I suoli sono suddivisi in classi di capacità d’uso, a seconda della loro attitudine ad ospitare le colture agro-forestali. La loro potenzialità d’uso non si valuta su una singola coltura in particolare ma su ampio ventaglio di sistemi agro-silvo-pastorali.
Tale classificazione fu elaborata nel 1961 negli Stati Uniti (LCC, land capability classification) dai tecnici del Dipartimento dell’Agricoltura. In seguito al suo successo venne anche adottata da molti paesi europei, nei quali si applicarono tuttavia delle varianti rispetto all’originale americana sulla base delle caratteristiche del proprio territorio. Ma i fondamenti ed i principi ispiratori rimangono quelli.
La LCC prevede una suddivisione dei terreni in 8 classi in base alle loro limitazioni e alle loro difficoltà di gestione.
Le 8 classi suddette vanno dalla classe I (raggruppa i suoli più vocati con pochissime o nulle limitazioni che consentirebbero un’ampia scelta di coltivazioni) fino alla classe VIII (suoli inadatti a qualsiasi coltura agro-forestale da destinare ad altri usi: ricreativi, urbani…)
Le altre classi (dalla classe II alla classe VII) presentano caratteristiche intermedie, con crescenti difficoltà e limitazioni man mano che si sale di numero romano.
Ma sono soprattutto le prime due classi (classe I e classe II) a riunire i suoli di prima qualità. Il problema è che sovente – soprattutto in ambito nazionale – succede che i suoli delle prime classi non sono coltivati oppure vengono cementificati cambiando la loro destinazione d’uso; mentre suoli a scarsa vocazione sono sede di attività agricola intensiva.
Questo pasticcio nella gestione del territorio ha portato per decenni al seppellimento di molti suoli di “grande pregio” sotto immense colate di cemento.
Di recente però il ministro delle Politiche agricole, Nunzia De Girolamo ha presentato al CdM un disegno di legge che mette proprio dei paletti in tal senso, ponendo dei limiti alla superficie consumabile ed incentivando la rigenerazione e il riuso di suoli degradati o mal utilizzati.