Il Prof. Enzo Mantovani (docente di Fisica Terrestre presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena) è un esperto di sismotettonica che già in passato ha sviluppato interessanti articoli per MeteoWeb sulle problematiche inerenti il rischio sismico e l’estrema vulnerabilità ai terremoti (anche di magnitudo non elevate) del nostro paese, argomenti sempre più di attualità visti i diversi sciami sismici che ancora interessano il nostro territorio nazionale. Il problema pare estremamente serio e grave, anche per i diversi (e non sempre corretti) approcci con cui, soprattutto sul web e sui social network, si affrontano queste tematiche sulle quali i cittadini spesso non risultano correttamente informati. Il Prof. Mantovani analizza ulteriormente la situazione, evidenziando le nette differenze tra approccio statistico e deterministico, nonché ribadendo la necessità di una revisione delle carte di pericolosità sismica.
In un precedente articolo di MeteoWeb, è stato messo in evidenza che la carta di pericolosità sismica attualmente in vigore in Italia può implicare significative sottovalutazioni degli effetti attesi da un terremoto. Questo problema viene imputato al fatto che la carta in oggetto è stata elaborata con una metodologia statistica basata su presupposti irrealistici, non compatibili con il comportamento della sismicità reale. In particolare, l’assunzione che i terremoti siano eventi casuali e indipendenti e che le caratteristiche della storia sismica conosciuta (qualche secolo) si ripeteranno nel futuro. La validità di queste ipotesi è stata ripetutamente contestata anche da esperti nazionali ed internazionali molto autorevoli, i quali hanno messo in evidenza che nella maggioranza dei casi le previsioni di tale metodologia sono risultate poco consistenti con le caratteristiche della sismicità reale e con l’entità dei danneggiamenti effettivamente osservati. Ulteriori importanti argomenti utili per questa confutazione si possono dedurre dalla storia sismica dell’Appennino settentrionale, per la zona comprendente la Toscana e l’Emilia Romagna, la quale indica in modo molto convincente che la distribuzione dei terremoti forti è strettamente connessa con lo sviluppo dei processi tettonici in atto, in netto contrasto con le assunzioni della metodologia sopra citata.
Nel periodo precedente il 1916, a partire dal 1000, l’attività sismica della zona considerata è stata caratterizzata da 31 scosse forti, di Magnitudo (M) uguale o maggiore di 5.5, che implica un tempo di ritorno di circa 30 anni. Quindi, se nel 1915 fosse stata tentata una previsione statistica sulla base della storia sismica precedente e tenendo conto che una scossa forte era appena avvenuta (1914, Garfagnana M=5.8), il risultato avrebbe suggerito una probabilità bassa per scosse di quell’entità negli anni successivi. Questo però sarebbe stato in clamoroso disaccordo con quanto avvenuto nel periodo seguente (1916-1920), durante il quale la zona in oggetto è stata colpita da un’attività sismica particolarmente intensa e frequente, costituita da ben 7 scosse di magnitudo (M) compresa tra 5.5 e 6.5 (Fig.1). E’ evidente che un tale improvviso e drastico cambio di ritmo della sismicità forte, passato da una scossa ogni 30 anni ad un evento ogni 9 mesi circa, mette in crisi l’idea che i terremoti siano eventi casuali. Un comportamento così particolare può essere spiegato solo come conseguenza di un contesto deterministico, dove ad ogni effetto corrisponde una causa ben precisa. In questo caso, in particolare, è stata avanzata l’ipotesi che la concentrazione di scosse nell’Appennino settentrionale nel periodo 1916-1920 sia stata un effetto dei processi tettonici scatenati dal fortissimo terremoto del 1915 (M=7.0) avvenuto nella zona del Fucino. Una descrizione sintetica delle argomentazioni a supporto di questa interpretazione è riportata di seguito. Un resoconto completo ed esauriente è reperibile nelle pubblicazioni citate nella bibliografia al termine di questo articolo.
