Cile 1960: l’ultimo grande tsunami transoceanico nel Pacifico

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Esattamente 53 anni fa si verificò in Cile il più forte terremoto mai registrato in epoca moderna. Il sisma generò anche un grande tsunami transoceanico, l’ultimo in ordine cronologico che colpisce pesantemente entrambe le coste del Pacifico, americane ed asiatiche, a migliaia di km di distanza. Riviviamo l’evento grazie al geologo Giampiero Petrucci.

Il terremoto. Il 22 maggio 1960, alle ore 15.11 locali, si sviluppa in Cile il più forte terremoto mai registrato dai sismografi sul nostro pianeta. La sua magnitudo, in un primo momento stimata in 8.6, è stata poi riveduta con le moderne metodologie ed aumentata, come magnitudo momento, fino a 9.5. Si calcola che circa il 25% dell’energia rilasciata globalmente dai terremoti nell’intero Novecento, in tutto il mondo, venga sviluppata durante questo sisma!

Lo schema tettonico lungo la costa del Cile. La placca di Nazca, secondo il piano di subduzione, scorre al di sotto della placca sudamericana. Lo scontro tra le placche genera il vulcanismo della Ande ed i fortissimi terremoti in prossimità della “fossa Perù-Cile” (Peru-Chile Trench), compreso il grande sisma del 1960 (da http://astro.wsu.edu)

L’origine di un fenomeno tellurico così intenso è facilmente spiegabile con la subduzione che, lungo tutta la costa sudamericana del Pacifico, si sviluppa tra la placca detta di Nazca e quella sudamericana, in corrispondenza della cosiddetta “fossa Perù-Cile” (o di Atacama).

Lo scontro tra le placche tettoniche, attivo lungo tutto il contorno del Pacifico, secondo il cosiddetto “anello di fuoco” (“ring of fire” in inglese), è capace di generare terremoti fortissimi, tsunami e violente eruzioni (Cascadia 1700:come lo “tsunami orfano” ha ritrovato il padre).

L’epicentro del terremoto si trova in mare, in prossimità della “fossa Perù-Cile”, circa 600 km a sud di Santiago, mentre l’ipocentro è stimato a circa 33 km di profondità: nelle zone di subduzione possono verificarsi rilasci di energia anche fino a 70 km di profondità.

La lunghezza della faglia origine è valutata in almeno 800 km e la sua larghezza intorno a 300 km: valori enormi che ben spiegano l’altissima magnitudo.

tsunami cileLa distruzione provocata dalle varie scosse, una sequenza che dura una quindicina di giorni, è notevole anche se, rispetto all’enorme energia rilasciata dal sisma, i danni vengono parzialmente attenuati da due fattori: la scarsa densità abitativa dell’area colpita e la tipologia delle costruzioni, spesso realizzate in legno secondo le tradizioni locali, materiale che anche in questo caso dimostra di sopportare meglio del cemento le deformazioni indotte nel terreno dai movimenti tellurici. Inoltre la popolazione, in diversi casi preavvertita dalle prime scosse, aveva prudentemente lasciato le abitazioni. Interi villaggi, da Concepcion all’isola di Chiloè, sono comunque rasi al suolo e la città che subisce la maggiore devastazione risulta Valdivia, da cui l’evento prende nome. Il 40% dei suoi edifici viene distrutto ed i senzatetto in questa città vengono stimati in circa 20mila. L’intero territorio colpito è sconvolto causa fenomeni di subsidenza, col terreno che si abbassa anche di due metri. Abbondano le frane, in particolare sulle Ande dove interi versanti crollano nelle valli, fortunatamente in aree disabitate. Il numero delle vittime totali ancora oggi è piuttosto incerto, oscillando tra le 2000 e le 6000 unità, valori comunque limitati considerando l’ampia zona geografica colpita dal disastro.

