Prevedere le eruzioni dei vulcani, l’esperto a MeteoWeb: “tasselli importanti, ma ancora c’è tanto da fare”

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Recentemente sui media è rimbalzata una notizia apparentemente molto importante dal punto di vista scientifico. Alcuni scienziati americani avrebbero trovato il modo di prevedere con un certo anticipo le eruzioni o comunque avrebbero individuato il metodo ed i parametri principali tramite cui appunto indicare i tempi in cui il magma potrebbe fuoriuscire dai condotti vulcanici. Alcuni commentatori paiono entusiasti, altri più scettici. Il vulcanologo Stefano Carlino (Ricercatore dell’INGV nella sezione di Napoli presso l’Osservatorio Vesuviano), già in passato attento e valente collaboratore di MeteoWeb, affronta la questione.

stromboli eruzioneLo studio dei magmi, per la comprensione dei processi che generano le eruzioni, rappresenta da sempre uno dei principali campi di attività dei vulcanologi. Le condizioni fisiche per l’accumulo e la mobilizzazione dei magmi nella crosta terrestre sono di fondamentale importanza per capire i processi eruttivi, che rimangono tuttavia ancora poco chiari. Nell’approccio empirico classico le camere magmatiche rappresentano le zone di accumulo di roccia vulcanica fusa. In determinate condizioni di temperatura e pressione, e sotto l’azione dei campi di sforzo regionali, i magmi contenuti in questi serbatoi possono risalire in superficie attraverso la crosta fratturata, per dar luogo alle eruzioni.

Sin dai primi studi sistematici sui vulcani, iniziati nel XVIII secolo, si rafforzò il modello di sistema vulcanico che prevedeva una zona di alimentazione, la camera magmatica, e una zona fratturata, che attraversa la crosta terrestre, di collegamento tra il serbatoio di magma e la superficie, dove s’identificano gli edifici vulcanici. Le eruzioni vulcaniche, in particolare quelle di maggiore energia, prevedono l’esistenza di grandi camere magmatiche, situate nella crosta terrestre a profondità di alcuni chilometri, che permangono per tempi tipicamente molto lunghi. Tuttavia, il modello vulcanico elaborato ha incontrato robusti elementi contraddittori, quando si è tentato, attraverso le indagini geofisiche, di individuare la presenza di camere magmatiche nella crosta terrestre.
Queste indagini prevedono che le onde sismiche, generate da un terremoto o da una sorgente artificiale, attraversando una zona con un forte contrasto di rigidità, ad esempio un contatto tra roccia e magma, subiscono fenomeni di riflessioni e rallentamenti. L’informazione sul tipo di mezzo attraversato è raccolta dalle onde sismiche, registrata in superficie dai sismografi e interpretata dai ricercatori attraverso complessi modelli matematici d’inversione. Le indagini tomografiche, che utilizzano sorgenti artificiali per generare onde sismiche, hanno interessato sin dagli anni ’70 molte aree del Pianeta, in particolare quelle di vulcanismo attivo e delle dorsali oceaniche, con l’obiettivo di caratterizzare i processi dinamici in atto nella crosta terrestre. Queste indagini hanno consentito di verificare le ipotesi contenute nella teoria sull’espansione dei fondi oceanici e sulla deriva dei continenti. Tuttavia, le prospezioni sismiche profonde non indicano la presenza di grandi camere magmatiche in molte aree vulcaniche attive del Pianeta, dove i modelli teorici presumerebbero invece la loro esistenza.

