Aleutine & Hawaii: lo tsunami del mistero. Ancora sconosciuta la causa delle onde che attraversarono il Pacifico nel 1946

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Il 1 aprile, come noto, è il giorno degli scherzi e dei “pesci”: per questo in America viene considerato “fools day” ovvero “giorno degli sciocchi”. Anche la natura però una volta in quel giorno s’è divertita, generando uno “scherzo” devastante e mettendo in grande imbarazzo gli scienziati di tutto il mondo i quali ancora oggi, a distanza di 67 anni, non riescono a dare una spiegazione certa ad uno dei più grandi misteri scientifici del XX secolo. Il geologo Giampiero Petrucci ricorda quanto accaduto e le diverse teorie sull’origine del disastroso fenomeno.

La zona da cui si origina la catastrofe del 1 aprile 1946. Il Mare di Bering separa l’Alaska (Stati Uniti) dalla Russia (allora Unione Sovietica). Le Isole Aleutine si allungano in direzione est-ovest come una propaggine dell’Alaska. La F rappresenta il Faro di Scotch Cap, la E l’area teorica dell’epicentro, in prossimita del “piano di subduzione” (la fascia blu scuro semicircolare, una porzione del celebre “anello di fuoco”)

Il terremoto. Nelle prime ore del 1 aprile 1946, in piena notte, si verifica una grande scossa di terremoto, con epicentro poco a sud delle Isole Aleutine, un arcipelago allungato in direzione est-ovest, propaggine meridionale dell’Alaska, situato nel Mar di Bering, che si spinge verso le coste della Kamchatka (oggi Russia, in quel periodo Unione Sovietica). Si tratta di una zona desolata e scarsamente abitata, caratterizzata da catene vulcaniche, nebbia e clima gelido, ma strategicamente importante al punto che in quell’immediato dopo-guerra l’esercito statunitense vi sperimenta in gran segreto alcune innovative armi nucleari. Qui però forse è la natura a possedere l’arma più terrificante: la terra trema con una scossa lunga, ben avvertita dalla scarsa popolazione locale (poche migliaia di abitanti che vivono soprattutto in capanne e baracche di legno). La magnitudo, dai pochi sismografi che registrano l’evento, è valutata intorno a 7.1-7.4 (gli studiosi non concordano). In definitiva un evento importante ma che tuttavia, causa la desolazione dei luoghi, genera danni limitati e potrebbe passare quasi inosservato in un mondo ancora impegnato a risollevarsi dalle tristissime vicende belliche del lustro precedente.

L’arcipelago delle Hawaii è il più colpito dallo tsunami, nonostante disti ben 4000 km dalle Aleutine. I numeri che circondano ogni isola rappresentano le altezze delle onde arrivate sulla costa, espresse in metri. Si noti come generalmente il litorale a nord, dunque nella direzione della sorgente, abbia subìto run-up maggiori di quello a sud (da Googlemaps, rielaborato)

Lo tsunami. Non è così. Perché dopo pochi minuti dalla scossa, si verifica anche uno tsunami le cui caratteristiche però paiono subito abbastanza particolari. L’isola di Unimak è la più orientale dell’arcipelago e sulla sua costa meridionale esiste un grande faro, chiamato Scotch Cap, alto una trentina di metri, sede di una stazione radio. Dopo almeno mezz’ora dal terremoto (alcune fonti parlano di 45-50 minuti) questa costruzione è letteralmente spazzata via da un’onda gigantesca, con un run-up di almeno 35-40 metri, capace di radere al suolo il faro ed uccidere le cinque sfortunate persone che vi si trovano. Le onde inoltre travolgono l’intera costa meridionale di Unimak, con run-up compresi tra 15 e 40 metri. Valori che sin dal primo momento appaiono esageratamente grandi rispetto alla magnitudo stimata del terremoto. Non è la prima volta però che nel Pacifico si genera uno tsunami a seguito di un sisma: il famoso “anello di fuoco”, sede privilegiata di terremoti lungo le coste di tutto l’oceano, è già ben noto a livello scientifico. Ma rimane quell’onda apparentemente “troppo” grande e difficilmente spiegabile.

