Sappiamo benissimo che la città di Messina, assieme ai suoi tanti villaggi della vasta periferia, è particolarmente avvezza ai fenomeni alluvionali di una certa portata, con evidenti tracce fin dai tempi antichi. Non per caso la città poggia su un tipo di suolo alluvionale, composto da materiali sabbiosi, ghiaie e argille, portati a valle dalle varie ondate di piena delle numerose fiumare che l’attraversano perpendicolarmente, nel corso dei secoli e dei millenni. Proprio a causa di questo tipo di terreno, molto fragile, Messina ha subito nel corso della sua lunga storia millenaria numerosi danneggiamenti in seguito agli eventi sismici che si registrano nell’area dello stretto e sulla Calabria meridionale. Questo perchè il tipo di sottosuolo alluvionale, in cui poggia, funge pure da amplificatore alle onde sismiche. Vedi i risultati dopo le tremende scosse del 1783 e del 1908. Ma tornando al tema delle alluvioni possiamo annotare che l’importante città rivierasca dello stretto ha una altissima esposizione a questo tipo di fenomeni. Nei secoli scorsi, ogni qual volta che pioveva un pò più forte del normale, per Messina e per i messinesi erano guai seri. La città infatti, alla fine del forte fenomeno precipitativo, subiva pesanti allagamenti, l’acqua e il fango invadevano i vari centri abitati per qualche ora prima di riversarsi sulle limpide acque dello stretto, intorbidendole per diversi giorni. In queste situazioni, quando andava bene, non ci scappava il morto, ma alle volte invece capitavano anche le disgrazie a cui i messinesi erano ormai molto abituati da decenni. Dal 1500 al 1800, si riscontra che siano avvenuti diversi episodi di alluvioni lampo nella nostra città, con tanto di morti e danni ingenti ogni volta che i torrenti straripavano dopo le abbondanti piogge a prevalente carattere temporalesco. Non è un caso se buona parte delle alluvioni che hanno devastato Messina e i suoi casali satelliti si siano concentrate proprio durante la dominazione spagnola. Proprio in quel periodo i lussureggianti boschi autoctoni dei monti Peloritani e dei colli che sovrastano la città furono esposti ad una indiscriminata opera di disboscamento da parte dei soldati al servizio della corona spagnola.
“…Un devastante turbine d’acqua piovana si è abbattuto su Messina per quattro giorni ininterrottamente, sconquassando tutto il territorio da meridione fino a settentrione; un temporale estraordinario di cui non trovassi esempio d’uomo occorso a Messina in passato, in quelle ridenti contrade, ha ingrossato furiosamente le acque dei torrenti allagando, distruggendo campagne floridissime ed intere borgate, trascinando alla perdizione alberi, colture, abitazioni ed uomini. Lasciando dietro di se solitudini, deserti di pietre, sabbie e terriccio fangoso. Nessun villaggio fu immune dal disastro: mentre quelli posti a nord furono grandemente travolti, da sabbie smosse da imponenti sommovimenti idrici, a meridione non da meno, la natura geologica pietrosa di quei luoghi, aveva recato danni più o meno gravi, tranne verso il villaggio di Tremestieri letteralmente scomparso. Le acque copiosissime cadenti ingrossarono fortemente la fiumana che scorre sopra il villaggio rompendo l’angolo di una sponda; abbandonando l’antico letto, la furia dell’acqua piovana si fece strada, aprendosi un nuovo letto passando dove c’era il villaggio di Tremestieri. Le case furono travolte, gli orti sommossi, le vie squarciate, i muri divelti, le campagne tutte attorno allagate; producendo al sopra e al disotto di tale rottura escavazioni di terra profondissime, modificando persino la pendenza del territorio, molto più ripido adesso che prima…”
