I ricorrenti sciami sismici che negli ultimi due anni hanno colpito il nostro paese, dall’Emilia alla Sicilia (stanotte l’ultima scossa significativa, di magnitudo 3.5, tra Marche e Umbria), hanno nuovamente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla possibilità di prevedere le prossime scosse. Il dibattito, spesso fomentato da opinioni contrastanti e da inutili allarmismi sui social network, è stato alimentato anche da MeteoWeb (vedi il recente approfondimento con Stefano Carlino o l’intervista a Carlo Tansi), con la preziosa collaborazione del Prof. Enzo Mantovani (docente di Fisica Terrestre presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena) il quale approfondisce in questo ulteriore articolo le prospettive attualmente esistenti per una previsione sismica più accurata.
Prevedere il luogo e il tempo preciso di una scossa sismica non è attualmente possibile. Al di là di questo obiettivo ancora irraggiungibile, vengono fatti vari tentativi di acquisire informazioni su alcuni aspetti della possibile attività sismica futura nel medio termine. Il più frequentato di questi tentativi è il riconoscimento delle zone più esposte alle prossime scosse forti. La possibilità che questo tipo di indagine possa dare risultati di soddisfacente attendibilità va considerata con molta attenzione, perché l’informazione risultante potrebbe agevolare la strategia di difesa dai terremoti in Italia. In questa nota vorrei fare alcune considerazioni su quali prospettive esistano attualmente di ottenere informazioni affidabili su questo problema.
Siccome i terremoti sono causati dalla progressiva deformazione e fratturazione delle rocce, l’unico modo per tentare una previsione sulla localizzazione delle prossime scosse forti in un determinato contesto tettonico-strutturale è acquisire una dettagliata conoscenza dei processi deformativi in atto e della loro connessione con l’attività sismica. Sperare di ottenere questa previsione utilizzando analisi statistiche, basate sul concetto che i terremoti sono eventi casuali e indipendenti e che la sismicità futura avrà le stesse caratteristiche di quella insignificante parte della storia sismica che conosciamo, significa sprecare tempo e risorse (peccato grave in questo momento storico) come peraltro già indicato in un precedente articolo.
Lo studio dell’assetto tettonico di una zona è una cosa molto complessa che richiede l’analisi di una quantità enorme di dati acquisisti con tutte le tecniche delle Scienze della Terra. Il nostro gruppo di ricerca ha svolto questo tipo di indagine per oltre 40 anni, ottenendo una ricostruzione estremamente dettagliata del quadro geodinamico e tettonico nell’area mediterranea. La grande solidità delle conoscenze maturate è testimoniata dal fatto che i modelli adottati possono fornire spiegazioni plausibili e coerenti della distribuzione delle deformazioni che si sono sviluppate nell’evoluzione geologica recente.
Partendo da questo elemento fondamentale, è stato poi possibile indagare su come i processi tettonici riconosciuti possono influenzare la distribuzione spazio-temporale dei terremoti più intensi nelle zone di interesse. Il concetto che sta alla base di questo tentativo è l’ipotesi (largamente condivisa) che ogni terremoto forte induca una perturbazione del campo di deformazione, la quale si propaga poi nelle zone circostanti. Quando questa perturbazione raggiunge, con ampiezza sufficiente, un sistema di faglie (superfici di frattura) può provocare qualche assestamento che avvicina una o più faglie alla rottura. Nel caso estremo in cui una delle faglie presenti si trovi in prossimità del cedimento, la perturbazione in arrivo, anche se piccola, può far scattare uno scorrimento più o meno lungo (da pochi cm a qualche metro), che causa un terremoto di magnitudo (M) più o meno elevata.