Il mare invade le spiagge hawaiiane con violenza nell’isola di Kauai. E’ il 1946 ma l’immagine è similare a quanto abbiamo visto nel 2004 in Indonesia od in Giappone nel 2011 (da “The Tsunami of April 1, 1946” di Shepard, MacDonald e Cox)

Alle Hawaii. Ancor più strano pare agli scienziati quanto accade più a sud, a ben 4000 km di distanza, alle isole Hawaii. Dopo circa quattro ore e mezzo dalla scossa dell’Alaska, tra le 6.30 e le 7.00 di mattina, avendo viaggiato ad una velocità di 7-800 km/h, le onde piombano sull’arcipelago americano, portando morte e distruzione. Nessuno si aspetta un simile arrivo, nessuno è stato in grado di avvisare la popolazione: gli tsunami, tranne che in Giappone dove sono da sempre di casa, risultano ancora poco noti a livello planetario e da almeno 60 anni (Krakatoa 1883) non si verifica nel mondo un evento naturale catastrofico su larga scala, con le onde capaci di attraversare addirittura un oceano. Le due sanguinose guerre mondiali del Novecento hanno inoltre bloccato qualsiasi progetto scientifico che non fosse legato alla produzione di armi sempre più terrificanti (la bomba atomica è stata sganciata da appena un anno). La popolazione hawaiiana è dunque del tutto impreparata ad affrontare una simile catastrofe.

Una casa ha subìto la furia delle onde ed è stata trascinata per diversi metri, le strade sono piene di detriti (da “The Tsunami of April 1, 1946” di Shepard, MacDonald e Cox)

I danni. In effetti l’arcipelago, neanche cinque anni dopo il famoso bombardamento giapponese di Pearl Harbor, subisce un altro attacco frontale, stavolta non dal cielo ma dal mare. Lo tsunami presenta caratteristiche variabili nelle isole: il run-up è molto diverso, a volte il mare inizialmente si ritira ed in altre no. Differente anche l’arrivo sulla costa delle onde: in alcuni casi l’acqua sale lentamente, quasi “gentilmente” (come narrano alcuni testimoni); in altre situazioni le onde aggrediscono il litorale con violenza, trascinandosi dietro coralli, alghe, pesci, barche, detriti di ogni genere. Inoltre, altro aspetto insolito, non sempre la prima onda è la più alta ed impetuosa: a volte giungono anche 7-8 ondate di seguito, ad intervalli regolari (anche di qualche minuto) e più volte l’onda distruttrice è la terza o la quarta della serie. Molto variabili i run-up: il massimo si registra nell’isola di Hawaii, a Pololu, con circa 15-16 metri mentre la cittadina di Hilo risulta tra le più colpite, con l’acqua che invade le sue strade, trascinando via ogni mezzo o persona che incontra sul proprio cammino. Distrutti anche una scuola ed un ospedale. Il mare penetra per parecchie centinaia di metri, in alcuni casi anche per oltre un km. Tutte le isole, sia pure con modalità differenti, subiscono la furia del mare ed il risultato è sconvolgente: 159 vittime (di cui ben 96 nella sola Hilo), 500 case distrutte, 25 milioni di dollari la stima dei danni. Come un bombardamento, sospira tra le lacrime più di un hawaiiano.

Una casa abbattuta dalle onde a Hilo (da “The Tsunami of April 1, 1946” di Shepard, MacDonald e Cox)

