Esattamente due mesi fa, il 18 novembre 2013, la Sardegna centro-settentrionale veniva colpita da una terribile alluvione che ha devastato città, paesi e campagne. Il nostro inviato sull’isola, il geologo Giampiero Petrucci, descrive per MeteoWeb la situazione attuale, ponendo interrogativi e proposte sulla gestione futura del territorio e la salvaguardia di infrastrutture e cittadini.
Un territorio ferito. Viaggiando nei luoghi dell’alluvione sarda, si rimane colpiti soprattutto dalle numerose ferite inferte ad un paesaggio spesso incontaminato e fertile. Lungo le strade appaiono molte deviazioni, numerosi smottamenti che ancora invadono i lati della carreggiata, guard-rail divelti, melma e sabbia a ricoprire l’asfalto.
Sono passati esattamente due mesi ma in molti casi la situazione è la stessa del 19 novembre ovvero del giorno seguente la tragedia. Poco, e talora niente, è stato fatto per ripristinare la viabilità nelle zone di campagna, ad Uras come ad Oliena, ad Orgosolo come a Galtellì. Gli abitanti vivono ancora in emergenza, e non solo per i danni subìti, alcuni dei quali (mobilio, arredi, auto) non verranno mai risarciti. Essi vivono soprattutto il disagio di una vita che, improvvisamente, è cambiata, stravolgendo oltre alla quotidianità anche i consueti itinerari. I casolari di campagna, spesso dotati di stalle per il bestiame o con piccole aziende di stampo familiare per la produzione di pregiati formaggi e salumi, sono raggiungibili ancora con difficoltà, spesso schivando smottamenti e sassi che ingombrano la strada. La viabilità rurale è lontana dall’essere ripristinata e l’economia agro-pastorale, su cui si basa buona parte del fatturato dei paesi barbaricini, è in ginocchio e stenta a riprendersi, anche perché i fondi comunali sono esauriti o inutilizzabili (causa il famigerato “Patto di Stabilità”) mentre quelli regionali non arrivano.
Il problema più grande per la viabilità sembra rappresentato dai ponti, alcuni letteralmente spezzati in due dalla forza della corrente, soprattutto nel bacino del Cedrino ed in particolare nel tratto tra Orgosolo e Dorgali.
Molti di quelli rimasti in piedi sono stati comunque “scavalcati” dalle acque, arrivate in alcuni casi ad un’altezza prossima ai 20 metri, subendo comunque danni che li hanno fatti “declassare” ovvero, in attesa di controlli più accurati, percorrere a senso unico alternato. Altri ponti, se non crollati, sono comunque stati letteralmente spostati, anche di 30 cm, nel senso della corrente oppure “sprofondati” verso il letto del fiume, come accaduto sul Rio Oddone, nei pressi di Loiri. Il loro ripristino appare lungo e complicato: non passa giorno che, giustamente, Sindaci e popolazione manifestino il loro disappunto per le mancate risposte alle loro richieste di una nuova viabilità più scorrevole e sicura. Nel centro dell’isola quasi tutte le arterie stradali, grandi e piccole, hanno subìto danni, compresa la “superstrada” Nuoro-Olbia, la cosiddetta “131 d.c.n.”, dove nei pressi dello svincolo di Lula si viaggia ancora a senso unico alternato per i danni causati dal Rio Sologo. In effetti il territorio soffre ancora molto, soprattutto in Barbagia: se ad Olbia, grande città dotata oltre tutto di porto ed aeroporto che hanno indubbiamente favorito collegamenti e soccorsi, tutto sembra oggi “apparentemente normale” (come ha dichiarato a MeteoWeb lo stesso Sindaco Giovannelli), negli altri Comuni alluvionati, spesso caratterizzati da una popolazione oscillante tra 2000 e 8000 abitanti, molto lavoro rimane da fare e le priorità vengono identificate proprio con il ripristino della viabilità ed il veloce arrivo di fondi che consentano una ripartenza, sia pur minima, dell’economia agro-pastorale. La soluzione, purtroppo, pare ancora lontana e qualcuno già teme ricadute negative anche sulla stagione turistica, ormai alle porte visto che tra un centinaio di giorni arriverà la Pasqua.