Per capire come questo fenomeno può avere influenzato la distribuzione spazio-temporale dei terremoti passati nell’area mediterranea centrale sono state fatte lunghe indagini, che hanno permesso di riconoscere alcune caratteristiche molto interessanti e soprattutto utili come possibili strumenti di previsione. In particolare, è emerso che l’attività sismica forte di alcune zone può condizionare la sismicità di altre zone tettonicamente connesse con le prime. Di questo fenomeno sono stati finora individuati due esempi molto significativi (Mantovani et alii, 2012, 2013). Il primo riguarda l’Appennino meridionale, la cui sismicità sembra essere molto sensibile alle crisi sismiche che avvengono lungo il margine opposto dell’Adriatico, nella zona dell’Albania-Montenegro, situata nella parte meridionale della catena dinarica (Fig.1).
Questa interdipendenza tra sorgenti sismiche è fortemente favorita dal particolare assetto tettonico-strutturale della zona adriatica meridionale e delle catene adiacenti. L’esempio più recente ed evidente di questo dialogo a distanza tra sorgenti sismiche si è verificato quando il fortissimo terremoto (M = 7) avvenuto nel 1979 nella zona del Montenegro è stato seguito dopo circa un anno e mezzo dalla scossa dell’Irpinia del 1980 (M = 6.7). La possibile connessione tra le due scosse è avvalorata dal fatto che quantificando, con procedure analitiche, la perturbazione innescata dal terremoto del 1979 risulta che la massima ampiezza di questo effetto ha raggiunto l’Irpinia in ottima corrispondenza temporale con la scossa del 1980.
Il fatto (molto importante) che questa correlazione temporale tra scosse sismiche possa ripetersi nel tempo è poi provato dalla storia sismica delle due zone implicate (vedi tabella di fig.1), da cui risulta che tutti i terremoti di M ? 6.0 avvenuti nell’Appennino meridionale durante gli ultimi due secoli sono stati preceduti di alcuni anni (meno di 5) da uno o più terremoti con M ? 6.0 nella zona delle Dinaridi meridionali. Questa corrispondenza temporale cambia poco se si prende in considerazione una soglia di magnitudo più bassa. Una regolarità di risposte così elevata non può essere spiegata come un fatto casuale, per cui è necessario supporre che il fenomeno sia legato ad una interconnessione tettonica. Qualche incertezza sulla sistematicità del fenomeno potrebbe venire dal fatto che nel periodo precedente la corrispondenza tra scosse appenniniche e dinariche non è altrettanto regolare. Varie evidenze fanno supporre però che la storia sismica conosciuta nel periodo antecedente il 1800 sia meno attendibile di quella più recente.
Un aspetto molto interessante della corrispondenza mostrata in fig.1 è il fatto che, nel periodo considerato, un terremoto forte nell’Appennino meridionale non è mai avvenuto senza essere preceduto da una crisi sismica intensa nella zona delle Dinaridi meridionali. Questo potrebbe suggerire che al momento attuale, non essendovi stata nessuna scossa dinarica importante negli ultimi 34 anni, la probabilità che avvenga un terremoto forte nell’Appennino meridionale si può considerare relativamente bassa.
Un altro notevole vantaggio offerto dall’approccio deterministico sopra citato è che nel caso si verificasse nuovamente un terremoto forte nella zona dinarica, esisterebbe ora la possibilità di monitorare lo sviluppo della perturbazione innescata da tale evento, per esempio utilizzando la fitta rete geodetica GPS attualmente disponibile nel territorio italiano. In particolare, questo tipo di osservazioni potrebbe consentire di valutare con discreta precisione il momento in cui la probabilità di forti scosse nell’Appennino meridionale è prossima a raggiungere i massimi valori.
Una correlazione analoga a quella sopra discussa è stata riconosciuta tra i terremoti forti della Calabria e quelli del settore ellenico antistante (Fig. 2). In questo caso, la correlazione tra scosse forti è riconoscibile per un periodo più lungo, durante il quale risulta che tutte le scosse calabre con M ? 6.0 sono state precedute da crisi sismiche importanti (con una o più scosse di M ? 6.5) nel settore delle Ellenidi (Fig. 3). Il risultato non cambia molto se si considerano anche scosse più deboli (M ? 5.5) perché solo 2 (su 26) terremoti calabri non sono stati preceduti da scosse equivalenti nelle Ellenidi.
