Generalmente uno tsunami è originato da un forte terremoto con epicentro in mare. Diversi però sono i casi storici in cui l’origine di un maremoto è dovuta ad immense frane, sottomarine o subaeree. In quest’ultima casistica si deve annoverare l’evento del Monte Unzen, in Giappone: ce ne parla il geologo Giampiero Petrucci nell’ennesimo appuntamento di pregio della nostra rubrica Tsunami nel Mondo, da lui curata.
Un vulcano pericoloso. Il Monte Unzen è considerato il vulcano attivo più pericoloso del Giappone. Situato nell’isola di Kyushu, ad est di Nagasaki, nella porzione più meridionale dell’arcipelago nipponico, è un edificio vulcanico piuttosto complesso e dalle dimensioni imponenti (15×12 km): già attivo 6 milioni di anni fa, è costituito da numerosi duomi, picchi e crateri, anche di grandi dimensioni, che prendono nomi diversi. Tra questi attualmente il più alto è chiamato Fugen (1360 m s.l.m.) che risulta anche il più attivo degli ultimi 20mila anni: la sua pericolosità è aumentata dal fatto che dista solo 6-7 km dalla città di Shimabara, costruita praticamente ai suoi piedi e popolata da circa 50mila abitanti. L’ultima eruzione importante del vulcano, proprio dalla bocca del Fugen, è datata 1991 e fu un evento tragicamente memorabile. Annunciati da una serie di tremori vulcanici (i terremoti precursori di eventi eruttivi), i primi fenomeni si sviluppano nel novembre 1990, a partire da tre crateri distinti, con emissione principalmente di ceneri ed altri prodotti piroclastici.
Dal 20 maggio 1991 inizia un’altra fase effusiva, caratterizzata da lava di tipo dacitico, molto viscosa, con lingue che percorrono circa 10-20 metri al giorno, mediamente per un totale non superiore ai 500 metri. L’eruzione diventa più preoccupante quando alla lava viscosa e lenta iniziano ad associarsi numerosi flussi piroclastici, i killer più terribili generabili da un vulcano: Meteoweb ne ha parlato più volte, in relazione anche al Vesuvio. Formati da gas, ceneri e pomici, viaggiano sui fianchi del vulcano ad una velocità da Formula 1 e posseggono temperature altissime (fino a 600 °C). I flussi generati dall’Unzen nel 1991 percorrono fino a 5 km, raggiungendo la periferia di Shimabara dove distruggono diversi edifici, scuole comprese. Per fortuna le autorità hanno già precauzionalmente evacuato migliaia di persone, ma il vulcano reclama comunque le sue vittime. Il 3 giugno 1991 un’equipe di scienziati, geologi e giornalisti, guidata dai coniugi Krafft, Maurice e Katia, due vulcanologi francesi di fama mondiale, celebri per i loro documentari, sale sul pendio in eruzione. L’equipe si spinge oltre i limiti di sicurezza, entrando in una zona “non raccomandata”: improvvisamente si origina un flusso che sorprende gli scienziati, uccidendoli. 43 saranno le vittime generali dell’evento. Da allora il vulcano, come se fosse placata la sua fame di morte, s’è acquietato: oggi è costantemente monitorato, ma non smette di fare paura. Una catastrofe è sempre in agguato: lo dimostra la storia dell’Unzen stesso.
Frane subaeree e tsunami. Difatti l’ultima eruzione precedente a quella del 1991 avvenne 200 anni prima, nel 1792 e rappresentò un altro evento tragico, talmente distruttivo che è passato alla storia nipponica come la “catastrofe di Shimabara”. E’ necessaria però una premessa. Abbiamo già visto su Meteoweb come la vicinanza di potenziali sorgenti tsunamigeniche al mare o, più generalmente, a specchi d’acqua, possa rappresentare non solo un grande fattore di rischio, ma pure generare veri e propri disastri, con perdite di numerose vittime umane: è il caso ad esempio di Scilla nel 1783, Lituya Bay in Alaska nel 1958, Ginevra nel 563 e del celeberrimo evento del Vajont nel 1963. In tutti questi casi ad originare le onde anomale furono enormi frane subaeree, talora provocate da scosse sismiche ed in altri casi da dissesti idrogeologici. Quanto accaduto sul Monte Unzen nel 1792 non si discosta da questo cliché, anche se gli studiosi non hanno ancora svelato tutti i misteri di questo evento catastrofico.
Shimabara 1792. Il vulcano è tranquillo da oltre un secolo: è dal 1663 infatti che non manifesta particolare attività. Ma ai primi di novembre del 1791 la popolazione avverte alcune lievi scosse sismiche, i “soliti” tremori. Inizia quindi l’attività eruttiva, dapprima in maniera blanda. Nel febbraio del 1792, in concomitanza con un terremoto più forte, l’eruzione si amplifica: vapori, ceneri e prodotti piroclastici si alternano a colate di lava che fuoriescono da vari crateri. Sul fianco nord-est del Fugen le lingue di lava scorrono fino a 50 metri al giorno, approssimandosi alle prime case di Shimabara, senza che nessuno prenda provvedimenti. Il governatore locale temporeggia, anche perchè la lava sembra rallentare la sua corsa.
