La carta di pericolosità sismica attualmente in vigore in Italia è stata elaborata con una metodologia, generalmente riconosciuta con la sigla PSHA (Probabilistic Seismic Hazard Assessment), che può portare ad una sottovalutazione dei possibili effetti di questo disastro naturale. Le ragioni di questo problema si possono spiegare in modo molto semplice e quindi la loro comprensione non richiede particolare competenze nel settore. Per facilitare questa spiegazione, può essere utile considerare un esempio molto significativo relativo all’applicazione del metodo citato per la stima della pericolosità sismica in due Regioni: la Toscana e l’ Emilia-Romagna. La carta proposta (Fig. 1), qui espressa in termini di intensità massima attesa (parametro che sintetizza l’effetto del terremoto sui manufatti e sull’ambiente, per mezzo di una scala con dodici gradi, corrispondenti a livelli crescenti di danneggiamento), prevede che le due regioni considerate saranno molto difficilmente colpite (con probabilità inferiore al 10%) da danneggiamenti di grado superiore a VIII nei prossimi 50 anni. Questo implica che gli edifici costruiti anche senza particolari accorgimenti di sicurezza non subiranno crolli e che in generale i danni saranno limitati. In ogni caso, non sono previste vittime, se non nei casi di edifici particolarmente vulnerabili. Questa previsione però, potrebbe generare qualche preoccupazione nelle persone che conoscono la storia sismica delle due regioni in oggetto, da cui risulta che in passato questi territori sono stati colpiti molte volte da scosse sismiche di intensità IX e X, come indicato nella tabella di fig. 2 e nella fig. 1, con danni anche gravissimi e molte vittime. Le considerazioni fatte sopra rimangono valide anche se al posto della carta mostrata in fig. 1 ci si riferisce alla carta ottenuta con la stessa metodologia, ma espressa in termini di accelerazione attesa del suolo.
Per tentare di fugare la preoccupazione della gente sarebbe necessario giustificare la previsione sopra citata con argomenti molto solidi sulla capacità del metodo utilizzato di valutare la probabilità dei terremoti a partire dalle informazioni attualmente disponibili. Invece, purtroppo, l’analisi delle caratteristiche dell’approccio in questione più che rassicurare sulle sue capacità di valutazione fa venire molti dubbi sull’attendibilità dei risultati ottenuti. Per agevolare la spiegazione di questo problema, è necessario fare una breve descrizione delle assunzioni su cui è basata la metodologia PSHA: a) il terremoto è un evento casuale b) ogni scossa non ha nessun tipo di legame con quelle precedenti e seguenti c) la sismicità futura avrà un comportamento compatibile con quello deducibile dalla storia sismica conosciuta degli ultimi 3-4 secoli. Quindi, la validità dei risultati ottenuti da questa metodologia è crucialmente condizionata da quanto le assunzioni sopra citate sono compatibili con le caratteristiche della sismicità reale. Il problema è che nessuna delle assunzioni in oggetto è compatibile con la natura dei terremoti. Per esempio, è noto che le scosse sismiche non sono eventi casuali, essendo gli effetti della progressiva deformazione e conseguente fratturazione dei sistemi strutturali implicati. Per cui, il luogo e il momento di ogni scossa sono influenzati dalla distribuzione delle scosse forti nel periodo precedente.
