L’alluvione in Sardegna ha tragicamente riproposto all’attenzione generale il grave problema del dissesto idrogeologico e delle difficoltà incontrate dagli amministratori locali nella salvaguardia del territorio. Nonostante gli allarmi lanciati dai geologi italiani, il nostro paese continua a franare e ad essere alluvionato: la politica non riesce a difendere i cittadini. Tra le principali cause di questa annosa problematica figura anche la scarsa considerazione per la professione di geologo: ne parliamo con uno di loro, Giampiero Petrucci, da tempo valido collaboratore di MeteoWeb, che testimonia la sua diretta esperienza professionale.
Dott. Petrucci, come è diventato geologo?
Ho conseguito la Laurea esattamente 25 anni fa, a Pisa. Tra i miei professori Franco Barberi, il celebre vulcanologo e poi Capo della Protezione Civile, e Raffaello Nardi, per molti anni Autorità di Bacino dei fiumi Arno e Serchio. Due maestri eccezionali, ma è servito a poco
Perché?
Perché l’Università non ci ha preparato ad affrontare la professione reale. Troppa teoria, zero pratica. Sapevamo tutto sulla formazione delle montagne, ma nessuno, ad esempio, ci aveva parlato del monitoraggio ambientale o della legislatura vigente. Così abbiamo dovuto perdere tempo da soli per aggiornarci e per scegliere la nostra strada
E lei quale strada ha scelto? Come ha cominciato?
Come tutti: garzone di bottega in uno studio geologico di un collega più anziano, ma ho imparato ancora meno che all’Università. Ci chiamavano “figli della Valtellina” perché a seguito dell’alluvione del 1987 la professione di geologo aveva cominciato, finalmente, a sembrare importante ma è stato solo un sogno di breve durata. Molti Comuni non erano ancora classificati dal punto di vista sismico e vi si poteva costruire senza regole, la perizia geologica veniva richiesta raramente, il mercato era occupato dai soliti baroni. Poi, per un caso fortunato, sono entrato nel gruppo di lavoro del Prof. Pietro Lunardi che vorrei ringraziare pubblicamente, con particolare riferimento al dott. Alberto Balestrieri: è stata la svolta della mia vita, lì ho capito direttamente sul campo quale veramente fosse il mestiere di geologo. Ho imparato di più in una sola settimana di cantiere che in cinque anni di Università: mi hanno insegnato tutto e tutti, perfino gli autisti dei camion. Questo bisogna fare: non ammuffire sui libri e discettare sui sofismi, ma vedere direttamente le cose
Allora l’Università è inutile?
Certo che no. La teoria è fondamentale, ma non basta. Oggi la situazione è migliorata, ma solo leggermente. Perché anche oggi l’Università dovrebbe preparare meglio ad entrare nel mondo del lavoro, con corsi ed esami direttamente sul campo, con materie e discipline più tecniche, più stage e corsi di formazione. Il tirocinio presso un libero professionista, così com’è strutturato, serve a ben poco. Io ho lavorato in team internazionali, con geologi di tutto il mondo, americani, brasiliani, russi, perfino cinesi ed australiani. Li ho trovati tutti mediamente più preparati di noi, anche quelli più giovani di me. Perché entrano prima nel mondo del lavoro, imparano direttamente sul campo, non sono attanagliati dalla burocrazia, posseggono una mentalità diversa, sono stimati ed apprezzati, vengono pagati regolarmente (da noi spesso accade il contrario) e le loro aziende sono un modello di funzionalità. Quando raccontiamo loro il nostro disagio, ridono di noi. Ma poi vengono da noi ad imparare il monitoraggio delle gallerie ed usano strumentazione di casa nostra perché noi siamo sempre un po’ artisti ed inventori. Michelangelo e Leonardo sono nati qui, non in America
Dunque l’eccellenza esiste anche da noi?
