Da oggi MeteoWeb ospita, in esclusiva, una serie di approfondimenti molto interessanti realizzati dal geologo Giampiero Petrucci, che ha già collaborato con la nostra Redazione in occasione dello Speciale sugli Tsunami in Italia. Iniziamo subito, quindi, con un primo articolo sui terremoti e sul rischio sismico, tra didattica e storia.
1- Definizioni, tettonica e classificazioni sismiche
L’Italia è una penisola geologicamente giovane: le Alpi hanno iniziato a formarsi un centinaio di milioni di anni fa, gli Appennini circa 20 milioni di anni fa, durante il Pliocene (fino a circa 2 milioni di anni fa) molte terre oggi emerse erano ancora ricoperte dal mare. Al centro del Mediterraneo, teatro dello scontro tra la placca africana e quella euroasiatica, il nostro paese si trova perciò in un contesto molto dinamico dal punto di vista tettonico e ne subisce le conseguenze sotto forma di devastanti catastrofi naturali, in particolare terremoti. L’Italia, intesa come territorio, è dunque destinata a tremare, non solo in senso metaforico ma soprattutto fisico e letterale. Perché trema anche la popolazione, troppo spesso costretta a fuggire dalle proprie case ed a vivere mesi (se non anni) in tende o camper. Tutti noi tremiamo di dolore per i lutti connessi ad ogni catastrofe naturale mentre gli abitanti delle zone colpite tremano di paura, terrore, angoscia. Ci sembra dunque giusto, anche per sensibilizzare ulteriormente non tanto l’opinione pubblica quanto le autorità politiche e civili, cercare di capire, tramite una serie di articoli, perché il nostro paese subisce costantemente terremoti nonché quali sono le cause e soprattutto i rimedi tramite i quali è possibile attenuare gli effetti disastrosi dei sismi.
Definizioni. Un terremoto può essere definito come un rapido movimento della crosta terrestre dovuto al rilascio di energia all’interno della terra, in un punto ben specifico definito ipocentro, in corrispondenza di una faglia. Il sima si definisce superficiale se la posizione del suo ipocentro non supera i 70 km di profondità: ciò accade nel 75% dei casi. L’intensità di un terremoto è misurata tramite la magnitudo, i suoi effetti dalla Scala Mercalli (da tempo in disuso). La magnitudo, più propriamente, è un parametro atto a rappresentare l’energia sprigionata da un terremoto. Misurata per molti anni (simbolo M) tramite la Scala Richter, oggi si tende a registrarla secondo la Moment Magnitude Scale ovvero la Scala di Magnitudo del Momento Sismico (simbolo Mw). Entrambe le scale, a differenza della Scala Mercalli, non sono decimali ma logaritmiche perciò la differenza di un’unità implica un potenziale energetico di circa 30 volte maggiore o minore. La caratteristica geografica fondamentale di un sisma è l’epicentro ovvero la verticale sulla superficie terrestre dell’ipocentro. Non si deve dimenticare che un terremoto può essere generato anche da attività vulcanica: celebri a questo proposito i cosiddetti “tremori” che talora possono precedere un’eruzione e rappresentare un fondamentale avvertimento.
Elementi di Tettonica. La parte più esterna del nostro pianeta è chiamata litosfera ed è costituita da crosta terrestre (sulla cui superficie viviamo tutti noi) e mantello superiore. Gli scienziati hanno individuato nella litosfera un certo numero di placche ovvero enormi porzioni di territorio (talora più grandi perfino di un continente) le quali, essendo rigide, si comportano come se galleggiassero nella sottostante e più fluida astenosfera, con movimenti relativi di qualche cm all’anno. Secondo la celebre teoria della tettonica a placche, a causa di tali movimenti reciproci nelle zone di contatto tra le varie placche si originano terremoti. In particolare quando due placche entrano in collisione si verifica il processo di subduzione ovvero il fenomeno tettonico per cui una placca scorre sotto l’altra, in pratica immergendosi secondo un piano inclinato di circa 60-70°. Il territorio italiano si trova a cavallo di due placche: quella euroasiatica e quella africana che, con la sua microplacca Adria (una specie di scheggia tettonica riferibile geograficamente alla Pianura Padana ed all’Adriatico settentrionale), va in subduzione al di sotto dell’altra. Il recente terremoto emiliano è legato alla collisione di queste due placche, iniziata circa 70 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, e tuttora in atto con movimenti riscontrati anche attraverso reti GPS. Difatti è stato recentemente calcolato che la nostra penisola si stia muovendo almeno un centimetro all’anno, dunque un metro al secolo, anche se in modo disarticolato e disomogeneo, come ha spiegato poche ore fa il presidente dell’Ingv Stefano Gresta. In particolare la Pianura Padana si sta restringendo di qualche mm all’anno. Non è un mistero né fantageologia che tra qualche milione di anni, secondo alcuni dettagliati ed autorevoli studi tettonici, il Tirreno potrebbe diventare un vero e proprio oceano e l’Adriatico chiudersi completamente.