Inoltre, sperare che la distribuzione spazio-temporale dei terremoti nel prossimo futuro avrà caratteristiche simili a quelle avute in un intervallo temporale di lunghezza infinitesima (qualche secolo) rispetto allo sviluppo dei processi tettonici, dimostra un ottimismo largamente ingiustificato. C’è anche da considerare il fatto che il risultato ottenuto dalla procedura PSHA è notevolmente influenzato dalla geometria delle zone sismiche adottate come possibili sorgenti di sismicità, la cui scelta è stata condizionata più dall’esigenza di avere un campione di dati sismici compatibile con le regole dell’analisi statistica che da considerazioni sul contesto sismotettonico della zona in esame (che andrebbe invece valutato molto attentamente). Le conseguenze di quest’ultimo problema non sono certo trascurabili, poiché la configurazione di una presunta zona sismica influenza in modo notevole i parametri della sismicità (il tempo di ritorno delle scosse, in particolare) che vengono poi usati per fare previsioni statistiche sull’attività futura. Le limitazioni della procedura PSHA sono state messe in evidenza anche da autorevoli esperti mondiali del settore, che hanno citato i numerosi casi in cui le previsioni della metodologia sono risultate inferiori agli effetti osservati per varie scosse forti.
Le considerazioni fatte sopra suggeriscono che la procedura PSHA non offre nessuna garanzia sulla qualità della valutazione della probabilità delle scosse future e dei loro possibili effetti sui centri abitati. Di questa situazione sono molto consapevoli i responsabili del rischio sismico delle due Regioni sopra citate, che hanno cercato di attenuare il problema promuovendo un approfondimento delle conoscenze sulla pericolosità sismica reale. L’indagine è stata condotta dal Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena, in stretta collaborazione con le competenze tecniche delle due Regioni, adottando una metodologia molto meno esposta a sottovalutazioni del rischio sismico e capace di sfruttare le notevoli conoscenze maturate dai ricercatori coinvolti sull’assetto sismotettonico dell’area in esame. Il concetto che sta alla base della procedura proposta è che non essendoci la possibilità di valutare in modo attendibile la probabilità delle scosse attese, come argomentato sopra, è opportuno almeno cercare di riconoscere, in prima istanza, la massima potenzialità sismogenetica in ogni parte del territorio considerato, indipendentemente dal tempo in cui sono avvenute le scosse. Il livello di danneggiamento così individuato va preso come possibile scenario di danno da cui difendersi, a meno che si riescano a trovare evidenze e argomentazioni convincenti per assumere intensità attese più basse.
Il risultato dello studio sopra citato, mostrato nella figura 3, riporta l’intensità massima attesa per ogni comune della Toscana e dell’Emilia-Romagna. Si può notare che in molte parti del territorio i valori di intensità massima attesa riportati sono superiori a quelli previsti dalla carta PSHA, come ovvio risultato del fatto che nella scelta di Imax per ogni comune si è tenuto conto della capacità delle zona implicata a generare danneggiamenti del livello proposto (come dimostrato dalle documentazioni storiche) e che si è poi ritenuto di non poter escludere il ripetersi in tempi brevi di tali effetti, considerate le caratteristiche della storia sismica conosciuta.
I sostenitori della metodologia PSHA hanno criticato questo tipo di approccio, sostenendo che per stimare la pericolosità sismica è necessario tenere conto, non solo delle intensità massime risentite, ma anche della frequenza con cui un certo tipo di danneggiamento si può ripetere nel tempo. In linea teorica, questa argomentazione può sembrare ragionevole, in quanto la pericolosità sismica di una zona dove le scosse si verificano spesso può essere maggiore rispetto ad una zona dove le scosse forti sembrano essere molto rare. Però, il problema non può essere trattato in modo così semplicistico, poiché la pericolosità di un sito dipende non solo dalla frequenza delle scosse, ma è soprattutto condizionata dalla fase in cui si trova il ciclo sismico (cioè l’intervallo di tempo durante il quale la deformazione si accumula fino al cedimento sismico finale). Per esempio, un sito può avere subito pochissime scosse, ed avere quindi un tempo di ritorno presunto dei terremoti molto lungo, ma può essere ugualmente molto vicino al cedimento, se si trova nella fase finale del suo ciclo sismico.