Lo studio. Da un punto di vista scientifico il disastro insegna molto e diventa il test privilegiato per i migliori scienziati del periodo. Si capisce, studiando gli effetti, come gli tsunami colpiscano in maniera diversa a seconda di molti parametri. Il più evidente nel caso hawaiiano è l’importanza dell’orientazione: le coste esposte a Nord, dunque nella direzione frontalmente opposta alla sorgente, hanno registrato valori maggiori di run-up rispetto a quelle a Sud. Le isole dalla forma più tondeggiante hanno rifratto in maniera migliore le onde che hanno avuto modo di sviluppare effetti ancora più dannosi a ripetizione. Dove le coste hanno i fondali più bassi, le onde si sono alzate di più. La presenza del reef corallino ha in qualche modo “protetto” la costa, formando una specie di barriera. In alcuni casi le onde hanno sommato i loro effetti, incontrandosi dopo aver deviato la loro direzione di marcia causa l’ostacolo della costa, in altri invece si sono “scontrate” annullandosi quasi a vicenda. La catastrofe transoceanica entra nell’immaginario collettivo delle popolazioni e dei governi al punto che, pochi anni dopo, già nel 1949, proprio a seguito di questo evento devastante, viene lanciato il progetto PTWC, acronimo di Pacific Tsunami Warning Center, ancora oggi attivissimo e capace di dare l’allarme-tsunami in tempo pressochè reale. Ovvero, come si può imparare dalle catastrofi.

La cittadina di Hilo subisce i danni maggiori dallo tsunami del 1946. Le sue strade sono invase dai detriti, si contano 96 vittime (da “The Tsunami of April 1, 1946” di Shepard, MacDonald e Cox)

Nel resto del Pacifico. Nel 1946 le onde però non si fermano alle Hawaii, proseguendo la loro folle corsa. Colpiscono, talora forte, anche i paradisi della Micronesia e del Pacifico, in particolare le Isole Marchesi dove la mancanza del reef associata alla presenza di valli strette e ripide amplifica la forza delle onde che arrivano intorno a mezzogiorno. I piccoli villaggi, con costruzioni spesso di legno erette in prossimità delle spiagge, non hanno scampo: a Hiva Oa, l’isola più grande, si registrano run-up di 10-14 metri ed ingressioni di 7-800 metri anche se le altezze maggiori vengono rilevate a Ua Pou, con 18-20 metri. A Nuku Hiva l’ingressione tocca anche il km. Nonostante questi valori importanti, solo due le vittime accertate, una madre col suo bambino, trascinati via dalle onde nel villaggio di Tahauku. Ciò anche perché in alcuni casi gli anziani, una volta accortisi del ritiro del mare, hanno dato l’allarme. Nessuno di loro aveva visto uno tsunami, ma il fenomeno era comunque noto nella tradizione locale: a conferma di come nel passato qualcosa di simile fosse già avvenuto, terrorizzando i loro antenati, esisteva (ed esiste) nell’idioma locale pure una parola, taitoko, per descrivere ciò che oggi noi comunemente chiamiano tsunami. Le onde quindi colpiscono tutta la Micronesia, giungono anche nelle Isole Australi e addirittura nella sperdutissima Pitcairn (l’isola in cui si rifugiarono i famosi “ammutinati del Bounty”) dove, per la mancanza del reef, raggiungono 5-6 metri di altezza. Poi attraversano tutto l’oceano, piombando perfino su altre due isole sperdute, lontane migliaia di km dalle Aleutine: dapprima sull’Isola di Pasqua (intorno alle 19 locali, 7-8 metri di run-up e 150-200 metri di ingressione) e quindi su Robinson Crusoe (arcipelago Juan Fernandez), all’una di notte, con run-up di circa 3 metri. Infine addirittura toccano l’Antartide, per la precisione Winter Island, ben 15mila km di distanza dalle Aleutine (!), dove riescono ancora a creare qualche danno. Compiono però devastazioni anche più a nord, sulle coste statunitensi: causa run-up compresi tra i 2 ed i 3 metri, alcuni porti degli stati di Washington ed Oregon subiscono danni a barche ed infrastrutture. La California non è immune: la Half Moon Bay, una quarantina di km a sud di San Francisco, è inondata; a Santa Cruz annega una persona; Santa Barbara e Los Angeles vedono le loro spiagge invase dal mare. Barche e porti colpiti anche in Cile (Valparaiso). Un evento dunque veramente transoceanico, con le onde capaci di viaggiare per migliaia di km, creando morte e devastazione sulle due coste del Pacifico. Ma un disastro che nasconde a lungo un mistero, ancora oggi non completamente risolto.

