoli acquiferi, con azioni di sottospinta sugli ammassi a valle ed elevate pressioni interstiziali; ovvero situazioni idrogeologiche predisponenti ad una instabilità complessa dei versanti, sia superficiale che profonda. Una situazione di questo tipo è presente a Cavallerizzo, dove i metacalcari sono spinti da un creep gravitativo sulle formazioni plastiche ed impermeabili sottostanti (filladi e metabasiti), per cui essi si trovano in posizione avanzata verso Est rispetto al generale andamento Nord–Sud delle formazioni cristalline, spingendo e verticalizzando le limitrofe argille messiniane. La struttura che ne deriva, confermata anche da una analisi morfostrutturale, sarebbe di tipo cuneiforme (Struttura Cuneiforme di Assestamento Gravitativi o “SCATG” [IOVINE et al., 2005]. Tale movimento è pilotato da una dislocazione tettonica verticale dello stesso cuneo lungo due piani sub-paralleli, ad andamento Est–Ovest (a Nord e a Sud dell?abitato), che ha incassato la serie e favorito la formazione di un consistente acquifero (figura 3); quest?ultimo si trova in tal modo intrappolato dentro i metacalcari, è confinato lateralmente e alla base dalle formazioni filladiche ed alimenta con un discreto carico idrico la sottostante zona di “gauge”, estremamente permeabile. Quindi, a partire dalla faglia principale tale acquifero permea verso valle, diffondendosi nei depositi detritici pedemontani e nelle cataclasiti dislocate sulle argille postorogene su cui è costruito l?abitato di Cavallerizzo, perdendo continuità solo nei settori più distali (figura 5).
RISULTATI DELLE CAMPAGNE GEOGNOSTICHE E DI MONITORAGGIO – Tra il 1982 ed il 1998 sono stati eseguiti nell?Abitato di Cavallerizzo diversi sondaggi, alcuni dei quali sono stati attrezzati a piezometro ed inclinometro. I sondaggi eseguiti nel 1982 (tre piezometri) e quelli del 1998 (tre inclinometri e due piezometri) mostravano spessori consistenti di detrito (da 20m a oltre 50m), ed in taluni casi raggiungevano il substrato di argille post-orogene. La parte sommitale del detrito, dello spessore massimo di 12m, osservabile anche in affioramento, si differenziava nettamente per colore (color tabacco) da quello più profondo e presentava caratteristiche composizionali e tessiturali tipiche di un deposito eluvio-colluviale. Sia negli studi del 1982 che in quelli del 1998, il deposito detritico nel suo complesso veniva indicato come una copertura detritica, e veniva ascritto erroneamente ad un antico conoide di deiezione” (GUERRICCHIO, 1998; MONGIOVI, 1982). In realtà la coltre detritica sottostante la copertura eluvio-colluviale, messa a nudo dal movimento franoso del Marzo 2005 e sottoposta ad una rivisitazione dei ritrovati resti di carotaggio dei sondaggi del 1998, mostra chiaramente di essere costituita in toto da metabasiti cataclastiche, con tipiche colorazioni violetto, grigio-verde, più raramente giallastre, dislocate in massa sulle argille postorogene (figura 6); l?estrema fratturazione, connessa con le dislocazioni della formazione, è associata a piani striati in masse altamente alterate e argillificate, aventi pessime caratteristiche geotecniche (tabella 1). Non si notano né elementi di formazioni diverse da quelle riferibili alle metabasiti, né materiale riferibile ad una matrice di natura diversa. Si tratta quindi di metamorfiti cataclastiche, provenienti prevalentemente dalla fascia di gauge, le quali sono state ulteriormente destrutturate dai processi gravitativi che le hanno dislocate sulle argille postorogene. A tratti, soprattutto alla base del materiale dislocato, sono presenti blocchi di metamorfiti e/o lembi di radiolariti e filladi.