Basta leggere molto attentamente la lettera per capire che la città di Messina era stata messa letteralmente in ginocchio da una inondazione mai vista prima secondo i tanti racconti dell’epoca. Si evince molto chiaramente che il diluvio temporalesco, durato oltre 4 giorni (pensate voi con che intensità), non si concentrò su un’area ben determinata, come accadeva sovente (incluso il caso di Giampilieri e Scaletta del 1 Ottobre 2009), ma sferzò l’intera città, l’intero comune, espandendosi fino ai centri della provincia. Le scene erano sempre le stesse; colate di fango, grossi smottamenti, torrenti ingrossati che trascinavano a valle, sulle borgate della città, massi e alberi, anche di grosso fusto. Da notare il riferimento al quartiere di Tremestieri, nella zona sud di Messina, che secondo quanto riportato dal Cuppari scomparse letteralmente, forse perché interrato dalla copiosa scia di terra, fango e detriti mossi a valle dalla piena del torrente Larderia che ostruito alla foce (probabilmente dai detriti delle precedenti alluvioni) si aprì un nuovo letto proprio sul villaggio costiero. Si parla anche di modificazione della pendenza del territorio a seguito delle esondazioni e delle colate di fango che addossarono una enorme mole di detriti e terra in molti villaggi. In città e nel centro i danni maggiori si ebbero nell’area di Camaro dove le piogge torrenziali fecero crollare parte della collina che sovrasta il centro abitato, provocando la morte di almeno un centinaio di persone. L’alluvione del 13 Novembre del 1855 provoco anche l’interramento, interno ed esterno, della vecchia chiesa della Badiazza. Ma furono numerosi i tempi che rimasero devastati da quell’inondazione. Tra questi pure l’antico monastero di Santa Maria di Gesù Superiore, nei pressi dell’attuale villaggio Ritiro, che rimase interrato da diversi metri di fango portato dalla piena del torrente Giostra. A Mili S.Marco lo straripamento del torrente limitrofo, allora del tutto privo di argini, causo notevoli danni ad abitazione e alla chiesa del villaggio che subì notevolissimi danni. Alcune case furono spazzate via dall’onda di piena. Il sagrestano del periodo si salvò arrampicandosi e abbracciandosi alla statua di San Marco che il fango miracolosamente non coprì. Da allora si racconta che in quei momenti pieni di disperazione, il sagrista già avvinghiato alla scultura urlò al santo la frase “si ‘è moriri, muremo assieme” e forse, proprio per grazia ricevuta, questo non avvenne. Scene simili si videro anche negli altri casali della zona sud e nord della città di Messina. Ancora più interessanti sono le lettere scritte da Michele Verino e prontamente pubblicate dalla tipografia Galilea, a Firenze, nel 1855. State molto attenti ai particolari di questa lettera;
“…Un altra tremenda sciagura piombò il 13 del decorso Novembre, sulla città di Messina, che appena incominciava a risorgere dalla desolazione che vi aveva lasciata nel 1854 il colera. Un impetuoso uragano preceduto dallo spesseggiare dei lampi e dal cupo rumore dei tuoni, si scaricò nelle prime ore della mattina sulla desolata città. Un turbine d’acqua e di grossa grandine resa più impetuosa dall’infuriare dei venti, percoteva orribilmente i tetti delle case e minacciava di farli crollare I due torrenti che scorrono in mezzo della città; in brev’ora superarono le dighe, allagarono le vie, invasero i piani terreni delle case e nella loro violenza rovesciarono e travolsero quanto opponevasi al loro corso. La campagna all’intorno era sconvolta dai torrenti di Trapani e della Giostra, che usciti dall’alveo scorrevano senza freno e seco portavano enorme quantità di rena e di melma, che in alcuni luoghi depositandosi si alzò quasi a livello dei primi piani delle case. Il ridentissimo borgo di S Leone in parte crollò, investito dalle correnti e tali i piani inferiori dei fabbricati, furon ripieni di terra. La vasta pianura di S Maria al Gesù, divenne un lago ed una medesima sorte toccò alle misere case dei poveri e alle belle e ridenti ville coronale da vaghi e fiorili giardini, di cui sparsa era tutta la campagna. Anche il torrente della Zaera si rovesciò sul prossimo borgo recandovi consimili danni e nel caseggiato di S Clemente, dove distrusse i giardini, sradicò alberi, rovesciò muraglie e copri squallore infino al mare, quella poc’anzi ridente pianura. L’uragano