La costa del Cile maggiormente interessata dallo tsunami del 1960: da Concepcion all’isola di Chiloè, a sud. Da qui lo tsunami si propaga per l’intero Pacifico (da Google)

Più certo il numero complessivo degli edifici crollati o seriamente danneggiati: circa 130mila. Lo tsunami. Il disastro però non si limita al solo terremoto. Un sisma di tale energia, sviluppatosi in mare, genera inevitabilmente uno tsunami. Così è, anche stavolta. Dopo pochi minuti dalla scossa principale, al massimo un quarto d’ora, nella cittadina di Corral, alla foce del fiume Valdivia, il mare si ritira, per poi tornare violentemente sulla costa, con onde alte 8-10 metri, ripetutamente, per almeno tre serie di ondate. Le sponde dell’intero estuario, fino alla città di Valdivia, sono devastate: il mare penetra per 2-3 km sulla terraferma, trascinando imbarcazioni, travolgendo case, persone, cose, perfino il faro. Centinaia di km di costa cilena, in particolare tra Concepcion e l’isola di Chiloè, subiscono la stessa sorte: onde altissime travolgono tutto e tutti. A Quellon, sull’isola di Chiloè, si segnalano run-up di circa 20 metri, con lo tsunami che giunge una ventina di minuti dopo la scossa. Si stima che i morti dovuti al solo tsunami lungo la costa cilena siano stati almeno 300. Ma non finisce qui.

Lo tsunami del 1960 percorre l’intero Oceano Pacifico, dal Cile al Giappone. Lo schema mostra i tempi di percorrenza delle onde che impiegano circa 22 ore per arrivare sulle coste nipponiche. Lo tsunami provoca danni negli Stati Uniti, in Kamchatka, alle Hawaii e nelle Filippine. Si tratta dell’ultimo grande tsunami transoceanico in ordine cronologico nel Pacifico (da wikipedia)

Lo tsunami infatti viaggia veloce per l’intero Pacifico, ad una media di 700 km/h. Le prime ad essere colpite sono le isole di Juan Fernandez e Pasqua. La loro fortuna è che i principali nuclei abitativi si trovano sul loro lato ovest e dunque nella direzione opposta di provenienza delle onde le quali sviluppano danni materiali, se non limitati, comunque poco ingenti. Sul lato orientale dell’isola di Pasqua il run-up raggiunge i 6 metri, con ingressione di almeno 500 metri. Si segnalano danni solo alle ahu, le piattaforme di pietra che sorreggono le celeberrime statue, alcune delle quali vengono spostate dalla furia delle onde. Poi tocca alla Polinesia, con effetti diversi a seconda della conformazione geografica e batimetrica delle isole. A Tahiti, ad esempio, le onde raggiungono a malapena un metro d’altezza: d’altra parte un detto celebre tra gli scienziati vuole che sull’isola cara a Gauguin “non si accorgono di niente quando passa uno tsunami”. Alle isole Marchesi invece esattamente il contrario, come tra l’altro già accaduto nel 1946 (Aleutine & Hawaii: lo tsunami del mistero): il run-up raggiunge i 9 metri ed interi villaggi vengono spazzati via anche se, fortunatamente e per quanto possa sembrare strano, ufficialmente non si registrano vittime. La differenza degli effetti deve essere ricercata proprio nella diversa struttura delle isole: dove esistono barriere coralline, scogli e coste alte o scoscese (Tahiti) lo tsunami risulta meno invasivo. Al contrario, la mancanza del reef associata alla presenza di valli strette e ripide amplifica la forza delle onde. Qualcosa di similare accade anche a Pitcairn, l’isoletta dove si rifugiarono i celebri “ammutinati del Bounty”, dove le onde toccano i 12 metri di altezza ed alle isole Samoa, raggiunte dallo tsunami intorno alle ore 23 locali: danni ingenti a Pago Pago e Fagaloa, minori nelle altre località.
Alle Hawaii. Dove però lo tsunami colpisce con grande intensità è sull’isola di Hawaii, la principale dell’omonimo arcipelago ed anche la più orientale. Proprio per questa sua posizione geografica, è la prima isola ad essere investita dalle onde, in piena notte. E’ già attivo il Pacific Tsunami Warning Center, entrato in vigore dopo il grande tsunami del 1946, che lancia l’allarme in tutte le isole. Tuttavia non tutta la popolazione segue l’avvertimento e fugge sulle alture od in luoghi sicuri. Anche perché si sparge la voce che a Tahiti lo tsunami è passato senza colpo ferire: così qualcuno torna a letto, altri rimangono ad attendere lungo le spiagge il fenomeno del mare che si ritira. In effetti la prima ondata che arriva, intorno alla mezzanotte, è debole, con un run-up intorno al metro e dunque non provoca allarme. La seconda, che giunge alle ore 00.46 locali del 23 maggio, è già più alta, circa tre metri: a Hilo, la cittadina già fortemente colpita dallo tsunami del 1946, l’onda supera la diga foranea, invade il porto ed allaga i viali a mare. La gente comincia a scappare, ma è troppo tardi. Alle ore 01.04 giunge infatti l’ondata più potente, mediamente alta sei metri ma in certi punti anche dieci metri. Hilo è nuovamente devastata: il mare entra sul litorale per almeno un km, travolge i pali della luce e raggiunge la centrale elettrica, provocando il blackout e scatenando il panico generale. Tutto è spazzato via: barche, auto, camion, case, animali, persone, proprio come nel 1946. Molti si salvano miracolosamente, rimanendo aggrappati o galleggiando su relitti. Il bilancio è pesante: 61 morti, 700 edifici distrutti. Nelle altre isole dell’arcipelago le onde provocano altri danni, in particolare a Maui e Molokai, ma senza vittime. Anche in questo caso la spiegazione va ricercata nella batimetria dei fondali e nella conformazione della baia di Hilo che, ormai è assodato, sembra disegnata apposta per amplificare gli effetti degli tsunami, con le onde che persistono a lungo, presentandosi a più riprese sul litorale ed amplificando la loro forza. Gli studi successivi al disastro dimostreranno che lo tsunami ha percorso i 10500 km esistenti tra Cile ed Hawaii in 14 ore e 46’, alla media di 707 km/h. Il tempo di arrivo, previsto dal PTWC, è stato rispettato con soli 20’ di ritardo: l’allerta ha funzionato, ma la popolazione ha pagato duramente il fatto di non aver ascoltato il monito dei geologi. Una lezione importante, che servirà per il futuro: oggi alle Hawaii, e non solo, tutti ascoltano i bollettini diramati dal servizio di allerta-tsunami.