A complicare la problematicità degli assetti geologici, la stratigrafia del sondaggio S3 del 1998 (figura 7), ubicato lungo Via degli Emigranti, al margine Nord-Est dell?area più instabile (figure 1 e 3), mostrava un contatto tra detriti e argille postorogene a profondità di 64,40m (GUERRICCHIO, 1998), eccessivamente profondo rispetto al quadro conoscitivo ricostruibile. Infatti, sia il contatto litologico osservato e quotato lungo il versante (circa 40m più in basso della testa dell?inclinometro S3-98), che il piano di scorrimento individuato con prospezioni inclinometriche (34m), risultavano in contrasto con la stratigrafia del sondaggio S3-98; per tali ragioni la stratigrafia questo sondaggio era considerata inaffidabile (figura 7). Gli ulteriori sondaggi (figura 4) eseguiti nel 2005 per conto del DPCN hanno contribuito a chiarire gli aspetti problematici e permesso di ricostruire più in dettaglio l?assetto geologico-stratigrafico dell?area in esame (figura 11). In tutti i sondaggi le cataclasiti dislocate risultano sempre immerse in falda per notevoli spessori. Nonostante esse contengano a tratti lenti di materiali fortemente argillificati, la loro permeabilità è complessivamente molto elevata, dando luogo ad un unico e consistente acquifero. Ciò è confermato sia dalle altezze d?acqua similari nei piezometri Casagrande con prese a varie quote, sia dalle osservazioni di campagna (perdite di carico talmente repentine – con impossibilità di riempire il foro di sondaggio – e tali da non poter effettuare prove di permeabilità a carico variabile).
Descrizione dei profili
I profili A-A?, B-B?, C-C?, ricostruiti anche in base ai dati di sondaggio, evidenziano l?assetto geologico-stratigrafico dell?area in esame e l?antica frana relitta su cui è costruito l?abitato; mentre i profili D-D? ed E-E? mostrano nel dettaglio la situazione stratigrafica in rapporto alla frana recente (figura 7) [RIZZO, 2005]. Dalla ricostruzione stratigrafica si osserva come l?antico corpo di frana sia costituito da un ammasso scosceso dai rilievi soprastanti; il quale è stato successivamente interessato da ulteriori movimenti franosi e smembrato dai processi erosivi; per cui, il contatto al piede con i materiali sottostanti risulta sfrangiato ed in quota rispetto agli alvei attuali (figura 4). L?età dell?antica frana relitta, considerando che i suoi materiali sono stati coperti dai depositi eluvio-colluviali, anche se a loro volta parzialmente dislocati dai movimenti storici e recenti, dovrebbe essere pre-olocenica. La testa della frana relitta è costituita dai metacalcari dislocati su filladi; mentre il corpo di frana è essenzialmente costituito da metabasiti cataclastiche e contiene un unico ed importante acquifero, alimentato dalla struttura geologica di monte. L?ammasso scosceso è localmente avanzato di circa 250m (profilo A-A?), trascinando in avanti sia le filladi che le metabasiti cataclastiche della fascia tettonizzata, con spessore di circa 50-80m. Nel profilo B-B? l?avanzamento del corpo di frana (misurato sulla nicchia) è di circa 150-200m. ed appare più marcato a valle (valutabile in 500-600m) a denotare uno scompaginamento delle masse iniziali nel loro avanzamento veloce, per effetto della notevole energia cinetica. Più a valle, al di sotto del corpo di frana sono presenti le argille messiniane; ancora oltre, il piede del corpo di frana si arresta in prossimità della faglia che mette in contatto le argille mioceniche con quelle plio-quaternarie. Il corpo della frana è diviso in due dalle successive mobilizzazioni che hanno interessato prevalentemente la sua metà inferiore, a partire dal contatto cataclasiti/argille; le relative dislocazioni in superficie, apprezzabili sul fronte delle nicchie esposte sono di limitata entità (<10m) e questa parte inferiore della frana è oggi soggetta nel suo insieme a deformazioni lente e progressive (figura 4). Nella parte immediatamente a valle e a Nord dell?abitato (profilo A-A?), dove è ubicato il sondaggio S5-„98 (profilo A-A?), le filladi sono state strizzate in avanti e sono state localmente ispessite, presumibilmente dai movimenti differenziali dell?antico franamento (più veloci a monte).