Ma improvvisamente ecco la catastrofe. Il 21 maggio, intorno alle ore 20 locali, un forte terremoto, valutato di magnitudo 6.4, scuote la zona. Contemporaneamente si sviluppa un’enorme frana sul fianco orientale del Mayuyama, il cono più vicino alla città di Shimabara. Il movimento gravitativo è veramente abnorme ed impressionante: centinaia di milioni di metri cubi piombano a valle, riducendo l’altitudine della montagna da 760 metri a circa 400 metri s.l.m. Per fare un esempio vicino ai giorni nostri, accade qualcosa di similare a quanto sviluppato nel Mt. St. Helens nel 1980. Sparisce letteralmente un fianco della collina. Tuttavia gli studiosi non concordano ancora sulla causa scatenante l’evento. Certamente la montagna è rotta in più punti ed il disastro è legato a due fattori successivi: dapprima la frana vera e propria, poi una serie di colate di detrito, simili ai lahars, caratterizzati da fango misto ad acqua. Questi ultimi fenomeni devono probabilmente essere messi in relazione alla presenza della falda acquifera nelle viscere della montagna: per questo alcuni autori ipotizzano un’esplosione freatomagmatica alla base del collasso della collina.
Terremoto od esplosione vulcanica che sia, l’immensa massa detritica percorre 4-5 km e si riversa in mare, dopo aver travolto e sepolto una buona parte della città di Shimabara, in particolare la zona dell’attuale porto, dove si registrano circa 5mila vittime. Il paesaggio è ovviamente stravolto: sul litorale ed in mare si formano cumuli di detrito, rispettivamente una specie di piccole colline ed isolotti, costituiti da dacite (la stessa identica roccia del Mayuyama), oggi ricoperti da una folta vegetazione e caratterizzanti in maniera tipica il paesaggio. Si tratta dei “resti” e della testimonianza più evidente della catastrofe anche se alcuni studi hanno mostrato che la loro età, in diversi casi, è antecedente al 1792: dunque è possibile che fenomeni franosi similari si siano sviluppati anche in altre e più remote occasioni.
Nei minuti seguenti il disastro, la gente ovviamente è atterrita, in preda al panico, fugge in tutte le direzioni ed in molti cercano rifugio verso l’alto, nel castello medioevale che domina la città. Tuttavia le sentinelle di guardia, temendo forse un attacco esterno e non comprendendo la situazione, chiudono le porte. La popolazione dunque è costretta a rimanere nelle strade, in attesa dei soccorsi. Un errore fatale che provocherà altre vittime ed al cui rimorso il governatore locale non saprà resistere: quando infatti capirà la gravità della situazione, sarà troppo tardi e commetterà harakiri, suicidandosi.
Lo tsunami. La catastrofe infatti non finisce qui, anzi in un certo senso raddoppia. L’enorme massa detritica finita in mare genera uno tsunami che percorre l’intera baia di Ariake la quale in pratica si comporta come una bacinella d’acqua in cui venga scagliato con violenza un sasso. Onde alte fino a 10 metri attraversano il braccio di mare, percorrendo una ventina di km ed abbattendosi dall’altra parte della baia, ad est, sulla costa di Kumamoto dove giungono totalmente inattese. Coincidendo con l’alta marea, il run-up è particolarmente elevato: è stato calcolato che in certi punti le onde possano aver raggiunto anche l’altezza di diverse decine di metri. Il litorale è travolto per un tratto di almeno 50 km: barche, case, porti, persone, animali subiscono la furia delle onde. Ma la baia di Ariake ha una morfologia particolare: è una specie di stretto o di vasca allungata e si assiste ad un fenomeno piuttosto raro. Infatti le onde che hanno colpito la costa orientale della baia, “rimbalzano” e “tornano indietro” verso ovest, con violenza minore, ma comunque con efficacia mortale. Shimabara, dove la popolazione è ancora in attesa dei soccorsi (invece che al sicuro dietro le possenti mura del castello), viene perciò nuovamente colpita, stavolta dalle onde, ed il conto delle vittime aumenta. Alla fine della catastrofe i morti sono circa 15mila, una cifra enorme, dei quali circa 10mila dovuti al solo tsunami.
Per questo l’evento di Shimabara, per quanto poco noto in Europa e lontano nel tempo, rappresenta un monito fondamentale non solo nella storia nipponica ma per il mondo intero e per l’Italia in particolare. Vulcani in prossimità del mare, pensiamo ad esempio al Vesuvio ma anche alle isole Eolie ed allo stesso Etna, rappresentano non solo “bombe ad orologeria” pronte ad esplodere e generare pericolose eruzioni per un territorio sempre più vulnerabile. Sono anche teoricamente sorgenti tsunamigeniche di un certo rilievo i cui effetti possono svilupparsi anche a centinaia di km di distanza. La storia, come sempre, insegna ma sembra che ad imparare siano sempre troppo pochi.
Si ringrazia il dott. Stefano Carlino per la gentile collaborazione
BIBLIOGRAFIA
- Clark R.I., Volcanic Disasters in the Japanese Main Islands and New Zealand, Journal of the Faculty of Sciences Hokkaido University, Ser. IV., vol. 17, n. 3, pp. 541-552, 1977
- Hoshizumi H., Uto K. e Watanabe K., Geology and Eruptive History of Unzen Volcano, Shimabara Peninsula, Kuyshu, SW Japan, Journal of Volcanology and Geothermal Research, n. 89, pp. 81- 94, 1999
- Inoue K., Shimabara-Shigatusaku Earthquake and Topographic Changes by Shimabara Catastrophe in 1792, Geographical Reports of Tokio Metropolitan University, n. 35, pp. 59-69, 2000
- www.wikipedia.org