Sembra essere già segnato il destino di Kiruna, la città svedese più settentrionale di tutte, situata a 150 chilometri a Nord del circolo polare artico. È la zona più densamente abitata della Lapponia, e con i suoi 20000 abitanti, sorge in prossimità di una delle più grandi miniere di ferro del mondo, il cui sfruttamento intensivo sta ponendo la comunità locale di fronte a degli importanti interrogativi circa il suo futuro.
Il sito in questione rappresenta il più esteso giacimento di magnetite della Terra, e una manna dal cielo per il popolo svedese; la miniera è gestita da una società, la LKAB, leader nel campo dell’estrazione dei minerali, che opera in Scandinavia da più di 100 anni e che ha creato moltissimi posti di lavoro in queste zone. La città di Kiruna esiste, e continua a vivere, grazie alla miniera: è infatti sorta per ospitare gli operai e i lavoratori addetti allo sfruttamento del giacimento all’inizio del ‘900, e nel nuovo millennio ha visto una sorta di rinascita, in conseguenza dello smisurato aumento del fabbisogno mondiale (essenzialmente asiatico) di ferro. Questo fatto ha portato all’ampliamento dello sfruttamento dell’enorme giacimento di Kiruna, che si estende per ben 4 chilometri in lunghezza e 2 in altezza; fino ad ora sono state estratte più di un miliardo di tonnellate di materiale ferroso, e gli scavi hanno attualmente raggiunto i 1045 metri di profondità. Il problema fondamentale, legato allo sviluppo della miniera, sta nel fatto che gran parte della nuova porzione di ferro da sfruttare, si trova proprio al di sotto della città! Estrarre da lì il minerale, comporterà chiaramente una forte instabilità del terreno superficiale su cui poggiano le case e gli edifici di Kiruna, che quindi crollerebbero o subirebbero lesioni molto gravi. L’eventualità di fermare l’attività della miniera pare essere assolutamente inaccettabile: Kiruna morirebbe se la miniera chiudesse, quindi le autorità locali hanno deciso di “spostarla” altrove, in accordo con i dirigenti della LKAB. È proprio una proposta di questi ultimi quella di abbandonare l’attuale collocazione della città, e di ricostruirla ad una distanza di sicurezza, lontana dai pericoli connessi all’escavazione sotterranea. È stato addirittura proposto di smontare e rimontare altrove alcuni dei più importanti edifici storici, nel contesto di un programma di trasferimento che potrebbe durare più di cento anni e coinvolgere tutti gli abitanti della città (20000). Chiaramente tutto il costo dell’immane operazione sarà a carico della società mineraria che gestisce il sito, che per adesso, ha investito 325 milioni di euro per l’acquisto dei terreni da espropriare, per la demolizione e la successiva ricostruzione delle case e degli edifici pubblici, nonché per il trasloco delle persone e dei loro beni. Un’operazione simile ci fa capire quanto sia pericoloso continuare ad abitare laddove vengono operati ingenti scavi nel sottosuolo ai fini estrattivi: in superficie infatti, si sviluppano evidenti fratturazioni del terreno, e l’apertura di questi squarci nel suolo, che si propagano a ritmi impressionanti, lesionano le abitazioni, rendendole inagibili.
UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO. Se con l’aumento delle quantità di ferro estratte Kiruna è destinata a sprofondare, anche la chiusura della miniera, porterebbe alla morte della città, da un punto di vista economico. L’unica soluzione che è stata proposta è stata quella di abbandonare l’attuale agglomerato urbano, per ricostruirlo, e parzialmente rimontarlo, altrove, nella vallata a Est.
Molto spesso i paesi e le città legate alle attività estrattive di vario genere, cadono col tempo in declino, e si trasformano tristemente in luoghi spettrali, abbandonati e rugginosi; questo per vari motivi, dall’esaurimento della cava o della miniera in questione, alla sua dismissione a causa della diminuzione della richiesta della materia prima estratta.
Nel nostro bel paese sono numerosi gli esempi di questo genere; uno dei più eclatanti è quello del paese di Castelnuovo dei Sabbioni. Siamo in Toscana, a ridosso dei Monti del Chianti, in provincia di Arezzo, e qui aveva sede una grossa miniera di lignite che andava ad alimentare la vicina centrale elettrica di Santa Barbara. La miniera era la principale fonte di lavoro per gli abitanti della zona, ma alla fine è diventata anche la causa dell’abbandono del paese di Castelnuovo. L’intensa escavazione aveva così profondamente intaccato la collina limitrofa, da causare una frana che ha inghiottito la metà degli edifici del paese. Le autorità, a quel punto, furono costrette ad evacuare la zona, e a decidere di trasferire il centro abitato in un altro sito. Castelnuovo dei Sabbioni è tuttora un paese fantasma, di cui restano solo poche testimonianze malinconiche: i ruderi del borgo sono delimitati da una recinzione e da un cancello in lamiera, e le case mangiate dal tempo e dalle intemperie, si sgretolano al minimo soffio di vento, destinate a sparire per sempre, sotto la vegetazione infestante.