Il Prof. Enzo Mantovani (docente di Fisica Terrestre presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena) è un esperto di sismotettonica di cui MeteoWeb già in passato ha ospitato alcuni articoli sulla necessità di rivedere l’attuale carta di pericolosità per l’intero territorio italiano. Stavolta, a seguito delle ultime scosse registrate nel Meridione (che hanno allarmato la popolazione nonostante la loro magnitudo relativamente bassa, vedi la scossa al largo di Crotone del 5 aprile), il Prof. Mantovani esprime la sua opinione sull’allarmismo diffuso, anche attraverso i social network, in relazione ad un eventuale forte terremoto che potrebbe colpire nel prossimo futuro il Sud dell’Italia.
Di tanto in tanto vengono diffuse notizie di un terremoto disastroso in arrivo nell’Italia meridionale. Quando leggo questo tipo di annunci catastrofici cerco di mettermi nei panni di una persona che vive in quelle zone. Penso che la prima reazione che si possa avere, per cercare di reagire all’inevitabile preoccupazione, sia quella di sperare che la notizia sia priva di fondamento, come è spesso capitato. Di solito, questi annunci sono presentati come pareri di esperti, ma si sa che per vari motivi questa etichetta non garantisce l’affidabilità dell’informazione. E allora, cosa si può fare per distinguere le previsioni maturate attraverso un serio percorso scientifico da semplici opinioni espresse da pseudo-scienziati in cerca di visibilità ? Considerato che per oltre 40 anni mi sono occupato di questo problema, assieme al gruppo di ricerca che coordino, posso provare a dare qualche indicazione utile per rispondere alla domanda posta sopra, lasciando comunque al lettore libertà di giudizio sulla credibilità dei suggerimenti che mi permetto di dare.
Il primo aspetto che va considerato in un annuncio di disastro imminente è la semplicità e chiarezza delle giustificazioni fornite. Poiché i terremoti sono fenomeni fisici chiaramente riconosciuti (inquadrabili come repentine fratturazioni di rocce sotto l’azione delle forze tettoniche), qualsiasi tentativo di prevedere dove e quando questo fenomeno può verificarsi in modo catastrofico deve spiegare il modello fisico e la base concettuale su cui tale ipotesi è fondata. Leggendo gli annunci di scosse imminenti nell’Italia meridionale ho notato spesso ipotesi fantasiose o dalle motivazioni misteriose, su cui sarebbe troppo lungo discutere. Per semplicità, si può concentrare l’attenzione sull’unica previsione che è invece basata su un ragionamento chiaro, derivato da una semplice valutazione statistica, che si può così sintetizzare: “Nell’Italia meridionale l’attività sismica recente è stata più limitata rispetto a quella media del passato. Quindi l’attuale probabilità di terremoti forti è più elevata del solito”. Questo modo di ragionare ha il merito di essere comprensibile per tutti, ma non ha certo il merito di essere plausibile. La ragione è semplice: i terremoti non sono eventi casuali e indipendenti, come i tiri di un dado o le estrazioni del lotto. Quindi, le previsioni su dove e quando si verificheranno le prossime scosse forti non possono essere fatte usando le leggi della statistica. Considerato che le scosse sismiche sono gli effetti della deformazione delle rocce, qualsiasi tentativo di prevedere i prossimi percorsi della sismicità forte deve necessariamente passare attraverso uno studio molto accurato del contesto tettonico in atto e della sua possibile connessione con la distribuzione spazio-temporale dei terremoti forti (Mantovani et alii, 2010, 2012a,b).
Per esempio, in un precedente articolo è stato messo in evidenza che l’eccezionale concentrazione di sismicità forte che c’è stata nell’Appennino settentrionale nel periodo 1916-1920 (denunciando un comportamento fortemente anomalo di questo settore appenninico rispetto alla sua storia sismica precedente), sarebbe estremamente difficile da spiegare con valutazioni probabilistiche, ma può essere invece plausibilmente e coerentemente interpretata come effetto di una situazione tettonica contingente, innescata dal fortissimo terremoto (M=7.0) che nel 1915 ha colpito la zona del Fucino, nell’Appennino centrale (Viti et alii, 2012). Questo è solo uno dei numerosi esempi di legame deterministico tra la distribuzione di scosse forti e processi tettonici in atto, che sono stati finora riconosciuti nell’area mediterranea (e.g., Mantovani et alii, 2010, 2012a,b, 2013; Viti et alii, 2012, 2013).