terribile durò 5 ore e queste bastarono a spargere la desolazione per quasi tutto il distretto di Messina. Varie vittime della inondazione 100 vite, si ebbero a deplorare nella città, ma più assai ve ne furono nella campagna e in specie nel villaggio del Bauso che fu in gran parte distrutto dalle acque; in Mile superiore, dove crollò la Chiesa Parrocchiale salvandosi quasi miracolosamente il ciborio ove chiudevasi il Sacramento, e insieme alla chiesa caddero quasi metà delle case con la morte di non pochi abitanti in Saponara, dove morirono 22 individui 18 dei quali, avevano cercato invano un refugio sul letto di una casa perché, l’onda sempre crescente li travolse nei suoi gorghi colla rovina dell’edilìzio. Le autorità locali fecero e fanno tuttora quello che è possibile per riparare a tanta sventura, ma il riparare i danni di quella orribil procella è cosa che supera le limitate forze dell’uomo. Un calcolo approssimativo dei danni, li fa ascendere a 5 milioni di scudi…”
Il Verino parlò di “uragano”, un termine che all’epoca stava a significare un fenomeno particolarmente raro ed estremo. Molto probabilmente, come ben traspare dal testo, la violenta precipitazione fu preceduta da una grande sciroccata che flagellò l’area dello stretto, con venti anche superiori ai 100 km/h e possenti mareggiate lungo la costa che hanno creato una sorta di “tappo” di sabbia lungo le foci dei vari torrenti cittadini, agevolando al contempo le esondazioni e l’accumulo di materiale sabbioso, fanghi e detriti di vario genere a monte, sui casali messinesi. Con la graduale attenuazione del potente flusso sciroccale sono arrivati i diluvi temporaleschi che hanno imperversato per varie e ore, scaricando una impressionante quantità di acqua, forse anche più di 300-400 mm, lungo tutta la dorsale dei Peloritani. Quanto basta per tracimare, con una furia indescrivibile, ogni singolo torrente cittadino. Questo fenomeno, ormai ben noto da chi segue le vicende meteorologiche dell’area dello stretto, lo abbiamo denominato “onda temporalesca peloritana” (abbiamo dedicato parecchi articoli di meteodidattica a riguardo) e generalmente si forma solo in determinate situazioni sinottiche, quando attorno l’area dei monti Peloritani vanno a convergere dei flussi di aria molto calda e umida (venti di Scirocco) nei bassi strati con una corrente da sud-ovest, molto più instabile e fresca, che scorre a gran velocità sopra i crinali della catena peloritana, favorendo grandi turbolenze atmosferiche, nell’area sopravento, che agevolano la formazione di imponenti Cumulonembi temporaleschi, in grado di apportare veri e propri diluvi su un‘area più o meno estesa. Addirittura il fango raggiunge i primi piani delle case, mentre una parte dello storico quartiere S.Leone rimase interamente interrato. Nella lettera si parla della distruzione portate dalle esondazioni dei torrenti Trapani, Giostra e Zaera, tutti ricadenti all’interno del territorio cittadino. Morti e danni considerevoli si registrarono pure nell’estrema zona nord e anche nella provincia, incluse le aree recentemente vulnerate dall’evento del 22 Novembre 2011. Particolare riferimento si fa al comune di Saponara che anche allora rientrò nell’epicentro della disastrosa alluvione, con 22 morti, 18 dei quali travolti dall’onda di piena della fiumara mentre cercavano rifugio sul tetto di casa. Quella del 1855 la possiamo definire come una delle alluvioni più distruttive di sempre dato l’ampio coinvolgimento di tutto il territorio comunale e di buona parte di quello provinciale. Nonostante la violenza e l’intensità delle precipitazioni il fenomeno assunse caratteristiche cosi estreme anche per merito dell’incuria e per la scarsa attenzione riservata dalle autorità cittadine dell’epoca che non avevamo predisposto dei piani di pulizia dei letti delle fiumare che erano rimasti coperti dai detriti trasportati a valle dalle precedenti alluvioni. Su tutte quella del 1837. Mancati interventi che anche allora costarono caro alla cittadinanza.