Monitoraggi della falda acquifera e dei movimenti franosi
Le figure 8 e 9 mostrano alcuni andamenti dei livelli di falda, tra il 1982 e il 2005, con oscillazioni stagionali che fino al 2001-04 potevano considerarsi non superiori a +/- 2m. I dati di monitoraggio delle prese inserite a varie quote nei piezometri Casagrande evidenziavano valori simili; segno che in tutti i sondaggi strumentati si tratta sostanzialmente di un acquifero unico, in terreni molto permeabili. Nel sondaggio S1-1998 il tetto della falda, ubicato a –25m dal p.c. e con un acquifero di almeno 28m di spessore (figura 11), mostrava tra il 1999 ed il 2000 un’escursione stagionale massima di 1m; la stessa falda subiva un leggero sollevamento tra il 2001 ed il 2004, con un picco nel maggio 2004. Nel sondaggio S2-1998, con un livello di falda a –20m e con uno spessore dell’acquifero di 34m, le oscillazioni stagionali erano di circa 1m; leggeri sollevamenti erano osservabili nel 2001, mentre un picco superiore ai massimi storici si registrava nel maggio 2004 (figura 9). Nel febbraio-marzo del 2005 tutti i livelli di falda erano in crescita; sollevamenti si registravano anche all’interno dei tubi inclinometrici. I piezometri S1-1998 ed S2-1998, che -per la loro posizione- erano i più relazionati con l?innesco franoso, mostravano sollevamenti significativi. I movimenti dei piani di scorrimento nei diversi sondaggi inclinometrici tra maggio 1999 e giugno del 2000 erano di ordine sub-centimetrico; i piani di scorrimento si localizzavano in prossimità dei contatti tra detriti olocenici e cataclasiti e tra cataclasiti dislocate ed argille postorogene del substrato (rispettivamente a circa 12-14m e 30-40 m). Tali spostamenti, per quanto piccoli, erano ben evidenti soprattutto nelle elaborazioni relative alle singole profondità: nel sondaggio S3-„98 risultavano dell?ordine di 0,5cm/anno a circa 34m, con un piano secondario a 14m (figure 10 e 11). Al contempo (settembre 1999-luglio 2000) la velocità di apertura della nicchia più vicina all?inclinometro, misurata con un fessurimetro Eurogard (figura 2) era dell?ordine di 1-2mm/mese; mentre, la velocità della frana, monitorata con le tecniche di interferometria differenziale satellitare, tra il 1997 ed il 2000, risultava essere di circa 2cm/anno [RIZZO, 2006]. Visti il quadro di diffusa instabilità e la consistenza dell?acquifero, nel workshop del 16.09.99 era stato suggerito un intervento pilota di drenaggio graduale e controllato, con attacco a mezza costa sui versanti a Nord e a Sud dell?abitato (figura 12), il cui costo complessivo era stato stimato in 1,3 miliardi di lire. In attesa di interventi e vista la pericolosità del sito, veniva suggerita la messa in posto di sistemi di sorveglianza e allertamento.
DESCRIZIONE DEI PROCESSI FRANOSI – L’area in esame è interessata nella sua quasi totalità da frane che si differenziano per meccanismo di rottura, assetto strutturale ed idrogeologico, a cui si associano diversi scenari evolutivi (figura 4). L’antico corpo di frana su cui è costruito l’abitato è stato generato da uno scorrimento traslazionale veloce in età olocenica (o preolocenica) di ammassi che, dopo il franamento hanno assunto spessori compresi tra 30 e 70 m, oggi interessati da un unico ed esteso acquifero che destabilizza soprattutto la sua parte medio bassa. Il corpo di questa antica frana si inserirebbe all’interno di una più profonda Struttura Cuneiforme di Assestamento TettonoGravitativa (SCATG) [IOVINE et al., 2006]a deformazione lenta, che interessa il rilievo montuoso fin oltre la cresta, ma i cui effetti sono scarsamente apprezzabili e di secondario rilievo per l’attività umana. L’interazione tra assetti strutturali della “master fault”, movimenti gravitativi profondi e grandi frane traslazionali antiche di masse cristalline sulle formazioni postorogene con falde acquifere alla base, costituisce uno dei motivi più diffusi del margine orientale della Catena Costiera (“sistema franoso primario A“). L?instabilità di tale sistema franoso è soprattutto connesso all?attività sismo-tettonica e solo secondariamente a scenari di piogge estremamente intense e prolungate di ordine plurimillennario. Nei versanti pedemontani incisi da vari fossi (S. Maria, Cavallerizzo, Inserti, etc..) sono presenti frane diffuse e di dimensioni minori, ad