Lo tsunami del 1960 arriva ad Onagawa. L’allarme, lanciato con un certo preavviso, permette alle persone di rifugiarsi ai piani alti ed assistere all’invasione della loro cittadina da parte del mare (da Atwater et alii, 2005)

Giappone. Servizio che però nel 1960 non riesce completamente a salvaguardare il Giappone. Nonostante la distanza (ben 17mila km dal Cile), l’allarme e la convivenza millenaria con le alluvioni provocate dalle onde del mare, lo tsunami miete vittime anche sulla costa orientale dell’isola di Honshu. I danni sono molto ingenti anche se, nuovamente, variabili in funzione della morfologia costiera. Gli effetti risultano similari a quanto accaduto nel 1700: le città più colpite sono le stesse e proprio lo tsunami del 1960 serve come modello di riferimento per ricostruire quello accaduto 260 anni prima. Le prime ondate giungono all’alba, dopo aver viaggiato per oltre 22 ore, preannunciate da quanto successo alle Hawaii ma non tutte le cittadine si rivelano pronte al disastro. Kuwagasaki è tra le più attente: alle 4.13 il mare si ritira, proprio mentre è in corso l’evacuazione delle zone più a rischio. Un quarto d’ora dopo arrivano le onde, alte due metri, ma sviluppano danni limitati. Qualcosa di analogo accade a Onagawa dove lo tsunami giunge in maniera quasi “regolare”, non violenta, preannunciato dall’allarme di una sirena dei pompieri: le persone hanno modo di rifugiarsi ai piani alti delle abitazioni ed assistere all’inondazione della loro cittadina. Ben più grave quanto accade ad Ofunato dove le onde distruggono edifici e trascinano lontano sulla terraferma varie imbarcazioni: le vittime sono 52. Gravi danni anche a Tsugaruishi, posta alla fine della stretta baia di Miyako, particolarmente soggetta a fenomeni di risonanza, amplificazione e focalizzazione dell’energia ondosa: in questo caso il run-up è stimato in cinque metri, con ingressione di circa due km. Situazione analoga a Mori Harbor e Otsuchi, con onde alte 3-4 metri. Lo tsunami, proprio come nel 1700, giunge anche più a sud, fino alla baia di Osaka ed in particolare a Tanabe dove le onde assumono quasi l’aspetto di un fiume in piena che rompe gli argini, come descritto dalle testimonianze. In totale le vittime riscontrate nell’intero Giappone sono 142.

