A seguito del terremoto di questa notte lungo il litorale tirrenico reggino, il geologo Giampiero Petrucci ricorda quanto il paese di Scilla sia soggetto a fenomeni naturali devastanti.
Nel 1908. Il sisma che questa notte all’01.12 ha colpito la zona tra Villa S. Giovanni e Bagnara certamente non sorprende chi conosce la storia naturale e geologico-geomorfologica di quei luoghi. E’ notorio, come già ampiamente descritto da MeteoWeb (28 dicembre 1908 – Terrore nello Stretto: lo “tsunami di scirocco” e le sue possibili cause), che il 28 dicembre 1908 nello Stretto di Messina un terribile terremoto e lo tsunami susseguente provocano la morte di almeno 80.000 persone. Anche Scilla viene colpita dall’evento: ben 1600 case rimangono lesionate in vario modo dal sisma. Gravi danni subiscono i quartieri di S. Giorgio e Chianalea nonché il castello Ruffo di cui in seguito vengono demolite alcune parti traballanti. Fortunatamente il numero di vittime umane è limitato e lo tsunami, la cui onda a Scilla raggiunge un run-up di circa tre metri, non provoca ulteriori danni sulla spiaggia di Marina Grande, ovviamente meno urbanizzata di adesso.
Nel 1783. Ma ben più grave, e certamente più dimenticato, quanto accade nel febbraio 1783. Una violenta e persistente sequenza di scosse telluriche, nota come “crisi sismica calabrese”, provoca circa trentamila morti: cifra enorme se si pensa al periodo ed alla relativa urbanizzazione del Meridione, ancora sotto il dominio spagnolo. L’epicentro di molte scosse è individuato nell’area circostante Polistena ma tutta la Calabria meridionale viene devastata dal terremoto. Alcune montagne sono letteralmente spaccate in due, come accade al colle su cui sorge Oppido Mamertina che viene poi ricostruita in altro sito. Fiumi e torrenti mutano il loro corso, nella valle del Mesima appaiono voragini nel terreno, tra Sinopoli e Seminara si originano laghi e paludi dove imperversa la malaria portando ulteriori vittime, nascono pure zampilli d’acqua simili a geysers. I danni sono talmente ingenti che il governo borbonico decide l’esproprio dei beni ecclesiastici a favore della ricostruzione.
I danni a Scilla. In questo contesto Scilla paga il tributo più raccapricciante. La prima scossa si verifica intorno a mezzogiorno del 5 febbraio 1783, l’epicentro viene stimato nei pressi di Oppido Mamertina e la sua magnitudo pari a 6.9 : per fare un raffronto, ricordiamo che quella del terremoto emiliano di maggio è intorno a 5.9. A Scilla questo sisma provoca 150 morti: la chiesa matrice crolla, rovinando sulle case vicine i cui abitanti vengono sepolti dalle macerie. Stessa sorte per la chiesa di S. Rocco (il Santo Patrono del paese) che vede distrutta la sua cupola ed i due campanili mentre la chiesa dello Spirito Santo, a Marina Grande, subisce forti lesioni alla volta. Nel castello, che aveva resistito tetragono per mille anni a qualsiasi assalto, cade in rovina la chiesa basiliana di S. Pancrazio e sono danneggiate seriamente la cucina e buona parte dei piani superiori. Innumerevoli frane scivolano dai pendii nelle valli dei torrenti Oliveto e Livorno. A seguito della scossa si verifica uno tsunami, con il mare che prima si ritira e poi colpisce con violenza sia la costa siciliana (tra Messina e Capo Peloro) che quella calabrese (tra Cannitello e Scilla). A Messina le onde invadono il porto ed i viali a mare. A Capo Peloro il mare raggiunge i due laghetti, distrugge parzialmente il faro e devasta la spiaggia. A Scilla l’intera Marina Grande è ricoperta dalle onde mentre a Chianalea il livello marino si alza di circa due metri. Gli scillesi scampati, circa duemila, si accampano terrorizzati sulla spiaggia di Marina Grande, a Chianalea, ad Oliveto, in ripari di fortuna, sotto le barche rovesciate od in tende improvvisate, dentro qualche baracca di legno costruita in fretta e furia. A Marina Grande si sistema anche l’ottantunenne don Fulcone Antonio Ruffo, Principe di Scilla, con la sua corte di cinquanta persone. Altri, pochi ma più previdenti, preferiscono rifugiarsi sull’altopiano, nei boschi, in montagna. Sono previdenti perché inizia la notte più terribile nella storia di Scilla.