Certamente, più di quello che si creda. Nel campo della progettazione e monitoraggio di gallerie non abbiamo da imparare niente da nessuno. Così come nei monitoraggi ambientali di cui mi sono occupato anche recentemente, grazie al dott. Marino Capaldo, un’altra persona eccezionale che ho incontrato nel mio excursus professionale. Ma io, appunto, rappresento un caso a parte, sono stato fortunato a collaborare con professionisti di altissimo livello. Altri miei colleghi hanno preso altre strade perché la nostra professione è legata a troppi vincoli, oneri, difficoltà
Quali?
La burocrazia, la scarsa considerazione e le tasse ci uccidono: almeno il 50% del nostro fatturato viene mangiato dallo Stato e dalle spese. Molti, giustamente, non se la sentono di affrontare il percorso di guerra, ricco di ostacoli e trabocchetti, della libera professione che statisticamente rimane un sogno di pochi laureati. Dei miei colleghi di corso all’Università, solo circa il 30% oggi è un libero professionista. Molti sono insegnanti, qualcuno è entrato nelle amministrazioni pubbliche, molti altri hanno cambiato completamente genere, chi è imprenditore, chi installa pannelli fotovoltaici, chi è bagnino. E probabilmente i più soddisfatti sono proprio questi ultimi. Tutti però hanno un rimpianto: non aver avuto l’opportunità di lavorare seriamente sul territorio, non aver potuto contribuire alla salvaguardia del bene pubblico
In primis delle istituzioni e della politica, incapaci, dal Vajont ad oggi, di comprendere l’importanza del geologo nelle verifiche e nel controllo del territorio. Di tutto il territorio, dall’atmosfera al sottosuolo. Spesso, già nel Vajont ma ancora oggi, il geologo è visto come una specie di “elemento di disturbo”, che mette i bastoni tra le ruote, che intralcia i lavori. Una figura di secondo piano rispetto ad ingegneri o geometri i quali si fanno forti di Ordini professionali dai poteri illimitati. Noi, al contrario, siamo gli ultimi arrivati e siamo pochi: perciò contiamo poco o niente. Lanciamo appelli, denunciamo, chiediamo più controlli e monitoraggi ma quando proponiamo di fermare i lavori, proprio come nel Vajont, o di cambiare certe strutture e limitare la cementificazione, non veniamo ascoltati. Da cinquant’anni a questa parte, purtroppo, niente è cambiato: siamo rimasti “professionisti di serie B”, poco stimati e poco pagati. Per questo molti mollano presto. Inoltre manca la cultura scientifica. Racconto un aneddoto. Qualcuno, soprattutto le persone anziane, non si rende neppure conto di quale sia la nostra professione: alcuni capiscono ginecologo, e fanno un sorrisino ironico. Altri chiedono sempre la stessa domanda, se si possono prevedere i terremoti, pregandoci di avvertirli subito in caso di sisma violento previsto nella loro zona di residenza. E purtroppo non scherzano loro e non sto scherzando io
Sconcertante. Dunque nessun miglioramento?
Bè, qualcosa negli anni Duemila s’è mosso, sia pure lentamente e troppo tardi. Sono cambiate le leggi, la perizia geologica sulle strutture è diventata obbligatoria, certe reti di monitoraggio sono state estese a livello nazionale, c’è stata maggiore attenzione nella pianificazione urbanistica, almeno in certe regioni. Anche se poi, in Emilia come in Sardegna, in Calabria come nelle Marche, i fiumi continuano ad esondare alla prima perturbazione violenta e gli edifici a crollare sotto scosse di medio-bassa intensità. Le leggi esistono ma è troppo tardi e, soprattutto, manca la verifica della loro applicazione sul territorio: i tempi delle istituzioni sono più lenti del bradipo, anche perché probabilmente a qualcuno sta bene così. C’è poi confusione tra perizia geologica e geotecnica: i Comuni spesso non sono capaci di districarsi tra le varie leggi, capire le differenze dei termini tecnici, chiedono una cosa ma ne vogliono un’altra ed i progettisti se ne approfittano, invadendo il nostro campo. La professione del geologo rimane troppo sottovalutata, raramente i nostri giudizi trovano applicazioni pratiche e concrete. Lo dimostrano, se non altro, le continue catastrofi che annualmente si ripetono nonostante le nostre denunce
Ma cos’è in realtà la perizia geologica? A cosa serve?