evoluzione più rapida (sistema franoso secondario B), caratterizzate da scorrimenti rototraslazionali evolventi in colate, con piani di scivolamento che intercettano le propaggini dell?acquifero prima descritto (Sezione D-D? in figura 8); tali frane hanno piani di scorrimento neoformazionali, più superficiali (20–35m) ed inclinati (condizionati dalle scarpate locali) rispetto a quelli dell?antica frana relitta. Le frane di questo sistema sono condizionate dall?evoluzione storica delle scarpate e, in quanto parzialmente immerse in falda, sono particolarmente sensibili al suo sollevamento. Queste frane entrano in crisi soprattutto per piogge intense e prolungate, di ordine infrasecolare/plurisecolare; essendo connesse all?evoluzione delle scarpate, interessano settori via–via diversi dell?intero sistema (ad esempio oggi il settore a Sud dell?Abitato, ma non quello a Nord, che è stato invece interessato da grandi frane dal 1903 fino al 1950–60; figura 13). A quest?ultimo sistema si sovrappone un continuo diffuso di piccole frane superficiali (zone franose), per lo più del tipo colata, con spessori dell?ordine di qualche metro, non immerse in falda e la cui instabilità è direttamente legata ai processi esogeni, tra cui lo scalzamento al piede, l?imbibizione e la saturazione, il ruscellamento. Si tratta di frane attive, che hanno vita breve e che sono in rapida evoluzione, di ordine decennale/infrasecolare (sistema franoso C).
LE FRANE DEL PASSATO
L’evento del 7 marzo 2005 è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di dissesti che hanno minacciato il paese di Cavallerizzo. Numerose sono infatti le citazioni storiche relative ad eventi franosi del passato. In base a tali dati [RIZZO et al., 2005; PETRUCCI, 2005], è stata delineata un’ipotetica evoluzione degli eventi franosi dalla sua fondazione (1550 – 1600) ad oggi. Le frane hanno interessato sia i versanti a Nord che quelli a Sud dell’abitato. Le mobilizzazioni a Nord citate nelle fonti storiche risalgono alla prima metà del Novecento. Quelle a Sud sono ricorrenti a partire da poco dopo la sua fondazione; nel Burrone Inserti, in particolare, diventano significative dopo il 1827. Negli ultimi decenni i versanti più instabili erano quelli che intercettavano la parte bassa di Via degli Emigranti, dove si erano nel tempo delineate evidenti deformazioni e da dove è iniziato il collasso franoso. Si riportano di seguito gli eventi franosi più significativi, riconosciuti da un’indagine storica e rielaborati nella ricostruzione di sintesi di figura 13: a) Nel 1635 e nel 1720, due grandi movimenti franosi interessavano presumibilmente più i versanti a Sud dell’abitato che quelli a Nord, con dislocazione del terrazzo pedemontano e interruzione del collegamento viario Cerzeto–Cavallerizzo; b) Nel 1758 un evento franoso interessava (“per il pericolo che lo sovrastava..”) la parte sommitale del versante (presumibilmente la zona di nicchia che borda a monte l’abitato); c) Nel 1827 un colata determinava l’apertura del “Burrone Inserti”, da cui iniziavano ricorrenti segnalazioni per frane sui versanti all?estremità Sud–Est dell?area oggi franata; d) Nel 1860 erano frequenti le segnalazioni per processi erosivi e frane superficiali di un fosso che passa nell?abitato e scarica acque a Nord, nel “Burrone Cavallerizzo”; e) Nel 1903 una frana interessava i versanti a Nord dell?Abitato mentre il Burrone Inserti era ancora in una fase di sviluppo iniziale (riquadro di figura 13). f) Nel 1935–40 si determinava un esteso ampliamento a monte della frana precedente, a Nord dell?abitato; g) Dal 1945–50 si manifestavano lesioni agli edifici ed al manto stradale nell?area oggi franata come primo innesco. Dal dopoguerra ad oggi l?attenzione dei residenti si incentrava prima sui versanti prospicienti il Burrone Cavallerizzo (a Nord dell?abitato), per spostarsi poi progressivamente su quelli che intercettavano un tratto di circa 150m di Via degli Emigranti, in sinistra idrografica del Burrone Inserti (a Sud dell?Abitato). Quest?ultima area, corrispondente alla zona di primo innesco della frana del 7 marzo, era stata oggetto di segnalazioni per deformazioni della sede stradale e lesioni agli edifici, già a partire dal 1945–50; sulla stessa si evidenziava un vistoso peggioramento del quadro fessurativo negli ultimi 10–20 anni.
