Il Giro d’Italia ricorda il Cinquantenario della tragedia del Vajont con un arrivo nei pressi dell’omonima diga. Il geologo Giampiero Petrucci descrive sviluppi, effetti e cause di questo immane disastro, uno dei più tristemente celebri del Novecento italiano.
Il torrente Vajont nasce nelle Prealpi Carniche, a cavallo di Friuli e Veneto: dopo aver sviluppato un’ampia curva verso ovest, confluisce nel Piave all’altezza di Longarone, attraversando una zona incontaminata, caratterizzata da valli ed alpeggi. Al termine della Prima Guerra Mondiale il Cadore è scelto come base di un grande progetto a scopo idroelettrico che comprende diversi laghi artificiali comunicanti tra loro e con l’avveniristica centrale di Soverzene. Il Vajont sembra particolarmente adatto a contenere uno sbarramento, per la conformazione a V della sua valle, alta e stretta, di origine glaciale ma poi fortemente erosa verticalmente dall’azione torrentizia. La Seconda Guerra Mondiale blocca tutto ed il progetto è approvato solo nel 1948: sbarramento a doppio arco, alto ben 202 metri, con invaso di 58 milioni di mc. L’opera viene presentata come un miracolo di ingegneria ed un vanto per l’intera nazione, ma la burocrazia permette di cominciare i lavori solo nove anni dopo.
In sede progettuale però è stata posta particolare attenzione solo sulla sezione di imposta della struttura e non sui versanti a monte della diga i quali, ad un primo approfondimento, non appaiono così stabili come si riteneva vent’anni prima. Tuttavia i vari esperti, ingegneri minerari e geologi, non concordano: chi vede pericoli di franamenti delle sponde con l’avanzare dell’invaso; chi minimizza i possibili smottamenti delle colline circostanti; chi segnala la presenza di miloniti, tipiche rocce indicanti scorrimento e relative deformazioni, sul versante idrografico sinistro, quello del Monte Toc. Qui in particolare viene individuata una paleofrana ovvero un antico movimento gravitativo che già aveva ostruito la valle, in seguito di nuovo erosa dalle acque torrentizie. Non viene inoltre tenuto nella giusta considerazione il fatto che gli strati rocciosi sono disposti a franapoggio, ovvero con inclinazione nello stesso verso del versante, e che la superficie di rottura della paleofrana è costituita da livelli argillosi, con una resistenza residua piuttosto bassa. Qualche voce, inascoltata, parla di rischio troppo elevato, con molti fattori geomorfologici negativi: sembra sussistere la concreta possibilità di una ripresa dei movimenti franosi sui fianchi della valle. Tutte queste osservazioni avvengono mentre i lavori proseguono a ritmo serrato: nel settembre del 1959 la diga è finita e si riempie il bacino. L’altezza finale risulta di 266.60 metri, la larghezza di 190 metri e l’invaso previsto, lungo 5 km e largo 1 km, di 150 milioni di mc: valori dunque ben maggiori rispetto al progetto iniziale.
Ma la natura non può essere violentata impunemente: il 4 novembre 1960, con il livello del lago a 650 m s.l.m., si verifica una frana di circa 800mila mc, proprio sul versante idrografico sinistro, la quale scivolando nel lago genera un’onda alta una decina di metri che sbatte sulla diga, senza provocare danni particolari. Questo grido d’allarme non viene pienamente percepito: si continua ad indagare, a studiare progetti di bonifica e risistemazione del pendio, anche tramite un tunnel drenante; a bocciare soluzioni tecnicamente positive ma troppo costose. Non si tiene conto di due eventi che col senno di poi possono essere definiti illuminanti: nel marzo del 1959 una frana di 3 milioni di mc cade nell’invaso di Pontesei, in Valzoldana, gestito dalla stessa società, la SADE, che cura il Vajont; nel dicembre dello stesso anno crolla la diga di Malpasset-Frejus, in Francia. Qualche esperto, tacciato di catastrofismo, ricorda il disastro del Gleno, nel 1923. Qualcuno inizia a temere che qualcosa di simile possa avvenire anche nel Vajont: si torna ad insistere sul fatto che sul Monte Toc sono ben visibili i segnali di possibili ed ulteriori movimenti franosi.