La ricostruzione del quadro tettonico attuale della zona considerata (Fig.2), fatta sulla base di una quantità enorme di informazioni, indica che l’attività deformativa e la relativa sismicità sono legate al fatto che, in risposta alle forze tettoniche (principalmente indotte dal movimento della placca adriatica) la fascia orientale della catena appenninica (settori colorati in fig.2) si muove più velocemente rispetto alla parte occidentale (grigia). Nella zona di separazione tra la parte mobile e quella fissa si sono formate alcune fosse tettoniche (Lunigiana, Garfagnana, Mugello, Val Tiberina, Gubbio, Colfiorito, Norcia e Cascia) più o meno allineate lungo la parte assiale della catena, dove sono situate le maggiori sorgenti sismiche dell’Italia peninsulare.
Oltre che dall’analisi di evidenze geologiche e geofisiche, il fatto che la parte orientale della catena si stia muovendo più velocemente di quella occidentale è suggerito dal campo di velocità ricavato da misure geodetiche acquisite da una rete piuttosto fitta di stazioni permanenti GPS (Fig.3). In particolare, da questa figura risulta che i siti localizzati nella parte orientale della catena si muovono circa verso Nord-Est con velocità comprese tra 3 e 5 mm/anno, mentre le stazioni che si trovano nel settore tirrenico si spostano con velocità meno che dimezzate (1-2 mm/anno) e orientate circa verso Nord/Nord Ovest. La geometria della zona più veloce (rossa e nocciola) è compatibile con la parte di catena che viene riconosciuta come più mobile in base alle evidenze geologiche. La fig. 2 mostra che quest’ultima fascia è composta da vari settori. Quello viola corrisponde alla fascia orientale dell’Appennino centrale, che si disaccoppia dalla parte occidentale (fissa) mediante due sistemi di faglie (Fucino e L’Aquila). Quando uno di questi sistemi si attiva con un terremoto forte, il blocco viola, così svincolato e sotto la spinta delle forze tettoniche, subisce una consistente accelerazione verso nord, producendo un drastico aumento della compressione sul settore verde (Romagna-Marche-Umbria) e su quello blu (Toscana-Emilia), dove di conseguenza aumenta la probabilità di forti terremoti.
Il meccanismo tettonico discusso sopra potrebbe spiegare la distribuzione delle scosse forti che sono avvenute nell’Appennino settentrionale nel periodo 1916-1920, dopo il violento terremoto del Fucino nel 1915. Un tentativo di ricostruire come i vari blocchi si sono mossi durante la sequenza sismica è mostrato in fig. 4. A questo riguardo, è utile sapere che in seguito al terremoto del Fucino (1915) il blocco viola ha avuto un avanzamento di circa 1-2 metri (come indicato dai parametri ricavati per quella scossa), cioè uno salto notevole rispetto allo spostamento estremamente lento (qualche mm all’anno) che il blocco compie normalmente. Quindi è facile capire come un’accelerazione così intensa, come quella prodotta dal terremoto del Fucino, abbia costretto il blocco adiacente (verde) ad un raccorciamento ed estrusione molto rapida, creando una situazione favorevole all’attivazione di faglie prossime al cedimento.
Ulteriore e importante supporto allo schema sismotettonico sopra proposto viene dalla quantificazione degli effetti attesi da ogni forte scossa che hanno permesso di prevedere i momenti in cui la probabilità di sismicità indotta (nelle zone poi colpite da scosse forti) è stata presumibilmente più elevata durante il periodo 1916-1920. Il fatto che i momenti previsti corrispondano molto bene alla collocazione temporale delle scosse avvenute durante il periodo citato rafforza l’ipotesi che ci sia stata una stretta connessione tra le varie sorgenti sismiche e, inoltre, può delineare un metodo molto interessante per riconoscere i possibili sviluppi della sismicità futura in base all’attività sismica pregressa.