Quindi, anche nel caso della Calabria si può tentare di utilizzare la correlazione osservata per ricavare informazioni sull’attuale probabilità di terremoti forti in quella zona. Per esempio, il fatto che nella zona delle scosse scatenanti (Ellenidi) non ci siano state scosse di M ? 6.5 negli ultimi 30 anni suggerirebbe che al momento attuale la pericolosità in Calabria sia relativamente bassa. Va comunque tenuto presente che negli ultimi mesi (gennaio-febbraio 2014) la zona delle isole Ionie (appartenente alla zona ellenica implicata nella correlazione) è stata colpita da alcune scosse di M compresa tra 5.5 e 6.3. Anche se per il momento l’energia rilasciata da tali scosse non sembra essere sufficiente per scatenare reazioni in Calabria, è opportuno tenere la situazione sotto controllo. Per esempio, sarebbe utile controllare l’andamento temporale del campo di deformazione in Calabria e zone circostanti, mediante l’analisi di misure geodetiche GPS.
Le due correlazioni sopra citate possono fornire informazioni sulla probabilità di terremoti forti solo in una parte del territorio italiano (Appennino meridionale e Calabria). Per riuscire a definire una scala di priorità a scala nazionale, è necessario cercare di individuare altri possibili strumenti di previsione, ricavati dallo studio della sismicità passata nell’ambito del contesto tettonico del Mediterraneo centrale. Indagini fatte in questa direzione suggeriscono che questo problema potrebbe trovare una soluzione sfruttando il fatto che l’attività tettonica e la relativa sismicità nelle zone periadriatiche è strettamente connessa con il progressivo avanzamento circa verso nord della placca adriatica (Fig. 4).
Questo blocco, sollecitato dalle placche confinanti, cerca di spostarsi circa verso nord, ma per fare questo spostamento deve riuscire a svincolarsi dalle strutture orogeniche che lo circondano, attivando i sistemi di faglie dislocate lungo i suoi bordi laterali, sia sul lato orientale (ellenico-dinarico) che su quello occidentale, più o meno coincidente con la catena appenninica. E’ ragionevole supporre che questo quadro tettonico/cinematico abbia conseguenze importanti sulla distribuzione temporale delle scosse forti nelle zone periadriatiche. Ogni scossa permette al settore adriatico adiacente di accelerare il suo spostamento, aumentando di conseguenza gli sforzi nei settori contigui del bordo adriatico. Questo suggerisce che il modo in cui i terremoti più intensi si sono distribuiti in un certo periodo può fortemente condizionare la localizzazione della zona dove è più probabile che avvenga lo sviluppo successivo della sismicità. Una conferma di questa ipotesi sembra venire dalla fig. 5, che mostra l’andamento temporale della sismicità nelle principali zone periadriatiche.
E’ possibile notare che in ogni zona l’attività sismica è discontinua nel tempo, alternando intense fasi di attività con periodi di scarsa sismicità. Comunque, l’aspetto più interessante è che le fasi sismiche nelle varie zone presentano una chiara tendenza a migrare da sud a nord, sia lungo il bordo orientale (Ellenidi e Dinaridi) che quello occidentale (Calabria e Appennino) fino a raggiungere il fronte settentrionale di Adria nell’Arco Alpino.
I vari colori aiutano a individuare le principali sequenze migratorie nel periodo considerato. Una prima sequenza (grigia) è riconoscibile, anche se in modo parziale, nella seconda metà del secolo 1400. Poi, dopo un periodo di attività abbastanza scarsa, attorno all’inizio del 1600 è partita una nuova sequenza (verde), che si è poi sviluppata con forti crisi sismiche nelle varie zone periadriatiche per una buona parte del 1600. Una terza sequenza (gialla) si è sviluppata dalla prima metà del 1700 fino agli inizi del 1900. L’ultima sequenza, non ancora terminata (blu), è partita nella seconda metà del 1800 e ha già comportato numerose attivazioni sismiche dei settori meridionali e centrali del bordo di Adria (Ellenidi, Calabria, Dinaridi meridionali e Appennino meridionale e centrale), ma non ha ancora interessato estesamente i settori settentrionali dell’Appennino e delle Dinaridi e la catena alpina.
