A seguito delle fortissime precipitazioni degli ultimi giorni, è stato decretato lo “stato di attenzione” per il Tevere a Roma. In passato la capitale è stata teatro di tragiche alluvioni: riviviamole attraverso il racconto del geologo Giampiero Petrucci.
Nella sua storia plurimillenaria Roma ha dovuto fare i conti con il Tevere molte volte, in un rapporto che spesso ha oscillato tra odio ed amore. Roma è nata sul Tevere e s’è evoluta col Tevere anche se raramente è riuscita a regimare il corso del fiume: quando lo ha fatto, curiosamente la città ha vissuto i suoi periodi storici più felici, a conferma di come la salvaguardia dalle inondazioni rappresenti un punto cruciale per qualsiasi territorio.
L’allagamento di Roma ad opera del Tevere ha rappresentato un grande problema sin dai tempi antichi. Già Tarquinio nel 616 a.C. fece costruire la prima cloaca che però, come tutte quelle che la seguirono, scaricava le acque direttamente nel fiume. In questo modo ogni piena del Tevere praticamente si immetteva nella cloaca che, funzionando come vaso comunicante, portava le acque in superficie, soprattutto nelle parti più basse della città. Sono numerose le piene testimoniate dai vari storici (Tito Livio, Plinio il Vecchio, Dione Cassio) e le inondazioni assunsero particolare significato in età imperiale, quando l’allargamento di Roma nella zona di Campo Marzio e Trastevere (voluto prima da Cesare e poi da Augusto) sottopose i nuovi insediamenti ad ulteriori rischi di inondazione. Per questo lo stesso Augusto decise di allargare il letto del Tevere, regimandolo: furono create apposite squadre di “curatori” il cui compito era proprio quello di tenere pulito l’alveo.
Il problema persistette a lungo e qualsiasi espediente sembrava buono per cercare di lenire la situazione. Le zone più basse della città (Velabro, Foro, Campo Marzio) vennero sottoposte periodicamente ad una specie di “bonifica idraulica”, rialzando il livello stradale, in particolare dopo ogni sciagura o calamità naturale. Esemplare a questo proposito quanto accadde dopo il famoso incendio del 64 d.C. (detto “di Nerone” anche se le ultime indagini storiche sembrano scagionare l’imperatore): i detriti, costituiti soprattutto da legno con cui erano realizzate le case dell’epoca, colmarono le depressioni del terreno, allora ad una quota topografica di circa 7-8 metri più bassa di adesso.
Inoltre la situazione geografica era diversa dall’attuale: l’alveo era più largo (circa 130 metri, il 30% in più di oggi) e la linea di costa si trovava circa 4 km più a monte di adesso. Inoltre, come testimoniato da alcune indagini geognostiche, probabilmente la foce del Tevere era esposta a sud ed il suo corso terminava con un’ampia zona paludosa. Anche gli imperatori Traiano ed Adriano si cimentarono in tentativi di limitare i danni causati dal fiume (venne aperto il canale di Fiumicino). Ciò nonostante si susseguirono numerose piene ed allagamenti della città: celebre a questo proposito l’anno 189 a.C. quando addirittura vennero registrate ben 12 inondazioni a seguito di piogge estremamente abbondanti.
La situazione non migliorò col passare dei secoli: la decadenza dell’impero, le invasioni barbariche e lo scadimento generale di Roma aggravarono ulteriormente lo stato di conservazione del Tevere. Non andò meglio nel Medioevo quando lo Stato Pontificio non mostrò grande interesse nel regimentare le acque fluviali. Il “periodo nero” del Tevere può comunque essere fatto risalire dal 1450 al 1700 quando si verificarono una dozzina di piene eccezionali, con migliaia di morti, casualmente particolarmente rilevanti durante le celebrazioni del Giubileo: 1475, 1500 e 1700 (con inondazione della Basilica di S. Paolo). In questo periodo comunque l’alluvione più violenta rimase quella del 24 dicembre 1598, vigilia di Natale, quando addirittura a Piazza Navona (come ricordato da un’apposita lapide) le acque raggiunsero il livello di 5 metri ed al Pantheon di 6. Con un livello idrometrico stimato in 19.56 metri questa piena rappresenta l’alluvione più imponente che abbia mai colpito la città: causò 150 morti e la sua portata è valutata in ben 4000 mc/sec, un valore enorme considerando anche che il Nilo ha una portata media di circa 3000 mc/sec. Tra l’altro proprio in questa occasione venne distrutto il Ponte Emilio, o Senatorio, costruito intorno al 180 a.C., oggi per questo noto come Ponte Rotto ed i cui resti sono ancora visibili in mezzo al fiume.