Lo tsunami scillese. Poco dopo la mezzanotte infatti si verifica un’altra grande scossa, di magnitudo 6.3, con epicentro sulla costa di Villa S. Giovanni. A Scilla altre costruzioni vengono lesionate, il terrore serpeggia nella popolazione atterrita e prostrata. Passa qualche minuto ed improvvisamente un’immensa frana (fronte di circa 500 metri e volume di diversi milioni di mc) si stacca dal Monte Pacì (il rilievo che chiude la baia di Scilla a sud) e rovina precipitosamente in mare nel giro di pochi secondi. Nel giro di uno-due minuti un’enorme ondata si abbatte su Marina Grande, travolgendo i poveri scillesi lì rifugiatisi, già terrorizzati dal cupo rombo susseguito allo scivolamento in mare della frana (oltre tutto è notte fonda). Il mare seppellisce tutto, risalendo addirittura il vallone del torrente Livorno per decine di metri, con un run-up stimato di almeno dieci metri (alcune testimonianze parlano di “acqua fino ai tetti delle case”), inondando anche Chianalea e la zona di Oliveto. A Scilla muoiono almeno 1500 persone, forse di più: i cadaveri, spesso irriconoscibili, vengono rapidamente bruciati per evitare infezioni e dunque il conteggio dei morti rimane incerto. Alcune vittime sono ritrovate sui terrazzi e perfino sui tetti delle case, altre sugli alberi. Per oltre un anno il mare restituisce corpi e detriti vari. Uno tsunami di intensità straordinaria al punto che gli viene attribuito il grado 6, il massimo, e che colpisce anche Cannitello, Nicotera, Bagnara, Messina, Reggio Calabria anche se è Scilla a subire la tragedia più devastante.
Altri rischi dal mare. Scilla dunque è un paese a rischio, ma non solo per i terremoti. Il mare colpisce anche quando non sollecitato da eventi tellurici. La baia di Marina Grande è soggetta infatti a grandi mareggiate, che ogni anno invadono il viale a mare. Il fenomeno più recente è stato quello, tremendo, del 13 febbraio 2007 (qui il reportage con tutte le foto), ma celebre e storico a questo proposito è il fenomeno del 31 dicembre 1979, proprio l’ultimo giorno dell’anno, quando si verifica quella che è stata indicata come “la tempesta di Capodanno”. Già nel pomeriggio i vecchi “lupi di mare”, vedendo i cosiddetti tunfuni ovvero dense nubi bianche che si spostano velocemente verso la costa, prevedono forte burrasca. Infatti il mare inizia ad agitarsi. Verso sera, in uno squarcio di cielo sereno, appare la luna, circondata da un sottile alone più luminoso: altro presagio di grande mareggiata.
