Nell’anno 1700 un grande tsunami colpì la costa orientale del Giappone. Un evento rimasto a lungo nell’immaginario collettivo nipponico, per il modo anomalo in cui si presentò, non essendo stato accompagnato da un terremoto avvertito dalla popolazione. Il fenomeno fu talmente particolare che passò alla storia come lo “tsunami orfano”, data la mancanza di un’origine accertata per un evento singolare in un paese che da sempre ha dovuto fronteggiare le più devastanti forze della natura. Soltanto alla fine del Novecento è stato possibile ipotizzare un “padre” per questo tsunami. Ce ne parla il geologo Giampiero Petrucci.
Lo tsunami “orfano”. Il Giappone può essere definito come “patria degli tsunami”: le sue coste sono state interessate sin dall’antichità da maremoti distruttivi e la popolazione ha convissuto da sempre con questi fenomeni. I resoconti storici, comprensivi di mappe e disegni, abbondano di testimonianze in cui il mare travolge interi villaggi. La tradizione orale nipponica è ricca di leggende, fiabe, racconti con le onde che entrano nei porti (la parola tsunami significa letteralmente proprio questo), distruggendo moli, imbarcazioni, case, animali, persone. Ma tra tutti questi eventi ne esiste uno veramente particolare, anomalo ed unico. Molti documenti cartacei del XVIII secolo attestano lo sviluppo di uno tsunami sull’intera costa pacifica dell’isola di Honshu (la principale dell’arcipelago) avvenuto nell’anno 1700, ma senza essere preceduto, come generalmente accade, da un terremoto, più o meno distruttivo. Questo tsunami, giunto senza preavviso sulle coste, sorprende totalmente la popolazione, causando numerosi danni e vittime. I resoconti scritti di quel periodo parlano chiaro: amministratori locali, dignitari, mercanti, funzionari di stato e perfino samurai nelle loro lettere descrivono ripetutamente il fenomeno cosicchè gli studiosi sono stati in grado di valutarne appieno gli effetti. Certamente lo tsunami interessa l’intera costa del Pacifico, dall’isola di Hokkaido a nord, a Tanabe a sud, un migliaio di km. Diverse città costiere vedono le onde distruggere edifici (spesso di legno), trascinare lontano barche e persone, annientare nel giro di pochi minuti ogni risorsa. Kuwagasaki, nella baia di Miyako, è tra le cittadine di cui si hanno maggiori riscontri: lo tsunami arriva intorno alla mezzanotte tra il 27 ed il 28 gennaio 1700, con onde alte almeno 4 metri, portando grandi sconvolgimenti e distruggendo almeno il 10% degli edifici. Tsugaruishi, nella stessa baia, subisce effetti similari, con il mare che penetra all’interno del litorale per circa un km. Si stima che sulla costa siano arrivate sei-sette grandi ondate che in certe baie avrebbero avuto una persistenza anche di alcune ore, per fenomeni di riflessione e risonanza di cui abbiamo già parlato in relazione ai meteotsunami.
Otsuchi è un’altra cittadina in cui le altezze delle onde hanno raggiunto 4-5 metri mentre nella zona di Miho, al contrario, si segnalano effetti limitati anche se le oscillazioni del livello marino durano a lungo. Certamente lo tsunami colpisce anche molto più a sud: a Tanabe, non lontano dalla baia di Osaka, i riscontri storici parlano di danni ingenti, con onde alte fino a 3 metri. Dunque, uno tsunami geograficamente esteso, che colpisce oltre 1000 km di costa, con conseguenze catastrofiche (Figura 1). Ma con una particolarità: nessuno ha avvertito la benchè minima scossa di terremoto. La domanda è una sola: da dove è arrivato questo tsunami, quale è la sua origine?
Cascadia. Quesito che rimane insoluto per tre secoli e che fa guadagnare allo tsunami del 1700 l’appellativo di “orfano” proprio perché la sua causa rimane sconosciuta. Anche perché negli anni seguenti gli tsunami continuano a susseguirsi sulle coste giapponesi del Pacifico ma tutti sono “preannunciati” da terremoti più o meno intensi, quasi sempre originatisi in prossimità della Japan Trench, la “fossa” di cui abbiamo già parlato in relazione alla Sanriku Coast. Gli studiosi sono interdetti e lo tsunami “orfano” assume in Giappone quasi i contorni del mito, una sfida che la scienza non sembra in grado di vincere. Nel 1960 però qualcosa cambia: un fortissimo terremoto in Cile (di magnitudo 9.5, la più alta mai registrata fino ad oggi nel mondo intero) provoca uno tsunami transoceanico che si abbatte con una certa violenza anche sulle coste nipponiche.