Da oltre 60 anni nel Pacifico è attivo lo Tsunami Warning System, in grado di dare l’allarme-tsunami in tempo praticamente reale. Rappresenta il miglior esempio di come si possa e si debba imparare dalle catastrofi. Qualcuno da tempo propone di sviluppare un sistema similare anche nel Mediterraneo dove non mancano le sorgenti tsunamigeniche. In verità esistono nei nostri mari alcuni sensori-boa in grado di indicare l’altezza delle onde ma non sembrano sufficienti, per numero e qualità, a garantire la sicurezza delle nostre coste

Le cause. Dal 1946 ad oggi tre generazioni di scienziati hanno cercato le cause di un fenomeno così grande per ampiezza e devastazione. Tutti noi sappiamo che un terremoto generatosi in mare può sviluppare uno tsunami se di magnitudo elevata. Questo è il primo punto affrontato dagli studiosi: la magnitudo (inizialmente stimata in 7.1-7.4) sembra troppo bassa per sviluppare un simile evento transoceanico. In pratica, questo terremoto con questa magnitudo da solo non basta a giustificare, dal punto di vista scientifico, onde così alte alle Hawaii e difficilmente pure quella enorme che distrugge il faro di Scotch Cap. Su questo tutti concordano. Anche perché esistono due esempi successivi a proposito illuminanti: nel 1957 e nel 1964, in zone non lontane da quello del 1946, si originarono altri due tsunami importanti ma legati a terremoti di magnitudo ben superiore (rispettivamente 8.6 e 9.2). Dunque perché quello del 1946 fu così devastante alle Hawaii?

Il terremoto “slow”. Gli scienziati si dividono sulle ipotesi. Qualcuno, sulla base degli effetti dello tsunami, ha cercato di “alzare” la magnitudo fino a 8.5, giustificando l’errore con i pochi sismografi che all’epoca registrarono il terremoto e la poca accuratezza degli strumenti di quel periodo. Ovviamente, non bastava perché la scienza necessita di prove. Allora è nata un’altra tesi, suffragata da dati scientifici. Noi sappiamo che generalmente un terremoto è un rilascio di energia in un punto ben specifico, in corrispondenza di una faglia, nel giro di pochi secondi. Ma negli ultimi anni i sismologi hanno scoperto un altro tipo di terremoto, detto “slow” ovvero “lento”: in sostanza, invece di un rilascio immediato ed improvviso, il sisma si sviluppa con una certa continuità in un intervallo di tempo più lungo ed in un’area più vasta, con rotture bilaterali a velocità nettamente inferiori alla norma (da qui il nome). Questo tipo di terremoto, tipico delle zone di subduzione, può generare tsunami transoceanici ma sviluppa onde sismiche ad alta frequenza, difficilmente registrabili dai sismografi “normali” che “lavorano” su frequenze diverse: si crea inoltre una specie di “interferenza” tra i vari tipi di onde. Dunque un terremoto “slow”, difficilmente captabile anche con la strumentazione attuale, non poteva essere registrato correttamente dai sismografi del 1946: ecco come potrebbe essere spiegata la sottostima della magnitudo. Recentemente alcuni scienziati, ricalcolando i vari parametri tra cui la stima dell’energia rilasciata e rilocando tutti gli aftershocks, hanno proposto per questo evento una magnitudo di momento sismico pari a 8.2-8.5, compatibile con lo tsunami giunto fino alle Hawaii e sulle coste americane.

La frana sottomarina. Ma altri studiosi propendono per un’altra causa, che sta prendendo sempre più vigore negli ultimi anni come originatrice di tsunami: una frana sottomarina innescata dal terremoto. Come sarebbe accaduto anche a Messina nel 1908. Dunque, il terremoto di magnitudo intorno a 7.1-7.4 avrebbe provocato un’enorme frana sottomarina (almeno 20 km di fronte!) lungo la scarpata continentale dell’ ”anello di fuoco” al largo delle Aleutine. La frana, spostando un enorme massa d’acqua, avrebbe indotto lo tsunami nelle due direzioni. Il problema di questa teoria, peraltro plausibile dal punto di vista scientifico, sta nella mancata individuazione del corpo di frana o comunque di indizi che possano suffragare il suo sviluppo. Sono state compiute diverse ricerche sottomarine, con robot e scandagli, a largo delle Aleutine ma, con grande disappunto e sorpresa degli scienziati, non è stato individuato niente di interessante nei fondali, apparentemente indisturbati. Dunque, bisogna ancora cercare, forse da un’altra parte: una frana così enorme avrebbe dovuto certamente lasciare qualche segnale visibile negli abissi. Se non si trova niente, sostengono alcuni studiosi, significa che questa tesi non va considerata.