Classificazioni sismiche. Ogni terremoto ha una storia a sé così come ogni terreno ed ogni territorio. Proprio per questo, sia pure con lentezza esasperante e mai tempestiva, lo Stato italiano ha cercato di classificare ogni area del nostro paese dal punto di vista sismico o comunque di prendere provvedimenti per limitare i danni, generalmente però sempre dopo un evento catastrofico. Difatti il primo tentativo di regolamentare le costruzioni (e le ri-costruzioni) in aree sismiche è datato 1909 (Regio Decreto 193), all’indomani del tragico terremoto di Messina (Qui lo Speciale di MeteoWeb su quell’evento, realizzato in occasione del Centenario). Questo decreto rappresenta il primo, embrionale, tentativo di classificazione sismica territoriale sviluppato in Italia. Il secondo è del 1916, dopo il terremoto del Fucino. Poi si deve arrivare fino agli anni ’70, in particolare alla Legge 64 del 1974 “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche”. Dopo gli eventi di Friuli (1976) ed Irpinia (1980), nel 1982 si tentò, con un apposito decreto ministeriale dei Lavori Pubblici, di classificare l’intero territorio nazionale in aree a basso e ad alto rischio sismico. Classificazione in verità generica e di scarsa rilevanza tecnica. Certamente migliore, ma non esaustiva perché manteneva ancora molti Comuni non classificati, la sua evoluzione del 1998. Siamo però dovuti arrivare fino al 2003 per avere finalmente un quadro più serio dell’intera situazione. Il nostro territorio è stato diviso in zone sismiche, classificate in 4 categorie fondamentali: in questo modo ogni Comune italiano ha avuto la sua classe sismica cui fare riferimento per ogni nuova costruzione o ristrutturazione di edifici già esistenti. La classe 1 è la più a rischio mentre la classe 4 (in cui ricade la stragrande maggioranza dei Comuni) teoricamente non dovrebbe essere sottoposta a scosse significative. L’elenco dettagliato di tutti i Comuni italiani e le classi sismiche di riferimento è disponibile online (http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/classificazione.wp). Per puro divertimento statistico, possiamo segnalare che nella Classe 1, dunque la più pericolosa, rientrano 724 Comuni (circa il 9% del totale), di cui ben 262 nella sola Calabria e 128 in Campania: qualcuno, soprattutto alla luce dei recenti eventi, potrà forse stupirsi del fatto che in Emilia-Romagna non ve ne sia nessuno. Tuttavia, per certi interessi lobbistici e non trascurabili questioni economiche, questa classificazione ha tardato ad essere recepita e per qualche anno in diverse aree della nostra penisola s’è continuato a costruire ancora secondo i permissivi criteri antecedenti. Finalmente nel 2008 è stato varato l’ultimo aggiornamento delle “Norme Tecniche per le costruzioni” (NTC), entrato casualmente (o no?) in vigore nel luglio 2009, all’indomani del terremoto abruzzese. Tale decreto rappresenta un cambiamento epocale per le costruzioni in area sismica, implicando una serie di indagini puntuali atte a valutare la reazione al sisma del terreno di fondazione, considerando anche la cosiddetta “vita nominale” dell’opera ovvero il periodo di tempo minimo per cui l’edificio sarà usato per lo scopo progettato (generalmente almeno 50 anni). Tra queste indagini diventano obbligatorie pure le verifiche per la liquefazione e per i cosiddetti stati limite, in particolare laddove si registrano condizioni litologiche sfavorevoli e con possibilità di amplificazione degli effetti di un sisma. Dunque le leggi adesso esistono ma devono essere applicate e soprattutto deve essere verificata la loro applicazione sul territorio.
Di seguito le mappe con le diverse classificazioni sismiche del nostro territorio a seconda delle varie leggi susseguitesi negli ultimi 30 anni. In alto a sinistra la mappa datata 1984. In alto a destra quella del 1998 ed infine quella del 2003. Si noti come progressivamente siano aumentati il dettaglio della classificazione e soprattutto la superficie delle aree più a rischio. Si doveva però fare di più e meglio, sin dall’inizio:
L’ultima classificazione sismica del territorio italiano, datata 2012. Si noti l’area emiliana totalmente in classe 3 e la zona di L’Aquila in classe 2. Valori, secondo alcuni critici, ancora troppo bassi, soprattutto dopo quanto accaduto nel 2009 e nel maggio 2012:
La pericolosità sismica può essere definita come la stima dello scuotimento del suolo previsto in un sito durante un certo intervallo di tempo a seguito di un terremoto. Poiché ogni terreno ha una sua peculiare risposta all’attraversamento delle onde sismiche, un fattore di importanza fondamentale alla base della classificazione sismica è l’accelerazione orizzontale massima, definita anche PGA (Peak Ground Acceleration, picco di accelerazione al suolo) ovvero, come recita la sua definizione ufficiale, “l’accelerazione del terreno su un suolo rigido e pianeggiante che ha una probabilità del 10% di essere superata in 50 anni”. Ovviamente devono concorrere alla classificazione di ogni territorio anche i dati storici e sismologici (frequenza ed intensità dei terremoti, sorgenti sismogenetiche, cataloghi sismici, leggi di attenuazione del moto del suolo, ecc.), effetti macrosismici ed eventuali fenomeni amplificatori del sisma a livello locale (tra cui la liquefazione ed i cosiddetti effetti di sito). Fattori questi ultimi, secondo alcuni autori, troppo spesso sottovalutati.