Purtroppo se lo chiedono ancora in molti. Per alcuni la perizia geologica rimane una perdita di tempo e denaro. Teoricamente invece rappresenta un documento fondamentale per la progettazione di una qualsiasi struttura edile, il supporto imprescindibile per adeguare la costruzione alle caratteristiche del terreno di edificazione. Dunque dovrebbe costituire il primo passo di qualsiasi impresa: vedo cosa c’è nel sottosuolo, se il terreno è stabile, e mi regolo di conseguenza. In realtà non sempre accade questo perché il geologo spesso interviene a valle di un progetto già realizzato e dunque deve in qualche modo adattarsi a ciò che si vuole costruire. Intendiamoci, i progettisti conoscono il loro mestiere ma se per caso nel sottosuolo le indagini geognostiche rivelano qualche sorpresa, allora si deve cambiare il progetto e sono dolori
Perché?
Perché aumentano i costi preventivati e si deve trovare un punto d’incontro, ovviamente sempre nel rispetto dei coefficienti di sicurezza, con ulteriore speco di tempo e denaro: ecco perché diventiamo “disturbatori”. Inoltre, con la crisi di questi tempi, spesso l’etica e la dignità professionale rimangono nel cassetto: purtroppo molti professionisti, geologi e non, svendono i loro servizi. Gli Ordini professionali fanno come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. E poi ci stupiamo delle alluvioni…
Allora, quali rimedi suggerisce?
C’è poco da fare, siamo in Italia. La politica, anzi la malapotica, governa il territorio. A parte il dissesto idrogeologico, facciamo un ultimo esempio. In diversi casi nella pianificazione urbanistica effettivamente sono stati compiuti passi in avanti significativi. Ma con un difetto di fondo: tra i diversi Comuni, anche a pochi km di distanza e confinanti, c’è troppa discrepanza di trattamento della materia. Si passa da piani regolatori cui da vent’anni nessuno mette mano alle situazioni opposte, aggiornate ogni anno, con troppi cavilli, burocratici e tecnici, che ostacolano l’edilizia e quindi l’economia. Ci vuole maggiore uniformità ed identità di regolamenti, anche a livello regionale. Si deve semplificare, non portare all’esasperazione il professionista ed il committente, chiedendogli decine di documenti e migliaia di euro ancor prima di poter iniziare i lavori
I geologi devono essere maggiormente considerati e farsi considerare sempre e comunque, non solo quando accade qualche catastrofe. Dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter salvaguardare il territorio: noi sappiamo cosa fare, ma politica ed amministratori devono trovare i mezzi legislativi e burocratici per farci mettere in pratica le nostre conoscenze, rapidamente e senza tentennamenti. Io stesso conosco decine di colleghi, con competenze ed esperienze professionali importanti, a caccia di un lavoro in questo momento di grave crisi: non si possono disperdere queste conoscenze, soprattutto se possono servire alla salvaguardia del nostro futuro. Ogni Comune dovrebbe avere l’obbligo, stabilito per legge, di istituire una task force permanente di esperti, geologi e tecnici ambientali, in grado di mappare l’intero territorio in funzione dei diversi rischi, monitorando costantemente i parametri atti alla salvaguardia del paesaggio e dell’edificato. Per migliorare il servizio, probabilmente questa task force dovrebbe appartenere alla Protezione Civile, straordinaria nelle emergenze ma non sempre adeguata in fase di prevenzione. Sarebbe questo il primo passo verso una diversa politica ambientale, incrementando tra l’altro l’utilizzo di personale qualificato. Qualcuno obietterà che non è un problema di risorse umane ma di fondi: può anche essere vero, ma allora i nostri amministratori dovrebbero impegnarsi maggiormente nella ricerca di questi fondi, magari sollecitando l’UE. Non possiamo vivere sempre in emergenza, dobbiamo cominciare a prevenire, aggiornando la cartografia e modernizzando le strutture di intervento. E poi, soprattutto, la politica deve iniziare ad ascoltare i geologi: sembra che i 50 anni passati dal Vajont ad oggi siano trascorsi inutilmente. Triste ed avvilente, ma vero.