Per questo nel 1961 viene perfino realizzato un modello, scala 1:200, della diga e del suo bacino tramite il quale studiare l’ipotesi di una frana nel lago e dei suoi possibili effetti. Il test però utilizza parametri errati, soprattutto in termini di tempo di scivolamento e di mc franati, dimostrando alla fine che il materiale in movimento non avrebbe creato nel lago un’onda più alta di 30 metri e che solo una piccola quantità d’acqua avrebbe potuto superare il ciglio della diga. In sostanza, si minimizzano gli effetti ed i rischi. Inoltre si dichiara che la quota di 700 m s.l.m. risulta di assoluta sicurezza per il livello del bacino, anche a seguito di un movimento franoso. A scanso di equivoci però si provvede a svuotare lentamente l’invaso, fino a portare il livello alla quota di 600 metri s.l.m. ed a monitorare la frana tramite piezometri, strumenti atti a misurare la profondità della falda acquifera nel terreno, ed appositi targets topografici. Il movimento del materiale sembra stabilizzarsi ma da più parti, anche sui giornali e su “L’Unità” in particolare, si chiede inutilmente la sospensione e l’abbandono del progetto.
Per un paio di anni, fino all’estate del 1963, mentre la gestione della diga è passata alla neonata ENEL, si eseguono diversi svasi ed invasi ovvero si abbassa e si rialza a più riprese il livello del bacino, anche per valutare il comportamento della frana. In questo modo però si sottopone il versante del Toc a troppe variazioni del suo regime idraulico transitorio, generando ulteriori stress e disequilibri nel terreno. Infine si esagera, in particolare ai primi di settembre del 1963 quando il livello dell’acqua viene portato alla quota di 710 metri s.l.m. Qualcosa nella valle non va: gli abitanti di Erto e Casso, i due paesi posti sulla sponda destra dal lago, avvertono numerosi scricchiolii e movimenti nel terreno mentre anche quelli di Longarone, la cittadina a valle della diga, iniziano a temere per la loro incolumità, udendo tra l’altro sinistri boati provenire dalla montagna. Le acque del lago sono spesso torbide, sul versante del Toc è sempre più visibile una lunga fessurazione, a forma di M, che attraversa quasi tutta la montagna. Una leggera scossa di terremoto genera ulteriore panico, qualche sasso rotola ed arriva nel lago. Le proteste, e soprattutto i forti movimenti rilevati dai targets posti sulla frana, inducono alla prudenza: si abbassa, di nuovo e lentamente, l’invaso, un metro al giorno. Ma è troppo tardi, anzi siamo proprio fuori tempo massimo.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 si stacca dal Monte Toc un’immensa frana, lunga 2 km, alta circa 150 metri e costituita da almeno 260 milioni di mc. In una ventina di secondi, rispetto al minuto considerato dal modello teorico, dunque ad una velocità stimabile tra i 75 ed i 90 km/h, il materiale detritico raggiunge il lago, cadendovi come un sasso lanciato violentemente in una bacinella. L’acqua così risale le sponde del bacino con grande violenza ed impeto, formando un’onda gigantesca, la più grande mai registrata in Italia. Alcune stime parlano di circa 230 metri, essendo risalita da circa 700 m s.l.m. a circa 930 m s.l.m. Un vero e proprio tsunami che ricorda quanto accaduto cinque anni prima, nel 1958, nella baia marina di Lituya, in Alaska quando un’enorme frana staccatasi da una collina, a seguito di un violento terremoto, genera un’onda alta addirittura 525 metri.
