Tutti conoscono l’eruzione del Vesuvio che nel 79 portò alla distruzione di Pompei ed Ercolano. Ma in seguito il vulcano s’è risvegliato più volte, provocando talora altri danni e devastazioni. L’evento esplosivo più significativo degli ultimi 1500 anni risale al 1631 ed il geologo Giampiero Petrucci, da tempo nostro valido collaboratore, ne descrive l’evoluzione e gli effetti.
Quiescenza e tremori. All’inizio del Seicento il Vesuvio è inattivo, almeno per fenomeni esplosivi rilevanti, da circa 500 anni e da un secolo non è stato notato il benché minimo segnale di ripresa eruttiva. I vulcanologi ipotizzano che per tutto questo periodo il condotto magmatico sia stato ostruito, probabilmente a causa del raffreddamento, con conseguente cristallizzazione, dei prodotti legati alle precedenti eruzioni e che nella camera magmatica si sia costantemente accumulato nuovo magma. Sulle pendici del vulcano, in stato di quiescenza, sono cresciuti boschi e vigneti, la montagna (con il cono del Vesuvio più alto di quello del Monte Somma) appare luogo ameno e tranquillo. Ma dal settembre del 1631, soprattutto nella parte nord-orientale, inizia una serie di segnali precursori che oggi sappiamo essere importanti campanelli d’allarme: rombi e boati, frane sui pendii, fratture del suolo con emissione di anidride carbonica (con conseguente moria della vegetazione e fuga degli animali), abbassamento del livello dell’acqua nei pozzi con aumento della salinità e dell’intorbidamento, tremori vulcanici. Proprio questi ultimi, vere e proprie “scosse telluriche preparatorie”, sembrano il fenomeno più allarmante: iniziano sporadicamente verso il 20 ottobre 1631, ma dall’8 dicembre la sequenza sismica diventa quasi giornaliera e ben avvertita da tutti anche se solo sulla fascia litoranea del golfo di Napoli e nel raggio di 7-8 km dal cratere. La magnitudo di questi eventi si mantiene attorno a 2.0, con punte massime che non superano il valore di 3.0. Poi la sera del 15 dicembre questa attività sismica aumenta e si verifica una scossa più forte, ben avvertita anche a Napoli.
L’inizio. Nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1631 il cratere del Vesuvio è illuminato da forti bagliori che squarciano il buio. Il magma, lanciato in alto, ricade sui fianchi del vulcano generando piccole colate. All’alba del 16 dicembre il condotto è aperto: i gas liberati premono sulle pareti della camera magmatica finchè, a circa 700 metri di altezza, sul fianco occidentale della montagna, si apre una grande frattura dalla quale vengono eruttati violentemente pomici, ceneri e gas. Analogamente a quanto accaduto nel 79, ma in maniera molto meno intensa, si sviluppa una colonna “pliniana” alta diversi km (tra i 18 ed i 20). Il vento, che spira dal mare, trasporta i materiali eruttati verso est/nord-est, in direzione S.Giuseppe-Avellino. Diversi paesi circumvesuviani, tra cui principalmente Ottaviano, iniziano ad essere ricoperti da questi depositi. Le ceneri più fini volano più lontano: in Basilicata, in Puglia (Bari e Taranto), perfino in Dalmazia. Intorno alle ore 13 le ceneri arrivano anche a Napoli ed è il caos accompagnato dal panico: tra l’altro la città partenopea, col suo mezzo milione di abitanti, è la più popolosa d’Italia e la seconda del continente dopo Parigi. Le autorità ecclesiastiche, d’accordo col Vicerè (rappresentante della corona spagnola), non trovano di meglio che organizzare una processione dalla cattedrale alla chiesa del Carmine, invocando l’aiuto del Signore e di S. Gennaro. Dal tardo pomeriggio inizia pure a piovere, complicando ancora di più la situazione generale (da tutto il golfo sta affluendo popolazione a Napoli in cerca di rifugio) mentre anche l’eruzione assume caratteristiche diverse.
La fase parossistica. Nella nottata tra il 16 ed il 17 infatti, mentre piove a dirotto, la colonna di materiali eruttati, diventata sempre più densa e pesante, inizia a collassare, proprio come nel 79. Si alza e collassa a più riprese, nella fase cosiddetta “a impulsi”. Mentre a Napoli pioggia e cenere cadono sulla popolazione sempre più atterrita, la mattina porta il parossismo dell’eruzione: il continuo collasso della colonna provoca una serie di flussi piroclastici (gli studiosi ne hanno rintracciati almeno sette), le cosiddette “nubi ardenti”, parenti strette di quelle che nel 79 distrussero Pompei. Formati da gas, ceneri e pomici, i flussi sono i killer più pericolosi generabili da un vulcano: viaggiano sulle pendici della montagna ad una velocità da Formula1 e posseggono temperature altissime (fino a 600°C), distruggendo qualsiasi cosa incontrano nel loro cammino. La maggior parte dei danni e delle vittime si registrano infatti in questa fase: le “nubi ardenti” raggiungono il mare, annientando Torre Annunziata e Torre del Greco ma portando grande distruzione anche a Portici e Boscoreale. I flussi però si sviluppano anche nel versante settentrionale: il più devastante segue il corso del Fosso della Vetrana, radendo al suolo Massa di Somma, Pollena e S. Sebastiano. Numerosi danni e vittime anche a Somma, S. Anastasia ed Ottaviano. Contemporaneamente un forte terremoto scuote Napoli e le acque del golfo (fino a Sorrento) si ritirano per qualche decina di metri dalla riva, tornando poi con una certa violenza sul litorale: uno tsunami in piena regola anche se di intensità difficilmente quantificabile, ma comunque non elevata.