Quando i magmi si trovano a temperature inferiori ai 750°C assumono proprietà fisico-meccaniche (indicate col termine reologia) più simili ad una roccia allo stato plastico che a del materiale fuso capace di fluire nelle fratture. Questo stato reologico del magma lo rende “invisibile” alle onde sismiche, poiché i contrasti di densità rispetto alle rocce circostanti sono troppo bassi perché siano rilevati. Quando invece il magma nella crosta è allo stato fuso può essere individuato più facilmente dal passaggio delle onde sismiche, ma dovrà avere un volume sufficientemente grande per essere riconosciuto. Questo duplice aspetto legato alla reologia dei magmi più freddi e alla scarsa risoluzione spaziale delle tomografie sismiche profonde, limita il campo d’indagine della sismologia applicata alla ricerca dei potenziali serbatoi magmatici.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Nature da due ricercatori americani, Kari Cooper e Adam Kent, ha dimostrato, utilizzando un percorso diverso da quello delle indagini sismiche, ciò che era ipotizzato da molti vulcanologi. I due ricercatori, attraverso delle misure geochimiche eseguite su rocce vulcaniche, sono riusciti a ricostruire la storia termica dei magmi che hanno alimentato alcune eruzioni avvenute in passato. Secondo i risultati della ricerca, i grandi serbatoi magmatici, che sostano nella crosta terrestre per centinaia di migliaia di anni, si trovano generalmente in uno stato semi-solido (detto mush in gergo anglosassone), poiché la loro temperatura è generalmente inferiore ai 750°C, che rappresenta il limite fisico tra solido e fuso.
Soltanto per una frazione molto piccola del tempo totale di stazionamento dei magmi nella crosta (meno del 10%), questi si trovano allo stato fuso e possono quindi muoversi verso la superficie ed eruttare. Il magma eruttabile è dunque condizionato fortemente dal suo stato termico. Il passaggio del magma dallo stato di “mush” a quello fuso potrebbe avvenire rapidamente, quando un evento termico, come l’arrivo di nuovo magma o di fluidi profondi, determina la fusione o un abbassamento del punto di fusione. Gli studi finora eseguiti suggeriscono che i grandi volumi di magma liquido, potenzialmente individuabili con gli strumenti d’indagine sismica, sono in realtà assai effimeri e la loro presenza potrebbe indicare uno stato di preparazione a un’eruzione. Resta tuttavia ancora poco chiaro il meccanismo che innesca la migrazione del magma dalle zone di più profonde di accumulo verso la superficie, mentre una stima dei tempi di migrazione, anche questa assai complessa, sarebbe utile ai fini di una previsione dell’eruzione.

Lo studio pubblicato su Nature aggiunge un tassello importante alla conoscenza globale dei processi vulcanici, ma ancora non consente di prevedere le eruzioni. Il quadro conoscitivo è infatti insufficiente a definire dei modelli di previsione generali, mentre l’unico modo di prevedere un’eruzione si basa sulla valutazione, in parte soggettiva e in parte puramente statistica, dei parametri geofisici e geochimici misurati dalle reti di sorveglianza vulcanica. I sistemi attuali di monitoraggio hanno un elevatissimo contenuto tecnologico, ma la mancanza di un paradigma scientifico di riferimento, valido in generale per la previsione vulcanica, rende non univoca l’interpretazione del dato registrato. L’insieme dei fenomeni che comunemente si registra all’approssimarsi di un evento eruttivo consente, a differenza dei terremoti, di fare previsioni statistiche sulla possibilità di accadimento dell’evento e di dare un allarme preventivo per l’evacuazione dei cittadini.

La sismicità è tipicamente il primo segnale che si osserva, che può essere indicativo di risalita di magma che spinge e frattura le rocce. Il campo di stress generato dal magma in risalita produce deformazioni dell’apparato vulcanico, mentre i gas liberati fanno registrare un aumento della loro concentrazione nelle fumarole. Anche il campo gravimetrico cambia, perché il magma più denso può determinare un aumento, seppur minimo, dell’accelerazione di gravità. L’insieme di questi fenomeni è registrato dalle reti di monitoraggio vulcanico e i dati sono utilizzati per stimare la pericolosità del vulcano. Generalmente la probabilità di centrare una previsione è tanto più alta quanto più ci si avvicina all’evento, perché sono maggiori i segnali precursori sui quali gli scienziati possono eseguire le valutazioni di pericolosità. Ciò può assicurare un pre-allarme eruttivo sul brevissimo termine (ore o giorni), che tuttavia potrebbe essere insufficiente a garantire l’evacuazione, quando la popolazione a rischio è in numero molto elevato. Questo problema è particolarmente sentito al Vesuvio e ai Campi Flegrei, in Campania, dove l’eccessiva urbanizzazione delle aree a rischio renderebbe problematica un’evacuazione in massa.

Le tomografie sismiche di questi due vulcani hanno evidenziato uno strato a bassa rigidità localizzato a circa 8 km di profondità, che potrebbe essere assimilato a grande un bacino magmatico. Secondo le ricerche di Cooper e Kent, la presenza di un simile bacino magmatico sarebbe indicativa di un’elevata pericolosità vulcanica. Lo studio dei due ricercatori americani definisce una correlazione generica tra magma presente nella crosta e pericolosità vulcanica, senza però indagare sulle possibili cause che determinano la risalita del magma. E’ necessario, in tal senso, approfondire la ricerca soprattutto per comprendere come la tettonica regionale possa influire sulla dinamica delle camere magmatiche, un obiettivo che potrebbe condurre a una più chiara caratterizzazione dei processi vulcanici sul lungo termine.

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