Appare infatti assolutamente fondamentale lo sviluppo, peraltro ben previsto dalle leggi vigenti, di un’ulteriore accurata analisi a livello locale ovvero una dettagliata microzonazione costituita da tutte le indagini volte all’individuazione della cosiddetta risposta sismica locale. La microzonazione dunque tende ad individuare le zone stabili, le zone stabili suscettibili di amplificazione locale e le zone suscettibili di instabilità. A questo proposito però si deve considerare un dato lampante: l’intera area emiliana teatro dei terremoti di maggio è classificata in classe 3 ovvero, secondo la legenda, come zona a pericolosità sismica BASSA e che può essere soggetta a scuotimenti modesti. Mirandola, Finale Emilia, Novi di Modena, Medolla, Cavezzo e San Felice sul Panaro (tutti luoghi ormai diventati tristemente famosi) rientrano, o meglio rientravano, tutti in classe 3: evidentemente qualcosa non ha funzionato a livello sia di classificazione che di microzonazione ed il risultato di questa mancata sinergia tra i vari Enti è sotto gli occhi di tutti. Non si può certo pensare ad una sottovalutazione del fenomeno però a questo punto è lecito pensare che neppure i territori in classe 3 siano immuni dal rischio sismico e da distruzioni ingenti del loro patrimonio urbanistico, al contrario dunque da quanto recitato nella legenda della loro classe.
Ad esempio rientrano in classe 3 pure i Comuni della Versilia dove le sabbie che costituiscono le famose spiagge litoranee hanno caratteristiche similari a quelle emiliane e dunque sono teoricamente soggette al fenomeno della liquefazione di cui tanto abbiamo sentito parlare e pure scritto in questo sito (vedi qui, e ancora qui, e pure qui e infine qui). Appartengono invece alla classe 2 molti Comuni della Garfagnana e della Lunigiana, teatro nel 1920 di un devastante terremoto di magnitudo prossima a 6.5 che provocò la distruzione di interi paesi e circa 200 morti. Tra l’altro alla classe 2 appartenevano anche L’Aquila e molti Comuni della sua provincia prima di essere colpiti dal sisma del 2009. Per questo da molte parti sono state rivolte critiche, talora anche pesanti e spropositate, alla classificazione sismica attuale, parlando pure di deficit di protezione sismica. Accuse rimandate subito al mittente, tacciato di catastrofismo o di giornalismo esagerato. Qualcosa di vero però potrebbe invece esserci. L’INGV, giustamente ed in via ufficiale, difende il proprio operato, in effetti sempre preciso e dettagliato, nonché le proprie mappe, scaricando gran parte dell’eventuale responsabilità sulle Regioni che avrebbero tardato ad applicare le norme vigenti, lasciando addirittura in alcuni casi costruire ancora secondo la normativa precedente al 2003, ben più permissiva dell’attuale. Secondo la legge spetta infatti alle Regioni il compito di attribuire ad ogni Comune l’adeguata classe sismica di riferimento. Tentiamo, con i nostri limiti di meri osservatori, di spiegare l’iter burocratico-tecnico previsto dalle norme. In sostanza, la carta della pericolosità sismica deve servire da base di partenza sulla quale poi innestare, attraverso un controllo capillare e sistematico del territorio di ogni Comune, qualsiasi dato utile a valutare il rischio e la vulnerabilità di ogni area, arrivando infine ad una classificazione di microzonazione sismica ben più particolareggiata e sicura, meglio se in funzione della profondità e delle possibili quote di fondazione degli edifici (una specie di “mappa multilivello”). Questo dovrebbe essere applicato non soltanto in ogni Comune ma perfino in ogni metro quadrato del nostro territorio nazionale, a salvaguardia dei cittadini e della vulnerabilità di edifici che raramente (mai comunque prima degli anni ’80) sono stati costruiti seguendo pedissequamente le norme antisismiche. Ciò significa che in pratica nel nostro paese milioni di fabbricati, anche pubblici (su tutti le scuole), non conoscono alcuna protezione sismica a livello strutturale. Nel caso emiliano, se non c’è stata sottovalutazione, pare essersi comunque verificata una mancata prevenzione e non sta a noi giudicare quanto grande e grave essa sia eventualmente stata. Il problema sembra risiedere soprattutto nella mancata o comunque tardiva ed insufficiente applicazione delle norme a livello locale, soprattutto laddove possono verificarsi effetti amplificatori anche in caso di scosse con magnitudo intorno a 5.5. Pensando al territorio emiliano così sconvolto, la domanda finale, per quanto possa far tremare le anime di tutti noi, è una sola: potenzialmente, quanti casi analoghi esistono oggi in Italia?
Si ringrazia la dott.ssa Stefania Martina per la gentile collaborazione.
BIBLIOGRAFIA
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- http://zonesismiche.mi.ingv.it/