SVILUPPO DEI PROCESSI DI INSTABILITÀ NELLA FRANA DEL 7 MARZO 2005
La frana del 7 marzo è stata preparata da piogge intense e persistenti. Dai dati della stazione di Montalto (circa 10 km più a Sud), la stagione invernale 2004-2005 sembra raggiungere un massimo storico per altezze di pioggia giornaliera cumulate su un intervallo plurimensile (3-4 mesi), a cui va aggiunta una modesta nevicata, qualche giorno prima dell’evento catastrofico. Tuttavia, è da osservare che l’analisi della piovosità storica è carente, in quanto tra le poche stazioni pluviometriche dell’area quella più vicina era inattiva da molti mesi; mentre la serie storica dei dati mostra ampie lacune. Segni preoccupanti si erano manifestati a partire dalla seconda metà di febbraio (figura 14), quali: un notevole aumento delle portate delle numerose sorgenti dislocate lungo la faglia regionale (quella del Burrone Inserti, che era più che raddoppiata) – (vedi foto B in figura 14); l?innesco di una franosità superficiale diffusa, ivi compresa quella del Burrone Inserti ai piedi del versante più instabile (E in figura 14); un significativo sollevamento della locale falda acquifera (figura 9); l’inaccessibilità della canna inclinometrica S3–99 poco al di sopra del piano di scorrimento già individuato (28m anziché 34m); un quadro fessurativo visibilmente in aumento (D, F e G in figura 14). Il collasso franoso, iniziato il 7 marzo con uno scoscendimento si è evoluto rapidamente, alimentando gli ammassi in colata già presenti nel Burrone inserti e destabilizzando progressivamente i versanti vicini. La fase parossistica è durata uno-due giorni, preceduta e seguita da movimenti lenti. I movimenti pre-frana, inizialmente circoscritti alla parte bassa di Via degli Emigranti, hanno avuto uno decorso di qualche settimana; mentre quelli post-frana, che hanno mobilizzato progressivamente masse instabili appartenenti a corpi franosi preesistenti, hanno avuto velocità in crescita ritardata e di durata molto maggiore (uno-due mesi) rispetto alla fase parossistica. In particolare, a partire dalle ore 2 circa del 7 marzo, possono essere distinti i seguenti eventi sequenziali (figura 2):
a) Mobilizzazione della zona di primo innesco (parte medio–bassa di Via degli Emigranti, figura 1), per scoscendimento roto-traslazionale e parziale dislocazioni a mezza costa dell’ordine di 10–20 m.
b) Contemporaneo sviluppo di colate superficiali diffuse sui versanti del Burrone Inserti, già soggetti a dissesti nelle settimane antecedenti il 7 marzo; consistente frana in testa alle stesso Burrone, fluitazione e coalescenza delle masse in una consistente colata di fondo valle, abbastanza fluida e rapidamente avanzante oltre la confluenza del T. S. Nicola (zone B,C,D).
c) Collasso dei versanti del tratto centrale di Via degli Emigranti, conseguenti sia all’aumento dei processi di filtrazione sia alla mobilizzazione delle masse limitrofe e formazione di una scarpata di frana di 25–30 m, con fuoriuscita di sorgenti (zona E). A seguito di tali emissioni nei giorni successivi si formava un laghetto di frana.
d) Secondo collasso, poco dopo, del tratto più alto di Via degli Emigranti, all’ingresso dell’abitato, con scarpate di frana dell’ordine di 6–10m (zona E).
e) Destabilizzazione nel periodo 8–12 marzo delle aree limitrofe e più a monte, dove si riattivavano corpi di frana storici, con scarpate fino a 3-4m. Ad Ovest la frana lambiva l’acquedotto provinciale, per cui venivano monitorate le velocità di apertura delle crepe del terreno immediatamente a ridosso (con valori massimi di 0,4-0,6 cm/g).
f) Al contempo, una seconda colata che si era formata nel fosso limitrofo a Sud, si congiungeva alla precedente lungo il Vallone S. Nicola (figura 2).
