Gli ultimi eventi meteorologici che hanno colpito il nostro paese impongono una riflessione sulle cause scatenanti fenomeni sempre più intensi e dannosi. Non è un caso se ad ogni precipitazione si sviluppano danni incalcolabili a strutture e cittadini. A condizioni meteo sempre più estreme si accompagna una vulnerabilità sempre maggiore del territorio. Perché? Ce ne parla il geologo Giampiero Petrucci.
Questo autunno del 2013 si sta rivelando tra i più turbolenti e dannosi degli ultimi decenni sotto l’aspetto meteorologico e delle calamità naturali. Grandi nevicate anche in pianura, sciami sismici (l’ultimo nel reatino), flash floods e bombe d’acqua, vere e proprie alluvioni, spettacolari eruzioni dell’Etna, perfino mareggiate-record. Cosa sta dunque accadendo? Niente di particolare, almeno se guardiamo indietro nel tempo. Dal punto di vista meteo, novembre è storicamente il mese in cui le precipitazioni e le alluvioni si sviluppano con maggiore intensità e frequenza nel nostro paese. Era infatti novembre quando l’alluvione colpì il Polesine nel 1951, Metaponto nel 1959, Firenze ed il Triveneto nel 1966, il biellese nel 1968, il Piemonte nel 1994 e Genova nel 2011. Ed abbiamo indicato solo gli eventi più tragici e famosi. Questo significa che le alluvioni a novembre non possono essere viste come una novità.
Due fattori adesso sembrano diversi dal passato. Il primo è la localizzazione geografica, quasi puntuale, dei fenomeni. Se dapprima infatti, in particolare per gli eventi del 1951-1966-1994, le esondazioni erano riferibili a precipitazioni sì abbondanti ma su bacini imbriferi molto ampi ed estesi (Po, Arno, Tanaro), adesso le bombe d’acqua sono molto più localizzate, intense e di breve durata (Genova e Cinque Terre nel 2011), con valori in mm che addirittura superano di gran lunga qualsiasi record storico precedente (come in Sardegna), interessando anche fossi e canali di dimensioni limitate ma capaci comunque di provocare gravi danni. Sembra dunque che, almeno secondo lo sviluppo dei fenomeni, qualcosa stia effettivamente cambiando. Secondo molti scienziati, ciò è imputabile anche ad una sensibile variazione climatica che sta interessando l’intero pianeta ed il Mediterraneo in particolare: il global warming, accentuato dall’emissione dei gas-serra, sta producendo effetti devastanti a livello mondiale. Le acque del Mediterraneo si stanno riscaldando: in particolare nel recente mese di ottobre si sono registrate temperature dell’acqua addirittura superiori ai 20°C. Ciò è indice di una certa tropicalizzazione del mare nostrum, confermata anche dall’ingressione di specie ittiche tipiche dei mari più caldi. Temperature delle acque superficiali marine così alte generano in autunno il rilascio di calore latente che si accumula nell’atmosfera come grandi quantità di vapore acqueo, pronte ad essere scaricate al suolo. L’ingresso nel Mediterraneo dei fronti perturbati di origine atlantica ed il loro incontro con questo vapore fa “esplodere” la situazione, con la formazione dei cosiddetti “temporali marittimi”, anche auto-rigeneranti, che negli ultimi tempi hanno assunto l’aspetto di veri e propri cicloni, persistenti e distruttivi. Questi ultimi rappresentano un fenomeno nuovo ma non nuovissimo: anche a Genova, nel 2011, la causa scatenante le forti precipitazioni fu una particolare perturbazione atmosferica, denominata “ciclone Rolf”. In Sardegna recentemente è toccato a Cleopatra: cambiano i nomi, ma non il risultato. Piuttosto varia la frequenza di questi fenomeni, sempre più accentuata ed intensa.