Per capire come la procedura deterministica sopra citata possa essere utile per stimare la probabilità di terremoti nell’Italia meridionale, si può prendere in considerazione il caso della Calabria, una delle zone oggetto di recenti previsioni catastrofiche. Negli ultimi 4 secoli questa regione è stata colpita da almeno 26 scosse con magnitudo maggiore o uguale a 5.5 (Tab. 1). La notevole frequenza delle scosse forti in questa zona è consistente con le conoscenze sull’assetto tettonico attuale (Mantovani et alii, 2009, 2012a,b, 2013, Viti et alii, 2011), che descrivono l’Arco Calabro come il settore di catena caratterizzato dalla maggiore mobilità e quindi dalla più elevata velocità di deformazione (strettamente connessa con l’attività sismica).
Se però si considera l’attività sismica recente di questa zona, il quadro che emerge è decisamente diverso rispetto al comportamento medio sopra citato, in quanto l’ultima scossa forte è avvenuta nel 1947 (M=5.7), delineando una quiescenza sismica che dura ormai da 67 anni. Considerato che nel periodo precedente (1600-1947) l’intervallo di tempo tra una scossa e quella successiva è stato mediamente di 13 anni circa e non ha mai superato 50 anni (Tab.1), l’attuale lungo silenzio sismico di questa zona appare come una notevole anomalia. In un’ottica deterministica, questo inusuale comportamento sismico della Calabria dovrebbe essere spiegato come effetto di uno sviluppo particolare dei processi deformativi in atto nel contesto tettonico coinvolto.
La ricerca di questa possibile causa non è fortunatamente molto complicata perché proprio nel periodo che ha preceduto l’inizio della quiescenza sismica in Calabria si è verificato un evento che si può definire come straordinario nel contesto sismotettonico mediterraneo e che ha prodotto un drastico cambiamento del campo di deformazione nella zona mediterranea centrale, comprendente la Calabria (Mantovani et alii, 2012a). L’evento in questione si riferisce all’attivazione dell’intera faglia nord anatolica (Fig.1), provocata da una serie di terremoti violentissimi che hanno determinato uno spostamento verso ovest di molti metri dell’intero blocco anatolico (Fig.1).
Per tentare di spiegare come questo processo possa avere influenzato la potenzialità sismogenetica in Calabria è necessario fornire una descrizione sintetica del quadro tettonico (Fig. 1) e cinematico (ricostruito in modo più dettagliato in Fig. 2) nell’area mediterranea centro-orientale. Dalle fig. 1 e 2 risulta che nell’area mediterranea centrale è in atto una convergenza tra il blocco africano-ionico-adriatico, in movimento circa verso Nord/NNE, e il blocco anatolico-egeo, che si sta rapidamente spostando circa verso Ovest (sotto la spinta dell’Arabia). Questo avvicinamento tra blocchi è responsabile della notevole attività tettonica e relativa sismicità nelle catene che bordano la parte meridionale della placca adriatica (Fig. 3), sia lungo il suo bordo orientale (Peloponneso ed Ellenidi settentrionali) che quello occidentale (Calabria).
L’attività sismica in Calabria è dovuta al fatto che questo settore di catena, in risposta alla forte compressione longitudinale, che tenderebbe a raccorciarlo, si solleva e si sposta lateralmente, sovrascorrendo la zona adriatica e ionica. Contemporaneamente, anche il blocco ibleo cerca di uscire da questa morsa, cercando di migrare verso la zona tirrenica (Mantovani et alii, 2009).
Il sistema di faglie di disaccoppiamento che consente a questi due blocchetti (Sicilia e Calabria) di scorrere tra loro in direzioni opposte si sviluppa lungo la Sicilia orientale, coinvolgendo la faglia di Vulcano, e le faglie che bordano la fossa di Messina fino alla costiera catanese, dove si sono verificati numerosi terremoti storici molto violenti (Tab. 2).
