Ancora oggi il 20 settembre viene ricordato a Roma con cerimonie che si svolgono presso Porta Pia, sulla via Nomentana. In quel punto infatti avvenne l’entrata delle truppe italiane attraverso una breccia che fu aperta a colpi d’artiglieria nelle Mura Aureliane. La breccia, di circa 30 metri, viene storicamente ricordata come Breccia di Porta Pia e sul posto è presente un monumento commemorativo.
Dai racconti e dalla cronache di quella giornata, risulta che il 20 settembre 1870 fu una giornata soleggiata per la città, proprio come oggi (il Sole splende sulla Capitale e la temperatura alle ore 12 è di circa 25°C al Collegio Romano). Così raccontavano l’inizio di quella giornata storica il Conte Soderini e don Giuseppe Clementi (Carte Soderini-Clementi tratte dall’Archivio Segreto Vaticano): La mattina del martedì 20 settembre dai colli Albani il sole si levò limpidissimo sull’orizzonte di Roma. Il Ferrero alle 5.30 cominciava il cannoneggiamento contro i Tre Archi e un quarto d’ora dopo l’Angioletti apriva il fuoco contro Porta San Giovanni. Seguirono tosto il Mazè de la Roche e il Cosenz con i loro tiri contro Porta Pia e Porta Salaria. Così in breve Roma alla sinistra del Tevere fu circondata da un cerchio di fuoco e di fumo. Sulla destra c’era manco da fare, essendo preciso l’ordine di non offendere la città Leonina, anzi di neppure rispondere al fuoco.
E così viene descritta la fine di quella giornata, destinata a restare un momento cruciale nella storia d’Italia: Con il tramonto del sole il 20 settembre segnò l’estremo fato del principato civile della Chiesa. La mattina del 21, non appena al chiarire del giorno furono aperte le bronzee porte della basilica Vaticana, vi si affollarono i militari pontifici, anelanti di pregare sulla tomba di san Pietro, di baciare il piede della statua del Principe degli Apostoli. Di lì a qualche ora l’esercito pontificio sarebbe stato un mero ricordo storico: ufficiali e soldati, disarmati, sarebbero stati tratti prigionieri a Civitavecchia, donde rimpatriati, i più non sarebbero tornati mai a Roma.
Soltanto tre mesi dopo la Presa di Roma, si verificò nella città una grave inondazione. Il Tevere invase buona parte dell’attuale centro storico negli ultimi giorni di dicembre (sui muri della città sono ancora presenti delle targhe con indicato il livello raggiunto dall’acqua). Quella fu la prima occasione di visita del re d’Italia Vittorio Emanuele II, che si spostò nelle strade cittadine in barca. La visita del Re a Roma, con la “scusa” dell’inondazione, si rivelò anche un importante atto politico per rimarcare l’unificazione italiana.
La piena del 1870 suggerì alla nuova classe dirigente italiana di costruire i “muraglioni”, enorme struttura ingegneristica che ha stravolto il rapporto fra la città e il suo fiume, salvandola però da continui allagamenti. I “muraglioni” sono strutture di contenimento che irregimentano il Tevere lungo tutto il suo percorso nella Capitale. Vennero ultimati solo negli anni ’20 del Novecento. Un’altra idea su cui si discusse dopo l’alluvione del 1870 fu proposta da Garibaldi in persona, e prevedeva un intervento ingegneristico ancora più radicale: la deviazione del Tevere al di là del Gianicolo. Per fortuna, si può oggi dire, si optò per una soluzione meno impattante.