Nel video, girato da elicottero, si apprezza la zona di rottura, caratterizzata da un colore più bianco rispetto alla roccia non interessata dal crollo, perché non ancora interessata da alterazione. Il taglio fresco della parete è molto esteso, misurando circa 300 metri in larghezza e 400 in altezza. Al di sotto della parete si nota l’accumulo di roccia fresca appena caduta, anch’essa caratterizzata da colore più chiaro.
La volumetria, seppur impressionante, non è particolarmente grande. Si tratta di circa 2000 metri cubi di materiale roccioso, secondo le prime stime. Se raffrontato con i 30 mila metri cubi della frana del Paretone del Gran Sasso (22 agosto 2006) si tratta di un volume 15 volte inferiore.
La frana del Vajont, di cui ricorre l’anniversario fra pochi giorni (9 ottobre 1963), ebbe invece una volumetria neanche paragonabile, visto che coinvolse ben 270 milioni di metri cubi di roccia e materiale incoerente. Si tratta di un volume 135.000 volte superiore a quello della frana del Sorapis. Inoltre la frana del Vajont ebbe una dinamica di rottura e di caduta del tutto diversa. Frane come quella di ieri sulle Dolomiti o come quella del 2006 al Gran Sasso vengono classificate come “frane da crollo”; sono caratterizzate dal distacco di roccia e dalla caduta libera del materiale, fino a formare accumuli lungo il versante. Si tratta di fenomeni naturali da sempre avvenuti in territorio montano, ma alcuni fattori possono innescarle. Ad esempio scosse di terremoto, oppure l’azione di gelo-disgelo nelle fratture della roccia, e ancora la lenta erosione ad opera degli agenti atmosferici.