Le cause. Come è facile vedere le ferite ancora presenti nel paesaggio, altrettanto facile è identificare le cause di quanto accaduto il 18 novembre. A prescindere da una situazione meteorologica che molti, forse troppi, considerano al limite dell’eccezionalità (ma nel 2004 e nel 2008 a Galtellì ed a Torpè si erano già verificati eventi similari), la gravità di quanto accaduto è sostanzialmente figlia di due problematiche: l’annosa e costante incuria del territorio e la mancata informazione, in termini anche di interfaccia tra le varie autorità ed enti preposti, durante lo sviluppo del fenomeno che poi ha portato all’emergenza ed alla catastrofe. Nel primo caso è semplice individuare le colpe: da decenni la Sardegna, non solo i litorali ma anche certi pendii a qualche km dalla costa (quando passate da Porto San Paolo o da Budoni date un’occhiata alle colline), è stata oggetto di una sfrenata corsa all’edificazione, un’urbanizzazione quasi “selvaggia”, oltre tutto spesso “in orizzontale”, che ha stravolto i reticoli idrografici, impermeabilizzato kmq di suolo e cementificato aree troppo vicine agli argini se non addirittura di pertinenza fluviale. Il risultato è che oggi migliaia di persone vivono in aree a rischio idrogeologico ed una delocalizzazione di questi edifici pare, se non impossibile, comunque estremamente onerosa dal punto di vista economico e per questo quanto mai difficile da realizzare.
Queste porzioni di territorio sono al limite dall’essere considerate “perdute”, anche perché i lavori per la loro messa in sicurezza richiedono esborsi che in qualche caso superano anche i 100 milioni di euro, cifre assolutamente astronomiche e che forse il nostro paese non può permettersi di elargire. Serve dunque una svolta epocale, un cambiamento radicale, un nuovo inizio, una rinascita anche culturale: in poche parole, una diversa politica di gestione del territorio che introduca la parola prevenzione in cima alla lista delle priorità per il futuro. Il territorio, in verità non solo quello sardo (basta vedere cosa sta accadendo in queste ore in Liguria), è fragile e questo lo sappiamo: ma proprio da questa consapevolezza deve nascere, finalmente, non solo nella politica ma anche nei cittadini, la volontà di salvaguardare il territorio attraverso nuovi strumenti, più efficaci e scientificamente testati, semplici e praticamente “immediati”, in grado di certificare in maniera inequivocabile quanto stia accadendo. Ecco dunque il secondo punto della questione su cui lavorare, l’informazione sia alle autorità competenti che ai cittadini i quali, più che sapere cosa devono fare in caso di calamità, devono essere edotti su quanto non fare. Non tutte le morti causate dalle catastrofi infatti, purtroppo, derivano dal fato o dal destino avverso: in alcuni casi comportamenti al limite dell’assurdo (come recarsi sugli argini dei fiumi per fotografare la piena!) concorrono ad aumentare il rischio e talvolta pure ad intralciare i soccorsi. La prevenzione dunque deve assolutamente passare anche dall’informazione.
Il ruolo dei Sindaci. In questo contesto la figura del Sindaco assume un ruolo-chiave. Noi abbiamo intervistato i primi cittadini di alcuni Comuni alluvionati (Olbia, Oliena, Uras, Torpè, Galtellì), trovando sempre, nelle città come nei paesi più piccoli, grande accoglienza, cortesia, disponibilità ed enorme interesse per la salvaguardia del territorio. Nessuno meglio dei Sindaci e dei loro concittadini conosce il territorio in cui vivono ed abitano: dunque devono essere loro i primi referenti per qualsiasi operazione ed attività di ripristino come di prevenzione. Se ben supportati ed adeguatamente informati, i Sindaci possono diventare la chiave di volta per la messa in sicurezza dei loro Comuni. Al momento si deve ancora pensare a chiudere la fase di emergenza. Ad Uras come a Torpè e pure ad Olbia c’è ancora bisogno di aiuti, soprattutto di mobili ed elettrodomestici per le famiglie alluvionate: chi volesse contribuire alla già grande solidarietà, può farlo trovando le indicazioni sui siti dei vari Comuni. Ma poi questa fase, finalmente, terminerà ed allora, oltre a ricostruire, si dovrà pensare a prevenire.