Alla fine della fase parossistica si individuavano due corpi di colata coalescenti, di cui il primo e più importante rappresenta un fenomeno franoso composto e complesso, del tipo scoscendimento–colata, con una superficie di 14,5 ha e con un volume delle masse destabilizzate stimato in circa 5 milioni di mc (1 milione di mc in colata, 1 milione di mc in collassi per scoscendimenti traslazionali e la rimanenza per lenti e limitati scoscendimenti roto–traslazionali). Sempre a fine processo, il materiale deposto negli alvei assumeva spessori variabili da 1m a 10m e in due tratti in curva, mostrava un’inclinazione tra sponda interna ed esterna (6° alla confluenza tra il Burrone Inserti ed il T. S. Nicola e 4° circa 200m più a valle) a denotare una discreta energia cinetica dei materiali in flusso. I depositi di colata risultavano a tratti stratificati, testimoniando apporti differenziati nel tempo: nella parte alta e più esterna (corrispondenti ai livelli massimi di apporto) dominavano i terreni pluvio–colluviali olocenici di colore bruno rossastro; mentre al di sotto e nelle are più interne, soprattutto delle fasi finali di trasporto, si osservavano i materiali grigo–verdasti tipici delle argille postorogene e delle metabasiti cataclastiche. In sintesi: la frana del 7 marzo si è innescata nel versante instabile a valle di Via degli Emigranti, già oggetto di numerose segnalazioni di pericolosità e di monitoraggi che avevano individuato nella presenza di un consistente acquifero la principale causa di instabilità; la frana “di primo innesco” è stata preceduta da un eccessivo ed anomalo sollevamento della falda acquifera, i cui massimi erano stati rilevati in prossimità del suo coronamento (nel sondaggio attrezzato a piezometro S2-98/99); i movimenti di tale frana, con velocità tipiche di preallertamento, erano evidenti nella settimana antecedente l’innesco; per cui, la progressiva fessurazione della stessa ha richiamato intensi processi di filtrazione, visto che in corrispondenza di tale breve periodo veniva registrato un ulteriore sollevamento di ben 5m della falda acquifera; i processi di filtrazione devono essersi ulteriormente estesi a seguito del primo collasso (7 marzo), determinando in tal modo la progressiva destabilizzazione dei contigui ed antichi corpi di frana (storici) dei versanti a Sud dell’abitato (dal 7 al 10 marzo), con la formazione di nuove emergenze sorgentizie e di un laghetto di frana;
– Dal 10 marzo in poi, il movimento franoso composto e complesso (scoscendimenti successivi evolventi in colata) che si era sviluppato nel Fosso Inserti e nel Vallone S. Nicola a partire dal primo innesco di Via degli Emigranti) proseguiva la sua lenta evoluzione, allargandosi in testa e sui versanti più a Sud, in uno scenario che, se concluso, avrebbe portato ad un unico corpo di frana nella depressione valliva che va dall’abitato fino al cimitero, unendo in tal modo i diversi ammassi franosi ivi presenti; Il processo evolutivo è stato caratterizzato da una lenta decelerazione e si è fermato, in quanto le cause destabilizzanti (piogge e filtrazioni dall’acquifero e dal piano di faglia che lo distribuisce a Nord e a Sud dell’abitato) sono gradualmente scemate in un settore che costituiva di per sé un fronte retrogressivo e di estensione rispetto alle zone più instabili e di innesco; Per la stessa ragione e considerando le modalità di sviluppo della frana è logico pensare che in assenza di primo innesco il processo di destabilizzazione progressiva non si sarebbe attivato. L’inaspettata estensione areale del processo franoso è stata favorita dal sollevamento della falda acquifera e dalla saturazione degli ammassi, conseguente al prolungato ed intenso periodo piovoso del gennaio-febbraio 2005, che avevano abbassato il fattore di sicurezza di tutti gli ammassi instabili, recenti ed antichi.
