Abbiamo già parlato a lungo, su MeteoWeb, nelle ultime settimane, del fenomeno della liquefazione del suolo, verificatosi in più località dell’Emilia Romagna dopo le scosse sismiche di 20 e 29 maggio (vedi qui, e ancora qui, e pure qui e infine qui). Come si può leggere nel testo “Liquefazione dei terreni in condizioni sismiche” di Sebastiano G. Monaco, Il fenomeno della liquefazione dei terreni durante i terremoti, interessa in genere i depositi sabbiosi e/o sabbioso limosi sciolti, a granulometria uniforme, normalmente consolidati e saturi. Durante una sollecitazione sismica, infatti, le sollecitazioni indotte nel terreno, possono determinare un aumento delle pressioni interstiziali fino ad eguagliare la pressione litostatica e la tensione di sconfinamento, annullando la resistenza al taglio e inducendo fenomeni di fluidificazione.
La probabilità che un deposito raggiunga tali condizioni dipende:
- dal grado di addensamento;
- dalla granulometria e forma dei granuli;
- dalle condizioni di drenaggio;
- dall’andamento ciclico delle sollecitazioni sismiche e loro durata;
- dall’età del deposito;
- dalla profondità della linea di falda (prossima alla superficie).
Dall’osservazione di zone colpite da liquefazione, si è notato che questa avviene nelle seguenti circostanze:
- terremoti di magnitudo uguale o superiore a 5.5, con accelerazioni superiori o uguali a 0,2 g;
- al di sopra dei 15 metri di profondità; oltre questa profondità non sono state osservate liquefazioni;
- la profondità della falda era posizionata in prossimità della superficie (inferiore ai 3 m);
In letteratura sono stati suggeriti da vari autori, diversi metodi (tabellari, semplificati ecc…), per la valutazione del potenziale di liquefazione di depositi sabbiosi saturi. Affinché in un sito possano avvenire fenomeni di liquefazione, è necessario che la scossa sismica raggiunga una certa intensità.
Da osservazioni effettuate su un certo numero di terremoti avvenuti, Kuribayashi e Tatsuoka (1975), hanno potuto verificare che esiste una relazione fra la magnitudo e il logaritmo della distanza all’interno della quale si possono innescare fenomeni significativi di liquefazione. Alcuni autori (Berardi et al., 1988), analizzando alcuni terremoti italiani in cui si erano verificati fenomeni di liquefazione, hanno introdotto un’ulteriore equazione, che sostanzialmente porta agli stessi risultati. Da qui l’importanza di definire la distanza epicentrale dal sito investigato.
Per approfondire l’argomento, abbiamo contattato il geologo Paolo Messina, direttore dell’istituto di geologia ambientale e geoingegneria-Igag del Cnr, il quale ci ha spiegato che “i fenomeni di liquefazione possono avvenire anche a notevoli distanze dall’epicentro. Sostanzialmente dipende dalla magnitudo, e più forte è un terremoto più lontano si possono verificare fenomeni di liquefazione. Nel 2009 ce ne sono stati anche a L’Aquila, fino a 40km di distanza dall’epicentro, ma sono stati molto deboli, solo per addetti ai lavori, non paragonabili a quanto accaduto in pianura Padana. Se ne accorse solo qualche contadino…“. L’esperto ci ha spiegato che non sono fenomeni sconosciuti, e che invece si conoscono molto bene soprattutto all’estero, e che hanno fatto notizia solo adesso in Italia perchè stavolta si sono manifestati in modo vistoso ed eclatante.
Come abbiamo spiegato più volte, il fenomeno della liquefazione del suolo rappresenta un ulteriore rischio per gli edifici, rispetto ai terremoti. Anche costruzioni in grado di resistere alle scosse sismiche, infatti, potrebbero veder compromessa la loro stabilità a causa della liquefazione del suolo sottostante. Molto probabilmente, come ci ha spiegato Messina, ci sono delle tecniche non solo anti-sismiche ma anche anti-liquefazione, che in sostanza consistono nel fatto di costruire le fondazioni su pali profondi più di 15-20 metri, perchè il fenomeno della liquefazione è molto superficiale, e si verifica a profondità di 5-10-15 metri. Ma Messina ci tiene a precisare che “in questi casi il geologo deve lavorare e interfacciarsi con un ingegnere“.
Sempre sul rischio liquefazione del suolo, Paolo Messina ci ha spiegato che molte zone d’Italia sono a rischio, e non solo la pianura Padana: “le aree soggette a liquefazione sono le alluvionali fluviali o le zone che prima facevano parte di un bacino lacustre, quindi essenzialmente le valli fluviali come tutta la pianura Padana, che è la piana alluvionale del Po e di tutti i suoi affluenti, sia quelli alpini che quelli appenninici, ma anche tutte le conche intermontane, come la piana del Fucino, la conca di Sulmona ma è inutile citarle tutte perchè sono moltissime, da nord a sud“. Quello della liquefazione del suolo è un problema serio, in quanto si tratta di un fenomeno che si verifica sotto la fondazione degli edifici e rischia di comprometterne la stabilità, anche qualora le abitazioni sono costruite in modo antisismico e riescono a rimanere in piedi durante un terremoto. “Se ci sono forti terremoti nelle zone appenniniche, dove nella storia abbiamo avuto sismi anche di magnitudo 7, la liquefazione può verificarsi fino a 100km di distanza” spiega Messina, indicandoci la figura affianco, tratta sempre dal testo “Liquefazione dei terreni in condizioni sismiche” di Sebastiano G. Monaco.
In conclusione, facendo il punto sulla situazione in Emilia Romagna, il geologo ci ha spiegato che “dopo così tanti giorni dalle scosse principali il fenomeno della liquefazione tende a non verificarsi, a meno che non ci siano altre scosse. Anzi, se non ci sono altre sollecitazioni sismiche, il terreno col tempo lentamente si riassesta. E’ chiaro, però, che se ci dovessero essere altre scosse importanti, di magnitudo superiore a 5 – 5.5, possono verificarsi nuovi fenomeni di liquefazione del suolo e a quel punto i rischi legati a questo fenomeno sono alti“.