La costa giapponese del Pacifico viene completamente interessata dallo tsunami del 1960. I pallini dei vari colori rappresentano le diverse altezze delle onde nelle varie località. Tra le città più colpite Tsugaruishi ed Otsuchi, già danneggiate in maniera similare dallo tsunami del 1700 (da Atwater et alii, 2005)

Resto del Pacifico. Anche il Nordamerica subisce la furia delle onde che giungono sulle coste statunitensi dopo circa 15 ore dalla scossa principale: pur non raggiungendo run-up superiori ai due metri, lo tsunami provoca danni di una certa gravità in molti porti di Oregon e California, con numerose barche affondate o lesionate. In questo caso non è tanto l’altezza a creare difficoltà, quanto la velocità con cui le onde piombano sui moli. Crescent City, famosa per essere particolarmente soggetta agli tsunami, conferma la sua vulnerabilità, venendo allagata, ma si segnalano imbarcazioni danneggiate e trascinate via anche a Los Angeles, Santa Barbara, Santa Monica, San Diego. Il calcolo dei danni raggiunge diversi milioni di dollari. Le onde arrivano pure in Alaska, con run-up registrati tra 1 e 2 metri, ma senza compiere danni rilevanti. Colpiscono anche la Kamchatka, nella Russia asiatica, con run-up di 5-6 metri e, attraverso lo Stretto di Bering, penetrano perfino nell’Artico: nella Penisola di Cukci, in alcuni villaggi esquimesi, la sottile crosta di ghiaccio viene incrinata, sollevata e rotta in diversi punti dalla potenza delle onde. Messico (run-up due metri ad Acapulco), Nuova Zelanda, Australia e soprattutto Filippine (dove si registrano una trentina di morti) gli altri paesi le cui coste vengono interessate dalla furia delle onde.
L’insegnamento. Lo tsunami del 1960 è dunque un evento transoceanico di primaria importanza, l’ultimo grande fenomeno in ordine cronologico che colpisce l’intero Pacifico. Pur essendo già attivo il PTWC, le onde non risparmiano città ne vite umane. Ma il sistema di allarme ha comunque dimostrato di poter prevenire il disastro, anche in una situazione di “tempesta perfetta” come da più parti viene definito questo fenomeno.

Il servizio di allerta tsunami nel Pacifico, attivato dopo il grande tsunami del 1946, venne “testato” per la prima volta nel 1960. Contribuì a salvare vite umane, anche se l’allarme non fu da tutti ascoltato, in particolare alle Hawaii. Oggi, dopo i disastri del 2004 e del 2011, il sistema risulta ancora più importante

Dopo quanto accaduto nel 1946, dalle Aleutine alle Hawaii,  questo “test” del 1960 è fondamentale per gli studiosi di eventi naturali estremi: rappresenta infatti un punto di partenza per lo sviluppo di una nuova scienza, capace di studiare ed interpretare con maggiore accuratezza gli tsunami ed i loro effetti. Il mondo intero, con una certa sorpresa, si accorge degli tsunami solo nel 2004 e nel 2011 capisce come la minaccia sia forse più reale e frequente di quanto sino ad allora prospettato. Ma, come è facilmente verificabile nelle nostre sezioni Tsunami in Italia e “Tsunami nel mondo”, l’umanità ha dovuto fronteggiare la potenza delle onde sin dai primordi, venendo sempre sconfitta. Per questo non dobbiamo dimenticare ed insistere nella ricerca, nella prevenzione e nella divulgazione.

BIBLIOGRAFIA

  • –    Atwater B.F., Musumu-Rokkako S., Satake K., Tsuji Y., Ueda K., Yamaguchi D. K.,The Orphan Tsunami of 1700, Japanese clues to a parent earthquake in North America, USGS, 2005
  • –    Barrientos S.E., Ward S.N., The 1960 Chile Earthquake: inversion for Slip Distribution from Surface Deformation, Geophys. J. Int., n. 103, pp. 589-598, 1990
  • –    Kanamori H., Cipar J.J., Focal Process of the Great Chilean Earthquake May 22, 1960, Physycs of the Earth an Planetary Interiors, n. 9, pp. 128-136, 1974
  • http://www.drgeorgepc.com
  • http://www.wsu.edu
  • http://www.wikipedia.org
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