CRITERI UTILIZZATI PER L’ALLERTAMENTO ED IL CONTROLLO DEL PROCESSO DI ROTTURA
Con il manifestarsi dei primi segni preoccupanti e nell’impossibilità di effettuare misure inclinometriche (per inagibilità della canna), veniva misurata la velocità di apertura della nicchia principale (assimilabile a quella del corpo di frana). Dai primi dati di monitoraggio delle velocità, giorno 1 marzo ci si accorgeva che la velocità del movimento franoso era di circa 0,5 cm/g, ovvero tipica, secondo dati presenti in letteratura [OBONI, 1988], delle condizioni di allerta; per cui veniva attivato, con tecnici e residenti locali, un controllo periodico dei movimenti in superficie, prima con frequenza giornaliera e quindi oraria. La velocità veniva monitorata misurando la distanza in mm (materializzata lungo una tacca sottile) tra i bordi di una estesa frattura che interessava alcuni manufatti (nicchia principale a monte di Via degli Emigranti; figure 1, 2 e 14). I valori, monitorati ad intervalli diversi e su due diverse postazioni di misura (figura 2), venivano calcolati in termini di velocità giornaliera e confrontati con i limiti di velocità suggeriti nel lavoro di OBONI [OBONI, 1988] e da noi prudenzialmente modificati (figura 15). Era stato stabilito che al superamento del valore di 1,5 cm/g, la frequenza di misurazione doveva essere quantomeno portata a 4 ore, anche in orari notturni: situazione che si verificava tra il 4 ed il 5 marzo. Per cui, visto l’aggravarsi della situazione, nella tarda mattinata del 5 marzo veniva installato un distanziometro ad infrarosso (AGA 12) sul terrazzino di un edificio che mirava ad uno specchio in testa al sondaggio S3–99 (figura 2). La strumentazione ed il monitoraggio di questi dati, affidati al proprietario dell’immobile (studente di ingegneria), avveniva ogni quattro ore, con l’acquisizione di 20 letture che venivano quindi mediate. Questa serie di dati subivano forti oscillazioni, presumibilmente connesse con le avverse condizioni atmosferiche (pioggia e vento). Fino al 5 marzo le velocità di allerta, rilevate in entrambe le postazioni di misura, erano simili e in lenta e regolare crescita, prossime ai limiti di preallarme. Il 4 ed il 5 marzo si registrava un incremento più sensibile delle velocità, che segnava il passaggio alle fasi di rottura irreversibile. Tra il 5 ed il 6 marzo le velocità assumevano valori di preallarme e quindi di allarme; mentre nella tarda serata del 6 marzo esse superavano i 4cm/g. Circa alle ore 2 del mattino del giorno successivo, in corrispondenza della stessa lesione veniva osservato un rapido incremento dei movimenti (diversi centimetri nell?arco di qualche minuto) e veniva dato l?allarme. La figura 15 mostra sinteticamente l?andamento delle velocità in rapporto agli avvenimenti. Gli stessi dati sono stati utilizzati per un?analisi a posteriori sulla previsione del tempo di rottura, utilizzando i metodi di SAITO [1965], AZIMI [1988] e FUKUZONO [1985]; i risultati ottenuti consentono di fare alcune valutazioni. Utilizzando il metodo Saito o quello di Azimi si osserva come, per una previsione datata 2-3 marzo la data di collasso sarebbe risultata rispettivamente il 14-20 marzo o il 9 marzo. Mentre, Per una previsione fatta dal 4 marzo in poi i due metodi avrebbero dato valori simili (8-9 marzo), con una valutazione precisa sul giorno dell?evento solo a partire dal 6 marzo. Ovviamente, più ci si avvicina al momento della rottura, più cresce la velocità, seguendo l?andamento iperbolico tracciato nella equazione di rottura di Saito [SAITO, 1965], e più le previsioni diventano realistiche. Se invece si fosse applicato il metodo Fukuzono [FUKUZONO, 1985], che si differenzia dai due metodi precedenti in quanto non considera lo spostamento e/o la velocità ma l?inverso di quest?ultima, la prima previsione utile, databile al 5 marzo, avrebbe fornito un tempo di rottura anticipato rispetto a quello reale. A differenza dei precedenti, il metodo Oboni da noi utilizzato con piccole modifiche cautelative, invece di fare previsioni sul momento della rottura (valide solo a ridosso del collasso e nel caso specifico 1-2 giorni prima) fornisce utili orientamenti sui comportamenti da seguire in base a “limiti di velocità” codificati, i quali sono utili a pianificare l?emergenza su tempi maggiori (che nel caso specifico è stato di una settimana ma che disponendo di precisi sistemi di telemonitoraggio in continuo avrebbe potuto forse essere di almeno tre settimane).