La “combination”. Ma si fa largo forse l’ipotesi al momento più verosimile. Secondo molti scienziati una frana sottomarina può generare certamente uno tsunami “locale” (Scilla 1783, Stromboli 2002) ma molto difficilmente può essere presa come sorgente di uno tsunami transoceanico di così vaste proporzioni come quello del 1946 nel quale oltre tutto le onde sembrano aver preso una ben precisa direzione azimutale. Certamente il terremoto è stato forte, a prescindere dalla magnitudo. Ammettendo che sia stato di tipo “slow” (e dunque mal registrato dai sismografi), avrebbe provocato lo tsunami giunto alle Hawaii. Rompendo un equilibrio, il sisma avrebbe potuto generare anche una frana sottomarina in grado potenzialmente di sviluppare altre onde, anche di grandi dimensioni ma solo nel cosiddetto “near-field” (cioè nelle vicinanze del sito di sviluppo). Possibile dunque una combinazione dei due fattori, anche se rimane da chiarire come sisma e frana abbiano interagito fra loro: se cioè abbiano unito o no i loro effetti. Dunque se si deve parlare di uno tsunami unico sviluppato in tutte le direzioni o, più probabilmente secondo la maggioranza degli scienziati, di due distinti fenomeni generati da due sorgenti diverse (la frana è responsabile solo del disastro alle Aleutine?). Situazione dunque ancora incerta e che necessita ulteriori verifiche, a distanza di ben 67 anni dall’evento. Per questo, con una battuta, qualche studioso dice che lo tsunami del 1946 si sta ancora prendendo gioco di tutti noi.

La bomba. Appunto perché il 1 aprile è il “fools day”. E, forse proprio prendendo spunto da questo, qualcuno parla di un’altra sorgente per questo disastro. Un’ipotesi al limite della fantascienza e certamente più adatta ad una spy-story che ad un consesso scientifico internazionale. E’ comunque accertato che in quel periodo, in cui la “guerra fredda” muoveva i primi passi, gli USA avessero in corso in Alaska esperimenti importanti e segretissimi sulle armi nucleari. Proprio in quegli anni stavano mettendo a punto la bomba all’idrogeno ed una fonte “politicamente scorretta” vuole che questa bomba sia stata testata proprio il 1 aprile 1946, “da qualche parte in Alaska”. Dunque lo tsunami così atipico, al punto che ancora oggi gli scienziati dibattono sulla sua origine, sarebbe stato originato da…una bomba H!

L’insegnamento del 1946. Scherzi a parte, lo tsunami hawaiiano del 1946 ci lascia un’eredità fondamentale. Per quanto devastante, questo disastro risulta illuminante dal punto di vista scientifico e della percezione del rischio. Nella seconda metà degli anni quaranta, qualcuno, sulla scia della bomba atomica, si illude che la natura possa essere controllata e manipolata a piacimento dall’uomo: in alcuni casi può anche essere vero, in altri certamente no. Terremoti e tsunami non possono ancora essere previsti né controllati. Ma da loro, come da altre catastrofi naturali, possiamo difenderci ed il Pacific Tsunami Warning Center ne è il paradigma principale. Solo lo studio accurato del passato può insegnarci a preservare il futuro del nostro pianeta. Un evento simile a quello del 1946 può accadere in qualsiasi momento: le coste del Pacifico saranno sempre a rischio tsunami ma la popolazione, almeno quella, può essere avvisata e probabilmente salvata. Bisogna essere preparati ad affrontare le calamità, questo insegna lo tsunami transoceanico del 1946.

Si ringrazia il Prof. Emile A. Okal per la grande collaborazione e le preziose informazioni fornite

BIBLIOGRAFIA

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  • www.wikipedia.org
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