Vi sono state molte polemiche nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, con rimbalzi di accuse tra le varie autorità. Oggi la Magistratura sta indagando ed il futuro ci dirà se e quando qualcuno ha sbagliato. Il problema è un altro: a prescindere dagli eventuali errori, il sistema ha fallito e deve essere modificato.
Non si può dire che la tragedia poteva essere evitata, ma forse, soprattutto a detta di alcuni Sindaci (vedi intervista), i danni potevano essere più limitati se si fossero poste in atto per tempo le opportune contromisure, alcune delle quali già in cantiere. Bisogna intervenire subito, è il grido di allarme lanciato dai Sindaci, ora basta. Indistintamente tutti i Sindaci concordano su un dato di fatto: non sono stati informati sull’evolversi del fenomeno (vedi interviste ai primi cittadini di Olbia e Torpè). Nessuno di loro, dopo il famoso fax arrivato nel pomeriggio del giorno 17, ha ricevuto comunicazioni ufficiali sul possibile aumento del rischio di inondazione. Addirittura alcuni di loro hanno dovuto perdere tempo prezioso nell’affannarsi a cercare informazioni tramite internet sulla situazione meteo in collina, a monte dei loro paesi, mentre la telefonia mobile era saltata e le linee fisse risultavano intasate. In un certo senso, è come se quel giorno il sistema fosse andato in tilt: il territorio, già fragile di per sé, è stato abbandonato. Ecco perché questa tragica alluvione può diventare il simbolo della riscossa: perché ci ha insegnato cosa non fare, come non comportarsi, in quale modo e dove poter intervenire per evitare il ripetersi di simili catastrofi.
La soluzione tecnica. A prescindere da qualsiasi altra attività (revisione mappatura rischio idrogeologico, stop al consumo del suolo, pulizia alvei, nuova pianificazione urbanistica, arginature, ecc.), nasce proprio dalla disamina di quanto accaduto, la proposta tecnica che si sta sviluppando in questi giorni. L’analisi dell’alluvione sarda e la sua comparazione con quanto accaduto negli anni precedenti in circostanze similari (Genova, Cinque Terre, Giampilieri, Atrani, ecc.), come dimostrato anche dagli studi del Prof. Ortolani, illustra come le cosiddette “bombe d’acqua” abbiano ormai un comportamento specifico ben definito, rappresentato dall’improvvisa verticalizzazione della curva pluviometrica. In sostanza, si può valutare, con significativa attendibilità scientifica, il momento in cui lo sviluppo della “bomba d’acqua” sembra portare ad una possibile esondazione o comunque al ripetersi di situazioni analoghe alle precedenti alluvioni.
Ciò può essere sviluppato attraverso il cosiddetto “monitoraggio idrogeologico immediato” di cui MeteoWeb ha più volte parlato e che in sostanza consiste in un sistema di strumenti (pluviometri, idrometri, piezometri, ecc.) atti alla misurazione delle precipitazioni e delle caratteristiche idrologiche dei corsi d’acqua. Questo sistema, collegato ad una centrale operativa, è capace di lavorare H24 in tempo reale, anche in condizioni estreme, fornendo risultati dettagliati e precisi, quantificando precipitazioni ed altezze idrometriche, segnalando dunque lo sviluppo dei fenomeni minuto-per-minuto e collegando in pratica simultaneamente salvaguardia del territorio ed informazione. Rappresenta dunque proprio ciò che è mancato, a detta anche dei Sindaci, durante l’alluvione del 18 novembre scorso. Qualcosa del genere esiste già in Sardegna (CEDOC), ma evidentemente non basta e soprattutto non è né strutturato né utilizzato nel migliore dei modi: prova ne sia quanto accaduto due mesi fa. Dunque, è necessario cambiare ed implementare, probabilmente in maniera radicale. Per questo ad Olbia, grazie al ruolo autorevole e lungimirante del Sindaco Giovannelli, si sono già mossi, presentando proprio un progetto di questo tipo per la richiesta di finanziamento. Ma si deve andare addirittura oltre, sviluppare questa metodologia nei punti più critici non solo della Sardegna ma di tutto il nostro paese. Tecnologia e scienza sono pronte ad affrontare la sfida di un clima sempre più diverso e violento. I Sindaci ed i cittadini della Sardegna alluvionata esigono la salvaguardia del loro territorio: non devono essere lasciati soli, non devono essere dimenticati.