CONCLUSIONI
Le metamorfiti cataclastiche che seguono, con una larghezza di un centinaio di metri, la dislocazione tettonica a carattere regionale sui versanti in sinistra della Valle del Crati, oltre a costituire una importante via di filtrazione, si trovano spesso, unitamente a frammenti di unità metamorfiche, dislocate da processi gravitativi sulle formazioni postorogene. La frana di Cavallerizzo è stata predisposta dal particolare assetto idrogeologico, per la presenza di un consistente acquifero confinato ed alimentato dalle prolungate piogge dell’inverno 2004-2005. La frana ha interessato prima ammassi superficiali in rottura progressiva su piani di scorrimento neoformazionali, e quindi frammenti di corpi di frana storici su piani di scorrimento preesistenti, in un quadro di instabilità complesso ed articolato, testimoniato da numerosi eventi pregressi. La presenza della faglia Est-Ovest che limita a Sud la struttura avanzata della SCATG (o comunque la locale struttura tettonica incassata), lungo il Burrone Inserti, costituisce un’importante via di filtrazione sotterranea delle acque e la formazioni di sorgenti; situazione che è all’origine delle consistenti colate che nel tempo si sono verificate in tale vallone, determinandone la sua apertura già nel 1827. Un intervento di drenaggio profondo prima dell’evento franoso, sarebbe stato sicuramente efficace ed avrebbe probabilmente evitato la catastrofe. Oggi, a seguito dello sconvolgimento morfologico e dei nuovi stati tensionali indotti, anche in considerazione dei futuri scenari di pericolosità e della drastica riduzione dell?area eventualmente utilizzabile, simili interventi non sono più proponibili. Il monitoraggio del processo di rottura evidenzia alcuni aspetti che meritano di essere rimarcati:
a) Le soglie di velocità presenti in letteratura per definire le condizioni di allerta, preallarme o allarme rispondono abbastanza bene alle esigenze utili per individuare e gestire l’emergenza;
b) I modelli di valutazione del momento di rottura presenti in letteratura rispondono abbastanza bene in prossimità del collasso e sono abbastanza efficaci se si dispone di un gran numero di misurazioni (monitoraggi in continuo).
c) Le soglie di velocità rispetto ai modelli di previsione consentono di allertare molto prima e di programmare in molti casi, lo sgombero dell’abitato a rischio.
d) Per evidenziare l’instaurarsi di situazioni critiche e seguire le fasi deformative che precedono il collasso sono da escludere le misure inclinometriche in foro.
e) Estensimetri di superficie dislocati su pochi punti significativi sono sufficienti ad evidenziare l’instaurarsi di situazioni di emergenza; infatti durante queste ultime il corpo di frana si muove nel suo insieme con velocità simili.
f) La presenza di freatimetri e/o piezometri e di altri sensori tradizionali in foro possono favorire una allertamento precoce, aumentando i tempi di attenzione ed intervento.
La frana, oltre ad essere un fenomeno fisico è un evento sociale difficile da gestire, dove si accavallano opinioni diverse, spesso non scevre da logiche di parte. Oggi lo stato delle conoscenze e il progresso tecnologico consentono di prendere decisioni efficaci ed importanti per la salvaguardia dei beni e delle persone, a costi relativamente contenuti. La messa in opera di semplici strumenti di monitoraggio e l’uso di soglie come quelle utilizzate nel caso della Frana di Cavallerizzo possono permettere la realizzazione di efficaci sistemi di allertamento a tutela dell’incolumità delle persone che rispondono in concreto a quanto previsto per la gestione del rischio frana nella Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 febbraio 2004.
Ringraziamenti
Si ringrazia la Protezione Civile Nazionale ed in particolare il geologo Angelo Corazza per l’attività di sostegno alle indagini svolte nell’abitato di Cavallerizzo, a seguito dell’Ordinanza Ministeriale N.3427 del 29 aprile 2005. Si ringrazia il geologo Sergio Soleri per l’aiuto fornito nella redazione del presente articolo.
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