Per capire le possibili conseguenze dell’attuale contesto tettonico sull’attività sismica (Fig.1), è necessario considerare che lo spostamento dei blocchi non è uniforme nel tempo. I vettori (frecce bianche) riportati in fig. 2 indicano le velocità medie nel lungo termine (decine o centinaia di migliaia di anni), dedotte da deformazioni geologiche. Nel breve termine (decine o centinaia di anni) il movimento dei blocchi procede a scatti, con fasi di notevole accelerazione (con velocità che vanno da decine di cm a qualche metro in pochi anni), che si sviluppano durante e subito dopo i forti terremoti lungo i bordi di placca, separate da lunghe fasi di scarsa mobilità, in cui la velocità si riduce a pochi cm all’anno.
In particolare, è utile considerare che lo spostamento verso ovest del sistema anatolico-egeo (che assieme al movimento dell’Africa è la principale causa di deformazione nella zona ionica-adriatica-italiana) si sviluppa principalmente dopo i forti terremoti che avvengono lungo la faglia nord anatolica (Fig.4), una discontinuità lunga più di 1000 km che si snoda lungo la Turchia settentrionale, consentendo al blocco anatolico di muoversi rispetto alle strutture europee (Fig. 1 e 2).
L’attivazione completa di questa lunga faglia è un evento piuttosto raro: si ritiene che abbia tempi di ricorrenza dell’ordine del migliaio di anni. L’ultimo episodio di questo fenomeno si è verificato nel secolo scorso, a partire dal 1939, quando un fortissimo terremoto (M=7.8) è avvenuto nell’estremità orientale della faglia nord anatolica (Fig. 4). Questa scossa ha prodotto, per un segmento di faglia di oltre 300 km, uno spostamento laterale verso ovest di oltre 7 metri del blocco anatolico rispetto alle strutture fisse europee situate a nord della faglia. Questo disaccoppiamento iniziale è stato poi seguito negli anni successivi da altre scosse molto forti, che hanno determinato altri scorrimenti laterali nei settori contigui della faglia (Fig.4). In seguito a questa serie micidiale di disaccoppiamenti sismici, l’intero blocco anatolico-egeo è riuscito a spostarsi verso ovest di alcuni metri rispetto alle strutture europee, implicando una velocità di migrazione notevolmente superiore rispetto a quella solita.
Questo repentino ed esteso spostamento dell’intero blocco anatolico-egeo ha prodotto una notevole accelerazione della compressione, orientata circa Est-Ovest, nelle zone africano-adriatiche che sono direttamente sollecitate da questa spinta, cioè la zona ionica, la Calabria e il blocco ibleo (Figg. 1 e 2). La convergenza tra il blocco anatolico-egeo e la zona ionica meridionale è stata assorbita in modo relativamente semplice lungo la fossa ellenica, dove la litosfera ionica (sottile e pesante) si è immersa senza incontrare forti resistenze sotto il blocco egeo (Fig.1). Il meccanismo di raccorciamento tettonico è stato invece molto più faticoso e complesso nella zona situata a nord della faglia di Cefalonia, in quanto la spessa e leggera litosfera che caratterizza la placca continentale adriatica ha incontrato una resistenza molto più elevata (per ragioni di galleggiamento isostatico) a sottoscorrere le Ellenidi settentrionali. Quindi, per assorbire il raccorciamento imposto dall’avanzamento del blocco anatolico-egeo, la litosfera adriatica ha dovuto ispessirsi e sollevarsi. Questa specie di rigonfiamento ha accentuato la resistenza allo spostamento laterale del blocco calabro, e quindi alla possibile attivazione delle faglie presenti in tale struttura. Questa interpretazione potrebbe spiegare perchè dalla metà del secolo scorso la sismicità in Calabria è fortemente calata. Per lo stesso motivo, è calata anche l’attività sismica nella zona delle Ellenidi settentrionali (dalla faglia di Cefalonia all’Albania), che è strettamente collegata con la sismicità della Calabria, come descritto in un precedente articolo.