I lahars. La fase seguente deve la sua forza distruttiva soprattutto alla pioggia che continua a cadere abbondante, provocata anche dalla grande quantità di vapore acqueo immessa nell’atmosfera dall’eruzione, accompagnata dalle particelle di cenere le quali favoriscono la condensazione. Il materiale eruttato e depositatosi sui fianchi della montagna non è ancora solidificato, risulta alquanto instabile e viene dilavato dalle acque meteoriche. Si generano dunque i cosiddetti “lahars” (parola di origine giavanese) ovvero una sorta di valanghe di fango e detriti, composte da pioggia e materiale piroclastico ancora caldo, i quali scendono con grande energia e velocità i fianchi del vulcano, percorrendo anche fino a dieci km. Si sviluppano soprattutto nelle prime ore del 17 dicembre ed in particolare nel versante settentrionale, colpendo la piana di Nola e le cittadine di Saviano, Palma, Cicciano, Pomigliano e Mariglianella. Mentre a Napoli si organizza un’altra processione, stavolta con le reliquie di S. Gennaro in prima fila, nel pomeriggio del 17 l’eruzione diminuisce la sua intensità (e nasce la leggenda del Santo capace di fermare i disastri naturali). Poco a poco i prodotti eruttati calano anche se per alcuni giorni continuano a svilupparsi pericolosi lahars che provocano danni ulteriori.
I tristi conteggi. Il 18 dicembre la fase eruttiva vera e propria può dirsi conclusa. Interi paesi (S. Giorgio a Cremano, S. Sebastiano, Pollena Trocchia) vedono il proprio territorio completamente ricoperto da ceneri e detriti piroclastici. Le ceneri provocano danni e perdita del raccolto anche ad Avellino e dintorni (Nusco, Lioni, Solofra, Atripalda). Si contano almeno 4000 morti, qualcuno ne stima fino a 6000, causati soprattutto dalle “nubi ardenti”. Dunque, in termini di vittime umane, un risultato simile a Pompei ma rispetto a quell’eruzione, questa è comunque molto meno intensa sia come violenza globale che in funzione dei prodotti emessi: se infatti per il 79 si stimano circa 2 milioni di kmc di materiale eruttato, per il 1631 si valutano 100-150 milioni di mc. Proprio per questo, in riferimento al 1631, si parla di fenomeno subpliniano, per rappresentare dunque un evento similare nel suo evolversi a quello di Pompei (eruzione pliniana per eccellenza in quanto descritta da Plinio il Giovane) ma con intensità e quantità minori.
Il pericolo e la sfida. Un’eruzione però da non sottovalutare, che distrugge almeno una dozzina di paesi e cittadine, tale da provocare gravi danni anche a Napoli e da prostrare l’economia del territorio campano per diversi anni, capace di abbassare l’altitudine del Vesuvio di circa 450 metri (crolla infatti la sua parte sommitale). Non per niente proprio questo evento è stato preso come scenario più ragionevole per i piani di evacuazione in vista di un possibile ripetersi del fenomeno eruttivo, anche se al momento per un’eventuale ripresa dell’attività vesuviana si presuppone comunque un’intensità esplosiva probabilmente inferiore a quella del 1631. Dunque mai come stavolta lo studio del passato può aiutare l’uomo del Duemila a preservare territorio e cittadini dalle catastrofi naturali, soprattutto in un ambito come quello partenopeo dove l’urbanizzazione, legata anche ad un improvvido abusivismo edilizio, non agevola certo un’eventuale evacuazione di massa. Che il Vesuvio, prima o poi, possa risvegliarsi e tornare ad esplodere è ormai certo. L’individuazione del come e soprattutto del quando rimane difficile, ma l’assiduo lavoro di ricerca dei vulcanologi ed il costante monitoraggio dell’Osservatorio Vesuviano lasciano pensare positivo. Gli scienziati sono chiamati ad una sfida difficile: prevedere e prevenire tempestivamente la prossima eruzione del Vesuvio. Mai come stavolta la salvaguardia del territorio dipende dalla scienza. Proprio per questo però possiamo essere fiduciosi: la sfida può essere vinta, a patto di ascoltare attentamente le raccomandazioni degli esperti.
Si ringrazia il dott. Stefano Carlino per la gentile collaborazione
BIBLIOGRAFIA
- Bertagnini A. ed altri, Eruption Early Warning at Vesuvius: the A.D. 1631 Lesson, Geophysical Research Letters, Vol. 33, L18317, 2006
- Sandri L. ed altri, Bayesian Event Tree for Eruption Forecasting (BET_EF) at Vesuvius, Italy: a Retrospective Forward Application to the 1631 Eruption, Bull. Volcanol. Oct. 8, 2008
- www.vulcan.fis.uniroma3.it
- www.wikipedia.org
- www.ingv.it
- www.ov.ingv.it (Osservatorio Vesuviano)
- www.193.204.162.114 (Esplora i vulcani italiani)