Il terremoto. Alle 18.49 ora locale del 17 luglio 1998 un forte terremoto colpisce la costa settentrionale della Nuova Guinea, la grande isola dell’Oceano Pacifico situata a nord dell’Australia. La magnitudo del sisma è stimata in 7.0 e l’epicentro è posizionato nei pressi della costa, ad ovest della laguna di Sissano, vicino all’estuario dell’Arnold River, provincia di Sandaun. L’evento non rappresenta una sorpresa. L’area è tra le più sismiche dell’Oceano Pacifico: a livello tettonico è infatti sede del contatto tra la placca australiana e quella pacifica, con diversi terremoti distruttivi originatisi nell’ultimo secolo lungo la cosiddetta Fossa della Nuova Guinea, una depressione del fondo marino situata in corrispondenza del piano di subduzione tra le due placche suddette. Il terremoto più forte registrato nella zona risale al 17 febbraio 1996, con epicentro nei pressi dell’isola indonesiana di Biak e magnitudo di 8.2.
La costa interessata dal fenomeno è sabbiosa e pianeggiante (l’altitudine massima non supera i 5 metri s.l.m.) mentre le infrastrutture e l’urbanizzazione sono scarse: esistono alcuni sporadici villaggi e piccole cittadine, con abitazioni spesso di legno e strade sterrate, costruiti in prossimità delle spiagge, non molto ampie ed a ridosso delle quali inizia una fitta boscaglia tropicale, spesso costituita da palme e mangrovie. La principale cittadina è Aitape, che conta circa ottomila abitanti e da cui l’evento prende nome. La scossa provoca soprattutto danni materiali, in particolare a Sissano dove crolla la chiesa più importante. Vengono segnalati anche fenomeni di liquefazione nel terreno. La catastrofe stavolta però non è dovuta al terremoto.
Lo tsunami. Infatti circa venti minuti dopo la scossa principale, mentre si susseguono alcuni aftershock con magnitudo inferiori, tre grandi onde di tsunami colpiscono la costa, sorprendendo completamente gli abitanti dei villaggi, intenti ad osservare sulle spiagge l’insolito ritiro del mare e sbalorditi da un continuo rumore di sottofondo che somiglia al rombo di un jet. Preannunciato da una potente onda d’urto che addirittura scaglia a terra alcune persone, il ritorno del mare sulla costa è molto potente: il run-up delle onde è stimato in circa dieci metri, in qualche caso pure 15 metri, in particolare nella parte orientale della laguna di Sissano. In media l’ingressione marina sulla terraferma raggiunge i 500 metri. Molte persone provano a fuggire verso l’interno ma non vi sono alture vicine né piattaforme di cemento elevate in grado di garantire sicurezza. Qualcuno si arrampica sugli alberi e riesce a scampare, sia pure a stento, al disastro.
Le acque entrano con violenza nella laguna di Sissano, lunga una decina di km e larga cinque, scavalcando facilmente lo stretto cordone sabbioso che la delimita dal mare aperto, inondando anche la foresta di mangrovie e risalendo il corso di alcuni fiumi, generando morte e distruzione. Alcuni villaggi sconosciuti sono quasi rasi al suolo: i più colpiti sono Arop, Malol, Nimas, Mak e soprattutto Warapu dove muore un migliaio di persone, quasi la metà degli abitanti. Molti edifici, spesso semplici capanne di legno ad un solo piano, sono spazzati via, i detriti trascinati a km di distanza; centinaia di mangrovie ed alberi di alto fusto vengono sradicati. La violenza dello tsunami però colpisce un’area abbastanza ristretta, circa 25-30 km di litorale, tra Sissano ed Aitape, località in cui le onde, con run-up limitato a 3-4 metri, arrivano circa venticinque minuti dopo la scossa principale.
I soccorsi risultano lenti ed inefficaci. Le comunicazioni sono difficili, la zona non è facilmente raggiungibile e non sembra assolutamente preparata a fronteggiare autonomamente un simile disastro che oltre tutto si verifica di venerdì sera, quando molti uffici governativi sono chiusi. I primi aiuti giungono soltanto dopo una quindicina di ore, molti feriti non vengono ricoverati negli ospedali attrezzati prima di due giorni. Si calcola che le vittime totali dello tsunami siano circa 2200 mentre si contano un migliaio di feriti e 10mila senzatetto. Una grande tragedia la cui eco in Europa ed in Italia, non soltanto oggi ma anche al momento del suo sviluppo, rimane molto ovattata e presto dimenticata, schiacciata, mediaticamente parlando, anche dal ben più grandioso tsunami del 2004.