La furia dell’acqua esplode in tre direzioni: una verso l’alto e lambisce le abitazioni di Casso per poi ricadere sul corpo di frana; un’altra verso la sponda opposta del lago e distrugge diversi borghi tra cui Frasegn, Il Cristo, Prada, Marzana, Le Spesse, Pineda, San Martino, Faè, Ceva; la terza infine, almeno 25 milioni di metri cubi, riesce a superare la diga, rimasta quasi intatta (nonostante venga sottoposta a sollecitazioni fino a 10 volte maggiori di quelle considerate nel progetto), ed a riversarsi con violenza terrificante nella valle sottostante, giungendo poi fino al Piave nel giro di 4-5 minuti, con un’altezza stimata di almeno 70 metri. Longarone è devastata: resistono alla furia dell’acqua soltanto 11 edifici su 372. L’onda arriva fino a Belluno, percorrendo una ventina di km, con un’altezza ancora di una dozzina di metri.
Si stima che lo spostamento d’aria dovuto all’onda sia paragonabile a quello della bomba atomica di Hiroshima: diverse persone vengono trascinate via ancora prima dell’arrivo dell’acqua. Numerosi i paesi colpiti: Maè, Villanova, Pirago, Rivalta, Castellavazzo, Dogna, Provagna, Codissago, Fortogna, Ponte nelle Alpi, Soverzene. Nomi sconosciuti, tranquilli borghi valligiani, subiscono un’onta irrimediabile, una ferita che mai si potrà rimarginare. Si contano oltre 1900 morti anche se il numero esatto non è mai stato accertato. Il tributo più forte lo paga Longarone con 1450 vittime. Alcuni corpi non vengono più ritrovati, molti non possono essere riconosciuti. Una catastrofe assoluta, un intero territorio segnato per sempre.
Un evento simile, che lascia una profonda eco in tutta l’opinione pubblica, non merita di rimanere impunito. Troppi errori ed omissioni, nessun allarme né tanto meno evacuazioni in una situazione di chiara emergenza, con i rischi facilmente prevedibili e gli eventi premonitori fortemente sottostimati. La frana era già stata individuata nel 1959, la quota di sicurezza dell’invaso era stata stabilita in 700 m s.l.m., negli ultimi giorni prima della catastrofe i targets topografici avevano evidenziato spostamenti anche fino a 30 cm. Il problema non stava nel se ma nel quando la frana sarebbe caduta nel lago. Dunque non si può parlare di sorpresa o di eccezionalità, né di evento difficilmente prevedibile.
In quel tempo l’Italia sta affrontando un difficile cambiamento, siamo in pieno boom economico, la società civile è in grande evoluzione, il nostro paese sembra ormai affrancato dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Da tre lustri la Costituzione sancisce libertà e democrazia, non siamo più ai tempi del fascismo. La giustizia però sembra quella di adesso. Lenta, impacciata, cavillosa, frenata da mille polemiche e da forti contrapposizioni politiche. Ci vogliono più di sette anni per arrivare alla sentenza definitiva sul disastro del Vajont: nel marzo del 1971 solo due dei nove imputati vengono riconosciuti colpevoli di omicidio colposo plurimo ma, nonostante l’accusa chieda 21 anni di reclusione, alla fine la condanna, tra attenuanti varie, è ridotta a 2 anni e per uno solo di essi, l’ingegnere-capo. Almeno in tribunale la vicenda è chiusa. Ma ancora oggi, a 50 anni di distanza, rimane aperta la ferita. Perché la tragedia del Vajont è scolpita a caratteri cubitali nella storia delle catastrofi italiane, rappresentando il paradigma di una natura violentata da un’umanità che si illude di poter gestire e governare a proprio piacimento il territorio, sfruttando all’infinito ogni risorsa possibile, senza tenere in considerazione le conseguenze, peraltro spesso evidenti. Tutti hanno sentito parlare del Vajont, ma in pochi hanno veramente imparato qualcosa. Perché, purtroppo, la storia dei disastri italiani non termina qui.