“…si aspettava il ritorno del giorno, che funestissimo sopragiunse. La catastrofe fu annunciata ancora da un temporale misto ad una grande quantita’ di ceneri: i tetti, le strade, i vestiti dei passanti erano sporchi di cenere; una spessa nuvola di cenere velava il sole e faceva un’orribile tenebra; ma verso le ore quattro del giorno il Vesuvio, dalle squarciate cavita’ sotterranee, fatta piu’ larga l’antica voragine, sembro’ vomitare tutte le sue viscere, a tal punto che, le citta’ e i borghi enumerati prima, furono seppelliti fino alla cima dei tetti sia dalla cenere e dal bitume liquefatto, che dalle pietre infuocate; le persone erano oppresse o soffocati dal denso fumo“. E’ il racconto dell’eruzione del Vesuvio avvenuta 380 anni fa, il 16 dicembre 1631, cosi’ come l’ha consegnata alla storia dei documenti un nobile, tale Orazio Feltri firmandosi anche come ‘patrizio napoletano’. Fu quella l’eruzione piu’ catastrofica della storia (probabilmente con oltre 10.000 morti e’ stata l’eruzione che ha fatto piu’ vittime nel napoletano). Il resoconto, inedito, venne redatto cinquanta giorni dopo, quando il vulcano era ancora in attivita’. Questo documento inedito e’ stato trovato tra le carte di Raffaele Matteucci (direttore dell’Osservatorio vesuviano dal 1903 al 1909) e mai pubbicato. L’originale e’ in latino ed e’ indirizzato al Vescovo, futuro cardinale Francesco Maria Brancaccio, cardinale nel 1633 che alla sua morte dono’ alla citta’ di Napoli la biblioteca personale di 22000 volumi. Questa biblioteca divento’ la prima pubblica del Regno di Napoli. La lettera e’ stata ritrovata e tradotta dall’esperto Giovanni P. Ricciardi, fisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia -Osservatorio Vesuviano. G.P.Ricciardi e’ autore del libro “Diario del Monte Vesuvio Venti secoli di immagini“, edito da ESA.
E quindi ecco il giorno fatidico: “e’ al di sotto di questa cima che e’ nello stesso tempo un baratro che, il 16 dicembre 1631, monto’ un’immensa nuvola di fumo nero e caliginoso che nascose improvvisamente la luce del giorno. Questa novita’ spavento’ tanto piu’ maggiormente in quanto era stata preceduta durante la notte da due violenti terremoti: uno verso le ore cinque, l’altro verso la dodicesima. Durante tutta questa giornata, tuttavia, il Vesuvio non ha preso nessuno a tradimento si accontento’ di minacciare senza colpire, ma non senza spaventare: egli lanciava fumo, liquefaceva i suoi materiali interiori, muggiva orrendamente come nei dolori da parto: temibile avvertimento dato a tutti gli abitanti affinche’ placassero la collera di Dio e scongiurassero il flagello che si stava alzando su di loro. Durante la giornata il Vesuvio, per il suo fumo ed i suoi ruggiti, fece tremare i Campani; con l’inizio della notte li fece morire quasi di paura. Questo fumo si trasformo’ in lapilli e sibilanti fiamme; inoltre gli strepiti dell’acceso Monte si sentivano come un cupo tuono e ai numerosi boati si scuoteva il suolo, che frequentemente tremava, a tal punto che i tetti della citta’ di Napoli sembravano crollare piuttosto che oscillare; tutti gli abitanti lasciavano le case per non essere schiacciati sotto le macerie. La maggior parte si teneva all’aperto o nelle carrozze. Un grande numero si rifugiava nei templi; le vie erano piene di persone che correvano gridando; dai templi pieni di folla riecheggiavano le preghiere; si aspettava il ritorno del giorno, che funestissimo sopragiunse“. “Scorreva un alluvione, come si vide, di bituminoso torrente, che sembrava un incendio in un fiume d’acqua, inghiottendo, bruciando tutto nel suo passaggio, travi, tegole, alberi, greggi e animali domestici. Si vedevano uomini immersi nel fango; pesci in secco e nuove scogliere sulla spiaggia costiera del Vesuvio. Si e’ visto il mare presso Stabia e nel porto piccolo di Napoli ritirarsi, come se le navi navigassero nel solido, ma poco dopo riversarsi con lo stesso fragore. Intorno a questo Vesuvio, la’ dove la Campania stendeva poc’anzi felice fecondita’ ogni suono, dove Pomona e Bacco prodigavano i loro doni, il fuoco e l’acqua hanno devastato tutto: i campi hanno perso il loro manto verde e il fogliame; i confini sono stati spostati o sono spariti sotto uno spesso strato di cenere; e’ ormai una terra di nessuno senza divisioni, senza proprietari, appare come il deserto libico squallido e arenoso“. Il vulcano, che si riconosceva da lontano per la sua mole e altezza, “appare adesso mutilato e decapitato, infatti negli incendi precedenti aveva divorato solamente le sue viscere, ma questa volta ha consumato e divorato la sua cima e i suoi vasti fianchi e giornalmente continua a rodere ed a mangiare se stesso“. Il patrizio napoletano scrive che sebbene trascorsi cinquanta giorni dall’eruzione, “ne’ ha cessato di esalare fumo, ne’ talvolta ceneri, o ogni tanto di scuotere la terra“. Firmato, appunto, Orazio Feltri Patrizio Napoletano, lettera indirizzata “All’Ill.mo e Rev.mo Sig. Pro.ne Col.mo Mons. Card. Francesco Maria Brancaccio“.