Le cause. Invece il fenomeno è importante, non soltanto per l’entità dei danni e le vittime. Risulta fondamentale infatti, per genesi e sviluppo, dal punto di vista scientifico. Gli esperti si mettono alacremente all’opera ma nella ricostruzione dell’evento si trovano di fronte a diverse contraddizioni ed a qualche singolarità. L’altezza delle onde, molto alta, ed i tempi di arrivo sulla costa, non rapidissimi, sembrano non coincidere con la magnitudo del terremoto, forte ma non fortissima, e la posizione dell’epicentro. In diverse località la direzione delle onde, riferita dai sopravvissuti e valutata dai differenti tempi di arrivo sulla costa, sembra quasi convergere verso l’epicentro del sisma e non il contrario come invece dovrebbe essere. Anche la concentrazione dei danni in un ben delimitato e ristretto settore di litorale non collima con l’origine sismica. Infine i run-up più elevati, e di conseguenza i danni più ingenti, non si sviluppano in prossimità dell’epicentro ma a diversi km di distanza da esso. I calcoli idrodinamici e le simulazioni al computer non ammettono incertezze: se lo tsunami fosse stato originato esclusivamente dal terremoto e dall’attivazione di una faglia, le onde sarebbero dovute arrivare prima e con minore energia sulla costa, interessando probabilmente anche un’area più ampia, teoricamente pure transoceanica. In sostanza si tratta di uno tsunami anomalo, troppo forte e troppo concentrato per essere esclusivamente legato ad un terremoto ed in particolare a quella scossa. La causa principale dello tsunami deve dunque essere cercata altrove.
La frana. Negli anni seguenti, a cavallo del 2000, numerose spedizioni internazionali eseguono accurate ricerche sulla costa ed in mare. Le analisi batimetriche dei fondali, le simulazioni al computer, le foto aeree del dopo-disastro, i carotaggi e la sismica a riflessione consentono di avere un quadro più preciso dell’evento. Alcune testimonianze di sopravvissuti indicano un curioso particolare: le acque delle onde di tsunami parevano particolarmente calde e caratterizzate da uno strano odore simile al kerosene. Ciò fa pensare che allo tsunami possa essere associata una fuga di gas, probabilmente metano, dai fondali marini. Un indizio in più che concorre a formulare l’ipotesi principale per la causa del fenomeno. Una frana sottomarina, un movimento massivo gravitativo di sedimenti plastici, s’è sviluppata a seguito del terremoto: probabilmente, visti i tempi di arrivo sul litorale, non è dovuta alla prima scossa ma piuttosto ad un aftershock successivo, ben registrato dai sismografi e di di magnitudo prossima a 6.0, capace, per così dire, di concludere l’opera della scossa principale, rompendo definitivamente un equilibrio già precario. Il movimento franoso sottomarino, verificatosi lungo la scarpata continentale, in una zona ben definita dalle indagini batimetriche, al largo dei villaggi più colpiti, ha spostato una grande quantità di acqua ed innescato le onde che si sono abbattute con violenza lungo la costa.
Come in altri fenomeni analoghi e ben documentati (Terranova 1929 e Hawaii 1946), il terremoto dunque non è la causa principale dello tsunami ma semmai una concausa: probabilmente ha innescato la frana sottomarina che a sua volta ha generato lo tsunami. Non si può comunque escludere che i due eventi, terremoto e frana, si siano, in qualche misura, combinati, andando quindi a sommare i loro effetti. Qualcosa di simile, secondo una recente teoria di cui abbiamo già parlato sulle pagine di MeteoWeb, potrebbe essere accaduto anche per lo tsunami che seguì il terremoto dello Stretto di Messina nel 1908. L’evento di Aitape dunque è particolarmente significativo perché ancora una volta emerge la testimonianza scientifica di come anche le frane, sottomarine o subaeree e non necessariamente connesse ad un terremoto di magnitudo estrema, siano in grado di generare tsunami capaci di provocare migliaia di morti, innalzando dunque pericolosamente il rischio e la vulnerabilità delle coste.
- Si ringrazia il dott. Bruce Jaffe, del Servizio Geologico Nazionale degli Stati Uniti, per la gentile concessione delle immagini estratte dai suoi lavori e dalle pagine web dell’USGS
- Si ringrazia il dott. David R. Tappin, del Servizio Geologico Britannico, per la gentile concessione di alcune immagini estratte dai suoi lavori.
- Thanks to dr. Bruce Jaffe, U.S. Geological Survey, who has provided us with some images here published
- Thanks to dr. D.R. Tappin, British Geological Survey, who has provided us with some images here published
BIBLIOGRAFIA
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- Gelfenbaum G., Jaffe B., Erosion and Sedimentation from the 17 July, 1998 Papua New Guinea Tsunami, Pure Appl. Geophys., 160, pp. 1969-1999, 2003
- Jaffe B., Gelfenbaum G., A Simple Model for Calculating Tsunami Flow Speed from Tsunami Deposits, Sedimentary Geology, n. 200, pp. 347-361, 2007
- Tappin D.R., Watts P., Grilli S.T., The Papua New Guinea Tsunami of 17 July 1998: Anatomy of a Catastrophic Event, Nat. Hazards Earth Syst. Sci., 8, pp, 243-266, 2008
- Tregoning P., Evidence for Active Subduction at the New Guinea Trench, Geophysycal Research Letters, Vol. 31, L13608, 2004
- http://walrus.wr.usgs.gov/tsunami/itst.html