Qualcuno comincia a pensare, timidamente, che la risposta al quesito del 1700 possa trovarsi dall’altra parte del Pacifico. Si scatena il dibattito, con supposizioni e teorie, ma servono prove. Le trova un geologo e professore statunitense, Brian Atwater, in una zona che fino agli anni ’60 non si riteneva in grado di generare terremoti caratterizzati da magnitudo superiori a 7.0, la Cascadia. Con questo termine (la cui pronuncia in inglese è keskedia) si indica una zona geografica americana compresa tra la California a sud ed il Canada a Nord, tra la catena montuosa denominata Cascade Range ad est ed il Pacifico ad ovest. Con Cascadia si indica anche la zona di subduzione situata nello stesso Pacifico, al largo delle coste americane e canadesi, tra la California e l’isola di Vancouver (Figure 2 e 3).
In quest’area, lunga un migliaio di km, la placca tettonica nordamericana si scontra e si sovrappone alla placca denominata Juan de Fuca, rendendo l’intera costa nordamericana potenzialmente soggetta a grandi devastazioni naturali: è stato calcolato che i movimenti relativi tra queste due placche sono dell’ordine di circa 4 cm all’anno e che ogni 250-300 anni la costa pacifica nordamericana possa essere soggetta ad un terremoto di magnitudo intorno a 8.0. La Cascadia infatti fa parte del celebre “anello di fuoco” che circonda l’Oceano Pacifico, generando eruzioni (celebre quella del Mount St. Helens nel 1980) e terremoti (Figura 4), ma fino all’inizio dell’Ottocento quest’area era poco nota agli europei che ancora non avevano colonizzato le terre a nord della California. Nessuno dunque, se non i nativi americani, avrebbe potuto accorgersi di un disastro naturale avvenuto nel 1700. Una rapida indagine storica dimostra che proprio nelle leggende orali di queste popolazioni rimaneva presente il ricordo di una grande “alluvione del mare”, capace di inondare interi villaggi nello stretto di Juan de Fuca (il braccio di mare a sud dell’isola di Vancouver e che oggi segna il confine tra Canada e Stati Uniti), provocando numerosi morti tra le tribù locali e trascinando via numerose canoe e capanne.
Geologia e dendrocronologia. Le ricerche di Atwater, iniziate alla fine degli anni ’80, sono partite proprio da queste tradizioni. Risalendo le baie e le foci dei fiumi, spesso in canoa, e scavando in spiagge e sponde alla caccia di indizi, i geologi hanno rintracciato diversi livelli di tsunamiti:
si tratta di depositi strappati dal fondo del mare e portati fino a terra, a testimonianza di un brusco cambiamento granulometrico ed ambientale. Nel caso della Cascadia sono livelli sabbiosi, spessi una ventina di cm, posti all’interno di una successione costituita da sedimenti più fini (silt), indicanti ambiente ad alta energia e contenenti i resti di microscopiche alghe silicee di origine marina, le diatomee. Proprio grazie alla presenza delle diatomee, la datazione di questi livelli sabbiosi, col metodo del radiocarbonio, ha permesso di indicare un ristretto intervallo di tempo (1695-1720) in cui cadeva anche l’anno 1700. Il primo passo verso la verità sembrava compiuto: in quel periodo la Cascadia aveva originato uno tsunami, probabilmente a seguito di un terremoto con magnitudo elevata. Chiare evidenze di liquefazione delle sabbie e fessurazioni nei terreni legati a fenomeni cosismici confermavano questa possibilità.
Un ulteriore tassello è stato individuato dalla presenza di diverse “foreste fantasma” ovvero i resti di boschi in cui le piante, generalmente della specie “cedro rosso dell’ovest”, sembravano improvvisamente morte: decine di “scheletri vegetali”, parzialmente sepolti, per sempre inariditi, anche perché situati in aree improvvisamente raggiunte dalle maree più alte. Gli studi botanici, comprendenti la dendrocronologia ovvero l’analisi degli anelli di accrescimento nel tronco degli alberi (ogni anello rappresenta un anno di vita), accompagnati alle valutazioni geomorfologiche, hanno dimostrato due aspetti illuminanti: quei boschi erano stati allagati dal mare causa la subsidenza del terreno a seguito del terremoto (spostamenti cosismici verticali di almeno un metro), le piante erano morte prima della Primavera del 1700. Difatti generalmente gli anelli del tronco degli alberi mostravano l’accrescimento completo per la stagione 1699 ma non l’inizio dell’accrescimento per l’anno 1700. Dunque, concludevano i botanici, le piante dovevano essere morte tra l’agosto del 1699 ed il maggio del 1700, a seguito di un evento sconvolgente e catastrofico che aveva modificato in maniera permanente il loro habitat naturale, aumentando anche la salinità dell’humus (Figura 5). In pratica, il mare aveva avuto la possibilità di arrivare, con una certa frequenza e regolarità, in zone ad esso prima inaccessibili. Inoltre gli alberi di un’altra specie, l’abete rosso, mostravano negli anelli di accrescimento forti segnali di stress, a partire dall’anno 1700: in sostanza, pur essendo sopravvissuti alla catastrofe, avevano sofferto al punto che i loro anelli avevano iniziato a crescere in misura minore. Prove, stavolta, non indizi. Anche perché, per quanto anomalo potesse sembrare, questo comportamento delle piante aveva un esempio più vicino nel tempo e ben documentato: anche lo tsunami dell’Alaska nel 1964, generato da un terremoto di magnitudo momento intorno a 9.2, aveva procurato in certe zone subsidenza del terreno (anche di diversi metri), allagamento di boschi litoranei e morte di alcuni alberi.