Dopo la violenta scarica sismica del periodo 1916-1920, la zona in oggetto ha avuto un lungo periodo (oltre 90 anni) di attività sismica molto ridotta, con solo due scosse di M>5.5: la scossa di Parma (M=5.6) nel 1971 e le due scosse in Emilia (M=5.9, 5.8) nel 2012. Quindi, in questo caso le previsioni su base statistica (fatte per esempio nel 1921 o negli anni successivi), essendo basate su un periodo di ritorno di circa 27 anni per scosse di M>5.5, sarebbero state più pessimistiche di quello che in realtà è avvenuto. Dal punto di vista deterministico, invece, sarebbe stato possibile prevedere il rallentamento dell’attività sismica. A questo riguardo, è utile considerare che nel periodo 1915-20 un buon numero delle sorgenti sismiche della zona sono state portate al punto di rottura dall’accelerazione dei processi deformativi causata dalla scossa del Fucino (1915). E’ ragionevole pensare che questo abbia allungato la fase durante la quale una zona sismica accumula la deformazione prima di arrivare al cedimento.
Per concludere, si può ribadire che attualmente esistono chiare evidenze (molto più numerose di quelle qui citate) che mettono in risalto l’impossibilità di valutare in modo attendibile la probabilità dei terremoti forti in Italia e quindi di elaborare, in base a tali stime, carte di pericolosità realistiche. Perciò, non può essere tollerato che sulla base di valutazioni così ambigue (spesso caratterizzate da significative sottovalutazioni della pericolosità sismica) vengano decise le politiche di difesa dai terremoti in Italia. Questo problema è stato da tempo recepito dalle due Regioni qui citate (Toscana ed Emilia Romagna) che hanno deciso di approfondire le conoscenze sul rischio sismico effettivo con studi alternativi (descritti in modo dettagliato nelle pubblicazioni citate in bibliografia), che utilizzano in modo più completo le informazioni attualmente disponibili sul quadro sismotettonico nelle zone implicate. La necessità di rivedere le attuali carte di pericolosità è stata anche ufficialmente riconosciuta dalla Protezione Civile. Purtroppo, però le iniziative finora prese per raggiungere questo scopo non sembrano le più adatte per ottenere risultati significativi. Infine, può essere utile informare che il gruppo di ricerca dell’Università di Siena, utilizzando metodologie deterministiche basate sulla conoscenza dei processi tettonici in atto e la distribuzione spazio-temporale della sismicità nell’area italiana, ha fornito alla Protezione Civile (come relazione finale dell’indagine svolta nell’ambito di un progetto finanziato da tale Ente) una previsione su quali zone italiane sono attualmente più esposte alle prossime scosse forti nell’Italia peninsulare.
BIBLIOGRAFIA
- Mantovani E., Viti M., Babbucci D., Cenni N., Tamburelli C., Vannucchi A., Falciani F., Fianchisti G., Baglione M., D’Intinosante V., Fabbroni P., 2011. Sismotettonica dell’Appennino Settentrionale. Implicazioni per la pericolosità sismica della Toscana. Regione Toscana, Centro stampa Giunta Regione Toscana, Firenze, pagg. 88 (http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica.
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- Mantovani E., Viti M., Babbucci D., Cenni N., Tamburelli C., Vannucchi A., Falciani F., Fianchisti G., Baglione M., D’Intinosante V., Fabbroni P., Martelli L., Baldi P., Bacchetti M., 2013. Assetto tettonico e potenzialità sismica dell’Appennino Tosco-Emiliano-Romagnolo e Val Padana. Regione Toscana e Regione Emilia Romagna, Centro Stampa- Regione Emilia-Romagna, pagg. 168 (http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/geologia/servizio-geologico-sismico-suoli e http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica).
- https://docs.google.com/viewer?a=v&pid=sites&srcid=ZGVmYXVsdGRvbWFpbnxpbmd2ZHBjMjAxMnByb2dldHRvczN8Z3g6N2IxNDIxMTliOGQyODg2YQ