Questa situazione è resa ancora più evidente dalla figura 6, che mostra come le scosse delle tre sequenze (verde, gialla e blu) sono distribuite nello spazio. Infatti, nelle prime due sequenze la copertura di tutte le zone periadriatiche sembra abbastanza uniforme, mentre nell’ultima le regioni settentrionali sono ancora poco coperte.
Per avere un’idea più chiara di questo fatto, basta considerare che nel periodo implicato la parte dell’Appennino settentrionale situata a nord di Gubbio ha subito solo tre scosse di M?5.5 (zona parmense nel 1971 e pianura emiliana nel 2012). Nella zona alpina, l’attività comprende solo le scosse del Friuli nel 1976 e della Slovenia del 1998.
Il complesso delle evidenze mostrate nelle figg. 4 e 5 potrebbe suggerire che al momento attuale la probabilità di una scossa forte è più elevata nelle zone italiane settentrionali (Appennino settentrionale e Alpi orientali) che in quelle meridionali (Calabria e Appennino meridionale). Tra le zone settentrionali, riteniamo che la massima probabilità di scosse esista nell’Appennino settentrionale. Questa ipotesi è basata sull’analisi della distribuzione delle scosse maggiori durante le varie sequenze nell’ambito del quadro tettonico in atto (Mantovani et alii, 2012, 2013). In particolare, le indagini svolte suggeriscono che al presente la zona dell’Appennino settentrionale più esposta alle prossime scosse forti sia il sistema di faglie che si snoda dalla zona di L’Aquila fino all’Appennino Romagnolo, attraverso la parte assiale dell’Appennino umbro e in parte di quello toscano (Norcia, Cascia, Colfiorito, Alta Val Tiberina, Gubbio). E’ comunque molto importante sottolineare che questa previsione non ha implicazioni temporali, cioè non viene data nessuna indicazione su quando la prossima scossa si potrà verificare.
Per quanto riguarda l’Appennino centrale, non è facile fare un previsione perché, pur avendo subito varie scosse forti durante questa sequenza (1933, M=6.0; 1943 M=5.8; 1950 M= 5.7; 1979 M= 5.9; 1984 M=5.9; 2009 M=5.8-6.3), si può difficilmente escludere che le faglie di questa zona producano altre scosse forti durante la fase in corso. Siccome, però questa eventualità sembra meno probabile dell’attivazione di zone dell’Appennino settentrionale, può essere ragionevole assumere per questa zona una probabilità intermedia tra quella delle sorgenti sismiche settentrionali (massima) e meridionali (minima). Una rappresentazione sintetica delle previsioni proposte, espresse in forma relativa, è mostrata nella fig. 7.
Per completare il quadro delle informazioni disponibili, la tabella di fig. 7 riporta il numero delle scosse cosiddette strumentali registrate recentemente nelle zone qui considerate. Da questa tabella spicca il fatto che nella zona indicata come più esposta alla prossima scossa forte (Appennino settentrionale) le scosse strumentali recenti sono molto più numerose di quelle registrate nelle altre zone. La sproporzione rimane elevata anche se si considerano solo le scosse di M ? 2 o 3.
Sulle possibili implicazioni che quest’ultima evidenza può avere sulla pericolosità sismica delle zone indicate può essere utile fare alcune considerazioni. Un’elevata attività sismica minore indica che la zona coinvolta è attualmente sollecitata e sta di conseguenza subendo una deformazione, a cui la struttura reagisce con tanti microcedimenti lungo le faglie presenti. Il fatto che questa situazione sia più accentuata nell’Appennino settentrionale che nelle altre zone è compatibile con l’ipotesi che in questa zona ci sia una più elevata concentrazione di sforzi, come suggerito dalla previsione proposta (Fig. 7). E’ comunque opportuno considerare che questo non autorizza a fare previsioni sullo sviluppo delle futura sismicità e in particolare sulla possibilità che la crisi degeneri in una scossa forte. Per esempio, potrebbe essere che l’attività minore attuale sia legata ad uno scorrimento lungo un segmento di faglia, che termina poi contro un ostacolo strutturale, capace di bloccare l’ulteriore slittamento faglia. Quindi dopo un periodo di notevole attività minore la sismicità potrebbe esaurirsi e cessare, almeno per un lungo periodo. D’altra parte, non si può neanche escludere che l’attività minore porti gradatamente la faglia (in un tempo imprevedibile) verso un settore dove lo scorrimento è facilitato, favorendo il verificarsi di una scossa maggiore.