Siccome, invece, l’ispessimento della zona adriatica meridionale non crea ostacoli al movimento verso nord del blocco ibleo, si potrebbe supporre che la situazione attuale possa favorire uno spostamento relativo tra il settore calabro (ora pressoché bloccato) e il blocco ibleo (più libero di muoversi), aumentando la probabilità di terremoti nelle faglie di disaccoppiamento tra i due blocchi (Vulcano, Messina, costa catanese).
Il periodo di ridotta attività tettonica e relativa calma sismica che sta attualmente vivendo la Calabria potrebbe estendersi nel tempo per un intervallo di difficile valutazione. Sarà l’andamento della sismicità nella zona ellenica settentrionale a rivelarci quando le condizioni tettoniche in Calabria potrebbero subire importanti variazioni. A questo riguardo, va tenuto presente che nei mesi passati la sismicità nella zona delle Ellenidi settentrionali, già riconosciuta come possibile fenomeno precursore dei forti terremoti in Calabria, ha dato qualche segnale di risveglio (con terremoti di magnitudo compresa tra 5.5 e 6.3). Questo suggerisce la necessità di tenere la situazione sotto controllo, rilevando per esempio eventuali accelerazioni dell’attività sismica nelle Ellenidi settentrionali e analizzando il campo di spostamento e deformazione nelle zone italiane determinato mediante osservazioni geodetiche.
Dunque pare proprio che l’unica possibilità di ottenere informazioni plausibili sugli sviluppi futuri dell’attività sismica possa derivare dallo studio del contesto sismotettonico attuale e recente. Anche se questa procedura non permette di ottenere informazioni attendibili su quando le prossime scosse forti potranno verificarsi, può comunque aiutare a riconoscere le zone più esposte alle prossime scosse forti, dove si potrebbero concentrare le poche risorse disponibili nel breve termine per interventi di prevenzione.
Questo tipo di analisi, svolto recentemente nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dalla Protezione Civile, indica che al momento attuale la zona della penisola italiana che risulta più esposta a scosse forti (M ? 5.5) è l’Appennino settentrionale (Viti et alii, 2014, Mantovani et alii, 2014), come indicato in fig. 5. Questa ipotesi è consistente con una evidenza importante, cioè il fatto che il numero totale delle scosse avvenute nella zona indicata durante l’ultimo anno è nettamente superiore a quello degli eventi che hanno interessato le altre zone sismiche italiane (Fig. 5).
E’ comunque opportuno chiarire che un’elevata attività sismica minore non può essere interpretata come un segnale di un terremoto imminente, perché attualmente non siamo in grado di valutare quanto tempo sarà necessario per portare ad un punto critico le faglie di questa zona, ma indica comunque che la zona in oggetto sta subendo una fase di intenso caricamento tettonico.
Questa consapevolezza non deve ovviamente portare ad inutili allarmismi per un evento che potrebbe avvenire in un futuro non ben determinato, ma può essere invece usata per sollecitare nelle zone interessate iniziative di prevenzione, come esercitazioni antisismiche, controlli dei piani di evacuazione ed emergenza nei comuni coinvolti, erogazione di incentivi per la messa in sicurezza di edifici pubblici e privati, ecc.: ovvero operazioni preventive che potrebbero consentire di salvare vite umane e ridurre i danni dell’eventuale sisma. Il fatto che la sismicità minore è attualmente elevata anche nella zona di separazione tra il blocco ibleo (Sicilia) e la Calabria, unito alle considerazioni fatte sopra, potrebbe suggerire un livello di attenzione particolare anche per tale zona.
Comunque, come messaggio finale di questa dissertazione vorrei ribadire che le varie notizie allarmistiche che sono state finora diffuse sulla possibilità di un imminente terremoto nell’Italia meridionale non hanno fondatezza scientifica. La possibilità che terremoti forti colpiscano questa zona in qualsiasi momento non si può certo escludere, ma non è attualmente possibile fare previsioni attendibili su quando un tale evento potrà verificarsi.
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