Il mare si alza ancora ed entra sul viale di Marina Grande. Intorno alle 22 le onde raggiungono le pareti esterne della chiesa dello Spirito Santo e circondando il suo perimetro murale per un’altezza di trenta centimetri. Il vento forte spazza le case, fischiando in modo continuo ed ossessivo. Il mare continua ad alzarsi, invadendo anche i vicoli di Chianalea. La paura sfocia nel terrore e la popolazione, per salvaguardarsi, lascia le abitazioni: molti vengono ricoverati nelle scuole comunali a S. Giorgio. Verso le ore 1.45, come narrano alcuni testimoni, a Chianalea il mare si ritira per una cinquantina di metri: gli scogli affiorano interi, il fondo marino emerge con alcuni pesci boccheggianti. Quindi si forma un’onda immensa, alta una ventina di metri, un muro d’acqua cupo e spumeggiante che si abbatte sul molo e sulla rupe. Poco dopo un’altra onda, ancora più alta, rompe la diga foranea del porto e vola sulla rupe con fragore immane. Il porto è raso al suolo, le barche accatastate l’una sull’altra. L’acqua, non più bloccata dalla diga foranea, irrompe tra le case di Chianalea, sfondando porte e finestre, entrando all’interno delle abitazioni fino ad un metro di altezza. Anche le case di Marina Grande subiscono la stessa sorte: su alcuni terrazzi vengono ritrovate pietre pomici, trasportate dalle onde. L’acqua sorprende diverse persone nelle loro stanze (qualche infermo perfino a letto), qualcuno si aggrappa alle ringhiere e riesce a non essere trasportato via dalla furia del mare che distrugge la sacrestia della chiesa dello Spirito Santo e raggiunge la Via Nazionale, infrangendosi sul muro della massicciata ferroviaria. Il distributore di carburante, che allora si trovava sul viale a mare, è completamente distrutto. Nella zona di Monacena una grande barca in costruzione viene sollevata dal mare che la spinge lungo le vie alla stregua di un vascello fantasma. Appare un vero e proprio miracolo l’assenza a Scilla di vittime umane. Venti miliardi di lire i danni stimati.
Non finisce qui. Se terremoti, tsunami e mareggiate non bastassero, Scilla risulta soggetta ad altri possibili eventi catastrofici. Non passa inverno in cui precipitazioni particolarmente abbondanti provochino smottamenti, frane, cadute di massi dai versanti. La chiusura dell’Autostrada A3, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 2009, è la testimonianza più lampante. Senza dimenticare i numerosi massi, anche di dimensioni metriche, che talora cadono sulla statale 18, nel tratto Santa Trada-Capo Pacì dove inutilmente alcune reti in ferro tentano di trattenere le pietre. Il dissesto idrogeologico del paesaggio scillese è evidente e ben visibile: basta guardare le ferite generate da movimenti franosi lungo i valloni dei torrenti Livorno e Monacena. Non si può escludere che prima o poi questi eventi possano provocare anche vittime umane. L’ultimo rischio è il meno probabile e distante ma comunque potenzialmente presente. Le isole Eolie distano da Scilla una settantina di km in linea d’aria e spesso si stagliano all’orizzonte. Anche lo Stromboli: se a seguito di un’eruzione si verificasse una grande frana sul lato orientale dell’isola, verrebbe generata un’onda che potrebbe raggiungere la costa calabrese e quindi anche Scilla.
Prevenzione mancata. Dunque Scilla è veramente un paese a rischio, sotto tutti i punti di vista dei disastri naturali. Questi fenomeni prima o poi si riverificheranno anche se ovviamente è impossibile prevedere quando. Questa realtà, per quanto sconcertante e scomoda, deve essere accettata da tutti ma non passivamente. Soprattutto dovrebbe portare ad un’attenta riflessione coloro che dovrebbero salvaguardare i cittadini e prevenire i rischi naturali. Non solo a Scilla ma in tutta Italia ciò che manca è la “cultura del disastro” e la prevenzione della catastrofe. Siamo tra i migliori nel “dopo-evento” ma non sappiamo ridurre i rischi. Raramente abbiamo imparato dal passato. Un dato per tutti: nella fascia tirrenica che va da Reggio Calabria a Bagnara soltanto il 30% degli edifici appare costruito o ristrutturato secondo i principali criteri delle norme antisismiche. Questa notte la magnitudo del sisma è stata di 4.6. Ma se domani si verificasse un terremoto similare a quello del 1908 o del 1783, cosa accadrebbe? La risposta è, purtroppo, scontata.
Per approfondimenti si consiglia il libro “Tempeste a Scilla”, a cura di Enrico Pescatore, Arbitrio Editori