Per rendere più esplicito questo concetto, è utile considerare un esempio significativo. La carta di pericolosità PSHA (fig.1) non è stata influenzata in modo apprezzabile dal fatto che nel 1117 è avvenuto un terremoto molto intenso (Intensità = 9 e magnitudo = 6.7 ), che è rimasto il più disastroso dell’intera storia sismica conosciuta in Val Padana. Questo, nonostante che i documenti storici descrivano danneggiamenti consistenti (superiori a quelli previsti dalla carta PSHA) in varie zone dell’Emilia. La scarsa attenzione dedicata a questa scossa dipende dal fatto che il terremoto in oggetto, non essendo stato seguito da scosse analoghe nel periodo successivo, viene valutato (dall’analisi statistica) come poco probabile per i prossimi 50 anni. Questa valutazione però, non tiene conto della possibilità che nel tempo trascorso dal 1117 la zona in oggetto abbia accumulato sufficiente deformazione per generare a breve una scossa altrettanto disastrosa. La morale di questo esempio è che la stima della pericolosità sismica non può prescindere da un evento sicuramente avvenuto, ma la cui possibile ripetizione è assolutamente imprevedibile nel tempo. L’unica certezza che abbiamo in questo momento è che le strutture della zona implicata sono in grado di generare una scossa di quelle dimensioni (come documentato dalle abbondanti notizie storiche sull’evento) e che molto difficilmente possiamo ignorare un tale pericolo.
Questa scelta non può essere considerata troppo prudente, come suggerito da voci critiche, ma va presa come l’unica strategia accettabile, visto che le soluzioni alternative finora proposte (come quelle riportate dalla carta PSHA) possono portare a sottovalutazioni inaccettabili del rischio reale. Considerazioni analoghe a quelle riportate sopra per il terremoto del 1117 si potrebbero fare anche per scosse forti avvenute in Toscana. Inoltre, per chi è interessato, è possibile mostrare che le difficoltà della attuale mappa di pericolosità in Italia, qui discusse per due Regioni, si possono rilevare anche per molte altre Regioni.
Tutte le evidenze e argomentazioni sopra riportate sono state estesamente discusse in un recente convegno pubblico (Bologna, 5 luglio 2013) organizzato dalla Regione Emilia-Romagna, con la partecipazione di responsabili della Regione organizzatrice e della Regione Toscana, di esperti nazionali sul tema della stima di pericolosità e di funzionari del Dipartimento della Protezione Civile. In attesa che il problema qui sollevato venga adeguatamente preso in considerazione a livello nazionale dalla Protezione Civile, le amministrazioni della Toscana e dell’Emilia Romagna hanno deciso di usare le informazioni finora acquisite per agevolare un’ottimale organizzazione di ulteriori indagini ed eventuali interventi di mitigazione del rischio sismico nei rispettivi territori.
BIBLIOGRAFIA
- “Potenzialità sismica della Toscana e definizione di criteri di priorità per interventi di prevenzione” a cura di E. Mantovani, M. Viti, D. Babbucci, N. Cenni, C. Tamburelli, A. Vannucchi, F. Falciani, G. Fianchisti, M. Baglione, V. D’Intinosante, P. Fabbroni, 2012
- “Sismotettonica dell’Appennino settentrionale – Implicazioni per la pericolosità sismica della Toscana”, a cura di E. Mantovani, M. Viti, D. Babbucci, N. Cenni, C. Tamburelli, A. Vannucchi, F. Falciani, G. Fianchisti, M. Baglione, V. D’Intinosante, P. Fabbroni, 2010
- “Assetto tettonico e potenzialità sismogenetica dell’Appennino Tosco-Emiliano-Romagnolo e Val Padana”, a cura di E. Mantovani, M. Viti, D. Babbucci, N. Cenni, C. Tamburelli, A. Vannucchi, F. Falciani, G. Fianchisti, M. Baglione, V. D’Intinosante, P. Fabbroni, L. Martelli, P. Baldi, M. Bacchetti, 2013
- http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/01informazione/formazione/pubblicazioni/index.htm.