Quale tsunami? Il quadro sembrava completo e convergere su una data ben precisa, ma esisteva ancora la possibilità di errore, l’ipotesi di un altro tsunami. Gli studiosi sono andati avanti per esclusione. Intorno al 1700 in Giappone non si riscontrano terremoti importanti. I cataloghi sismici sudamericani segnalano sismi nel 1687 e nel 1730, ma non nel 1700. Gli tsunami transoceanici del Novecento forniscono indicazioni fondamentali: i grandi eventi provenienti dal Nord, Kamchatka 1952 ed Alaska 1964, portano sulle coste nipponiche onde di altezza non superiori al metro (dunque troppo basse rispetto al 1700) così come quelli provenienti dall’Indonesia. Rimane lo tsunami cileno del 1960 come modello principale di distruzione similare. Dunque, lo tsunami del 1700 proveniva, con molta probabilità, dall’America.
Il modello. Ecco quindi come lo tsunami “orfano” del 1700 trova un “padre”. Sulle due sponde del Pacifico, in Giappone come in Nordamerica, le prove sembrano indicare una data ed un fenomeno. Il 26 gennaio 1700, intorno alle ore 21, la zona di subduzione della Cascadia genera un terremoto fortissimo, di magnitudo probabilmente compresa tra 8.7 e 9.2. Il piano di rottura relativo probabilmente è lungo diverse centinaia di km (forse 800-900 km) e largo almeno un centinaio di km, con epicentro in mare. Il sisma provoca una subsidenza della costa, con i terreni che si abbassano di almeno un metro, ed uno tsunami che si abbatte sui litorali canadesi e statunitensi, con onde alte forse fino a 9-10 metri, lasciando i resti di tsunamiti, provocando la morte di diversi alberi (in particolare quelli della specie “cedro rosso dell’ovest”) e distruggendo probabilmente diversi villaggi dei nativi americani che vivono in quei luoghi ancora inesplorati dai colonizzatori europei.
Quindi lo tsunami si propaga per l’intero Pacifico. Le simulazioni al computer mostrano che nel giro di 5 ore le onde sarebbero arrivate alle Hawaii, anche se non si hanno notizie né evidenze di questo fatto. Nel giro di circa 10 ore, quando per il gioco dei fusi orari in Giappone è circa la mezzanotte tra il 27 ed il 28 gennaio 1700, le onde si abbattono sulla Sanriku Coast, inondando Kuwagasaki e Otsuchi. Poi si riversano a sud, fino a Tanabe, raggiungendo infine anche l’isola di Papua Nuova Guinea, Indonesia e probabilmente Australia (Figura 6).
Questo modello che, come abbiamo visto, trova molti riscontri sulle coste nordamericane e nella storiografia nipponica, appare molto convincente anche se qualche esperto storce il naso, considerandolo legato ad una lunghezza della faglia-origine troppo elevata e ad una magnitudo mai effettivamente riscontrata sinora in Cascadia. In ogni caso i criteri di rischio e vulnerabilità sull’intera costa nordamericana sono stati rivisti proprio grazie a queste ricerche e adesso in molti si attendono un terremoto distruttivo a Vancouver, Seattle e dintorni, con conseguenze anche catastrofiche. Prima o poi la Cascadia si riattiverà, questo lo prevedono tutti, con un grande terremoto e forse uno tsunami transoceanico: ed allora anche gli scettici si convinceranno che lo tsunami “orfano” del 1700 ha trovato effettivamente…un “padre”.
Si ringrazia il Prof. Brian Atwater, dell’USGS ed Università di Washington (Seattle), per la collaborazione e l’autorizzazione alla pubblicazione di alcune immagini qui presenti.
Thanks to Prof. Brian Atwater, USGS and University of Washington (Seattle), who has provided us with some maps and drawings here published
Per approfondimenti:
- Atwater B.F., Musumu-Rokkako S., Satake K., Tsuji Y., Ueda K., Yamaguchi D. K.,The Orphan Tsunami of 1700, Japanese clues to a parent earthquake in North America, USGS, 2005