Il problema principale appariva evidente ma di non facile soluzione: Ponte Milvio rappresentava l’ostacolo al corretto deflusso delle acque. Qui infatti la piena non riusciva a “passare”, il ponte (con arcate di ampiezza limitata) resisteva come una diga, gli argini erano troppo bassi ed alla fine le acque entravano sulla Via Flaminia, attraversavano Porta del Popolo ed allagavano Via del Corso e Ripetta. Un’altra “nuova” strada delle acque esondate era rappresentata dalle pendici di Monte Mario da dove giungevano poi a Castel S. Angelo: in sostanza il Tevere, come si dice in gergo, “saltava il meandro” ovvero cercava di rendere più rettilineo il suo cammino. Ma proprio a Ponte S. Angelo, dove le acque tendevano a rientrare nell’alveo, nel Cinquecento vennero eseguite opere di fortificazione del castello che, andando a restringere le arcate del ponte, ostruirono ancor di più il regolare deflusso idrico. Qualcuno, come già ideato niente meno che da Giulio Cesare in persona, pensò di “raddrizzare” il corso cittadino del Tevere ma non se ne fece nulla ed il centro di Roma rimase ancora in balia delle piene. Non per niente ancora oggi Ponte Milvio rappresenta l’area forse più a rischio per un’eventuale esondazione che, secondo molti esperti, in caso di piena eccezionale potrebbe proprio iniziare da lì.
Comunque l’ultima grande alluvione di Roma rimane quella del 1870, anche per la natura simbolica dell’avvenimento. La Città Eterna, il 20 settembre, era stata appena “conquistata” dal Regno d’Italia, con la celeberrima “presa di Porta Pia”. L’apposito plebiscito del 2 ottobre aveva sancito il suo passaggio al Regno, stabilito ufficialmente una settimana dopo. Il Governo ed il Re Vittorio Emanuele II però tardavano a stabilirsi ufficialmente a Roma, preferendo rimanere a Firenze (in quel momento capitale), anche per non urtare ancor di più Papa Pio IX cui comunque veniva riconosciuta la sovranità sullo Stato Vaticano. Una situazione politica ormai di fatto stabilita ma fortemente osteggiata dalla Chiesa.
Intorno al 20 dicembre grandi piogge interessarono l’alto Lazio, la Val Tiberina e la Val di Chiana: il Tevere si ingrossò prepotentemente. Nella notte tra il 26 ed il 27 dicembre, il patatrac. Le acque ruppero gli argini ed inondarono vaste aree di Roma, iniziando da Nord e colpendo in particolare la riva destra: Farnesina, Ripetta, Piazza del Popolo, Via del Corso, Via Condotti, Piazza Colonna, il Ghetto. Il livello idrometrico massimo stimato raggiunse i 17 metri, una quota che non veniva ottenuta da oltre 200 anni: tutto il centro fu sommerso dalle acque che toccarono il picco la sera del 28 dicembre. Anche Piazza San Pietro (e dunque il neonato Stato Vaticano) rimase alluvionata, con il fango a rasentare la Basilica per diversi giorni.
I soccorsi furono immediati, anche se improvvisati. Inoltre l’occasione politica era troppo ghiotta: Vittorio Emanuele II partì in treno da Firenze ed alle 4 di mattina del 31 dicembre giunse per la prima volta a Roma, accolto da una moltitudine festante. Furono stanziati fondi per la ricostruzione e fu rapidamente sancito il passaggio della capitale a Roma dove a giugno del 1871 Vittorio Emanuele II si stabilì definitivamente. Ma il Tevere aveva lanciato un monito importante e finalmente si passò al contrattacco attraverso due operazioni principali. Da una parte vennero costruiti due grandi collettori fognari, paralleli al corso del Tevere, sulle due rive, per lo smaltimento delle acque reflue le quali finivano sì nel fiume ma soltanto più a valle, nella zona dove oggi sorge il Grande Raccordo Anulare: dunque fu scongiurato il pericolo del “rigurgito” ovvero che le acque in piena rifluiscano lungo le fogne. L’altro fondamentale provvedimento fu la costruzione di argini in muratura, alti e potenti, i cosiddetti “muraglioni” che tra il 1880 ed il 1890 circondarono l’alveo nel tratto tra il Ponte Margherita ed il Ponte Palatino. La loro costruzione proseguì ancora per trent’anni, fino al 1925, in tutto il territorio urbano della capitale, finalmente più sicura anche se non completamente immune. Superate indenne le grandi piene del 1900 e del 1915 proprio grazie ai “muraglioni”, Roma fu infatti nuovamente allagata il 17 dicembre 1937 quando le acque raggiunsero tra l’altro il Pantheon. Da allora però il “fiume biondo”, pur rimanendo talora impetuoso, non ha più travalicato gli argini nel centro di Roma anche se ad ogni piena Ponte Milvio rimane “osservato speciale” e in casi di precipitazioni particolarmente lunghe ed abbondanti, soprattutto in mancanza di manutenzione dell’alveo, la capitale potrebbe ancora correre qualche rischio.
BIBLIOGRAFIA
- Bersani P. e Bencivenga M., Le piene del Tevere a Roma dal V secolo a.C. all’anno 2000, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2001