Queste considerazioni puramente ipotetiche vogliono sottolineare l’impossibilità di prevedere lo sviluppo temporale della situazione. Comunque, sarebbe importante che l’individuazione di un’area prioritaria fosse sfruttata al meglio per organizzare la più efficace difesa dai terremoti. Per esempio, potrebbe essere utile intensificare nella zona in oggetto possibili iniziative per ridurre il rischio sismico. A cominciare da quelle meno impegnative dal punto di vista economico (come esercitazioni antisismiche e controlli accurati sulla messa a punto di piani emergenza, ecc.) a quelle più impegnative (come lo stanziamento di incentivi per interventi di messa in sicurezza di edifici strategici e non). Nel caso, da non escludere, che la previsione proposta non coincida con la localizzazione della prossima scosse forte, le iniziative sopra citate non sarebbero certo sprecate, poiché avrebbero contribuito a mitigare il rischio sismico in una zona caratterizzata da alta probabilità di terremoti.
Vedendo la fig. 7, il lettore si potrebbe chiedere perché in tale scala di priorità non compaiano zone sismiche importanti, come Sicilia, Puglia ed Italia nord occidentale. Questa assenza è dovuta al fatto che per quelle zone, pur essendo disponibili interpretazioni tettoniche sul possibile sviluppo della prossima attività sismica, non sono ancora state riconosciute regolarità significative nella distribuzione spazio-temporale delle scosse forti, simili a quelle descritte sopra. Per esempio, le conoscenze sull’assetto tettonico nell’area mediterranea centrale e la storia sismica del sistema anatolico-egeo nel secolo precedente suggerirebbero una situazione di sforzi più elevati nella zona della Sicilia orientale al confine con la Calabria, ma questa considerazione non è suffragata da comportamenti particolari dell’attività sismica nella storia conosciuta. Si può comunque notare che il numero di scosse strumentali nella zona in oggetto ha subito un significativo incremento nei mesi scorsi.
A conclusione di questa breve discussione sullo stato della previsione a medio termine dei terremoti in Italia, è inevitabile fare alcuni commenti sulla strategia attualmente adottata dalla Protezione Civile per aggiornare le conoscenze su questo problema di altissimo impatto sociale. L’attenzione che viene dedicata a questo tipo di indagine non è certo trascurabile, considerato che nell’ultimo decennio il Dipartimento della Protezione Civile (DPC) ha stanziato alcuni milioni di euro per finanziare ricerche su questa tematica. La cosa che suscita però qualche preoccupazione sull’efficacia di questa strategia è che non esiste attualmente nessuna descrizione pubblica dei benefici pratici che tali indagini hanno comportato per la difesa dai terremoti in Italia. E’ evidente che un pronunciamento dei responsabili DPC e dei loro referenti scientifici (stranamente designati per legge) su questo aspetto sarebbe di fondamentale importanza per una scelta trasparente e proficua delle ricerche su cui concentrare gli sforzi nei progetti futuri. Per esempio, sarebbe utile sapere come il DPC intende utilizzare (o non considerare) le indicazioni ricevute dal nostro gruppo di ricerca (riassunte in questa nota) a conclusione di un’indagine svolta nell’ambito di un Progetto di Ricerca promosso da tale Ente, spiegando pubblicamente alle popolazioni coinvolte dalla nostra previsione le motivazioni della scelta fatta.
BIBLIOGRAFIA
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