Cambia però, ecco il nocciolo della questione, anche il secondo fattore di cui dobbiamo occuparci: il territorio. Negli ultimi 50 anni l’Italia ha subìto qualsiasi sorta di devastazione paesaggistica: la crescita economica degli anni ’60, il celebre boom, ha dato il via ad una terribile serie di speculazioni edilizie mai arrestatesi, figlie di una malapolitica che ha anteposto interessi personali e lobbistici a quelli della collettività. La colpa è sì di chi ci ha governato e degli amministratori locali che hanno consentito lo sregolato sviluppo urbanistico (talora abusivo), ma anche di chi non ha sorvegliato e di chi ha accettato passivamente questa situazione. La parola d’ordine oggi deve essere soltanto una: stop al consumo del suolo. Se il meteo è probabilmente cambiato, deve cambiare assolutamente anche la politica di gestione del territorio.
La somma di questi due fattori ha provocato gli ultimi tragici eventi. E’ di ieri l’ultimo fenomeno clamorosamente chiarificatore di questo scempio. Le coste ioniche sono state battute da una mareggiata violentissima, la più forte degli ultimi anni. Ebbene, abbiamo visto come le acque abbiano invaso i viali a mare, i porti, le strutture sulle spiagge. Ma non è un caso isolato: anche sul Tirreno ciò è accaduto più volte, a Scilla come a Viareggio, in Liguria come nel Lazio. Il mare “mangia” la costa, si divora stabilimenti balneari e strutture: le falesie cadono a pezzi (come a Lipari o Ponza), il litorale sparisce. Perché? Perché è stato consentito di costruire direttamente sulle spiagge, perché strutture definite “provvisorie” sono diventate definitive grazie a qualche condono, perché la forza eccezionale della natura s’è accompagnata ad una vulnerabilità sempre maggiore (acuita da cementificazione ed impermeabilizzazione del suolo). In una parola, perché il territorio non è stato tutelato.
Ecco perché non può più essere consentito costruire nelle zone di pertinenza fluviale. Non può più essere consentito lo sbancamento di intere colline a ridosso del mare. Non può più essere consentita la cementificazione dei litorali. Non può più essere consentito erigere intere cittadine in zone a rischio, non solo idrogeologico ma anche vulcanico (si pensi al Vesuvio od all’isola di Vulcano). Non può più essere consentito realizzare seminterrati, e renderli addirittura abitativi, in aree soggette ad esondazioni (come ad Arzachena) o con la falda freatica prossima al piano campagna (Versilia). Non può più essere consentito lasciare i Comuni senza opportune mappature di microzonazione sismica (come in Emilia). Non può più essere consentito abbandonare il territorio a sé stesso, senza realizzare monitoraggi ambientali.
La popolazione sembra aver recepito la lezione, anche se non mancano esagerazioni lesive ma comprensibili. Oggi le notizie corrono in tempo reale sui social network, talora generando allarmi ingiustificati. Le autorità però non possono lamentarsi di questa situazione perché è anche figlia della loro mancanza di autorevolezza, del loro lassismo, della loro incapacità (dimostrata proprio da quanto accaduto) di garantire sicurezza ai cittadini i quali, giocoforza, devono arrangiarsi. Anzi, talvolta servono più proprio questi appelli e contatti sui social che la rete di informazione comunale. Recentemente è stato presentato il disegno di legge per l’istituzione dell’Ufficio Geologico Territoriale in ogni Comune. Bene, ma non basta. Non ci stancheremo di ripetere che serve una svolta decisa e decisiva verso una tutela del suolo più marcata ed efficace. L’installazione di reti pluviometriche, dal rilevamento rapido e puntuale, garantirebbe tempi di allarme precisi e veloci in relazione alle bombe d’acqua localizzate. Il monitoraggio costante e continuo di tutti i parametri ambientali contribuirebbe certamente alla salvaguardia del territorio. Al cambiamento meteorologico, supposto o reale, deve accompagnarsi stavolta il cambiamento nella tutela del suolo e dei cittadini. Stavolta servono fatti, non più parole. Altrimenti la prossima volta conteremo di nuovo vittime e danni.