Il presepe partenopeo, prendendo spunto dai Vangeli è divenuto, pian piano, nel corso dei secoli, un’opera intimamente connessa alla vita della città, allontanandosi progressivamente dal presepe storico, ambientato nella Palestina dei tempi di Gesù, per improntarsi alla vita del popolo, abituato a vivere tra la miseria e la disperazione. Il presepe napoletano racchiude la sofferenza di Cristo che nasce povero, raccogliendo la speranza del popolo, povero come Lui ma anche fiducioso, che aspetta e spera la Redenzione.
Il presepe napoletano rappresenta anche la contrapposizione tra il materiale e il Divino, in quanto tutti i suoi personaggi vogliono fare la comparsa come se stessero in un grande teatro, con tutte le loro contraddizioni e i loro limiti, accanto al Bambino, come per dire: “anch’io c’ero quel giorno in cui è nato il Salvatore”. Parlare del presepe napoletano, nell’ambito dell’arte presepistica italiana, è un po’ come parlare dei vini e della cucina francese in un contesto enologico-gastronomico mondiale. Il primo presepio a Napoli viene menzionato in un documento che parla di un presepe nella Chiesa di S. Maria del presepe nel 1025 mentre, secondo varie fonti, ad Amalfi esisteva già una cappella del presepe di casa dl’Alagni. Nel 1340, la regina Sancia d’Aragona, moglie di Roberto d’Angiò, regalò alle Clarisse un presepe per la loro nuova chiesa, di cui oggi è rimasta la statua della Madonna nel museo di San Martino. Altri esempi risalgono al 1478, con un presepe di Pietro e Giovanni Alemanno. di cui ci sono giunte 12 statue, e il presepe di marmo del 1475 di Antonio Rossellino, visibile a Sant’Anna dei Lombardi.
Nel XV si hanno i primi veri scultori di figure. Tra questi, i fratelli Giovanni e Pietro Alemanno che, nel 1470, crearono le sculture lignee per la rappresentazione della Natività. Nel 1507 il lombardo Pietro Belverte scolpì a Napoli 28 statue per i frati della Chiesa di San Domenico Maggiore e per la prima volta il presepe venne ambientato in una grotta di pietre vere, forse provenienti dalla Palestina, arricchito con una taverna. Fu probabilmente Domenico Impicciati, nel 1532, a realizzare per primo delle statuine in terracotta ad uso privato e uno dei personaggi prese il nome del committente, il nobile di Sorrento Mattia Mastrogiudice, della corte aragonese. Nel 1534 a Napoli arrivò San Gaetano da Thiene e si deve a lui la costruzione di un apprezzato presepe nell’Ospedale degli Incurabili. Il presepio barocco si costruisce, invece, grazie ai sacerdoti scolopi, nel primo ventennio del Seicento, con le statuine sostituite da manichini snodabili di legno, rivestiti di stoffe o di abiti. I primi erano a grandezza umana per poi ridursi attorno ai 60 cm.
Furono gli scolopi a realizzare alla Duchessa il presepio più famoso, nel 1627. La Chiesa degli scolopi lo smontava ogni anno, rimontandolo al Natale successivo e, dato che fino ad allora i presepi erano fissi, questo rappresentò un’innovazione. Nel 1640, grazie a Michele Perrone, i manichini, pur conservando testa ed arti in legno, furono realizzati con un’anima in filo di ferro rivestito di stoppa per conferire alle statue pose più plastiche. Ma fu dalla fine del Seicento in poi che il presepio napoletano acquisì la sua tipica teatralità, mescolando sacro e profano per rappresentare, in ogni arte, la quotidianità che animava piazzette, vie e vicoli. Apparvero i nani, le donne con il gozzo, i pezzenti, i ciabattini, gli uomini e i derelitti tra cui Gesù nasce. Il presepe napoletano appariva, allora, come uno squarcio della Napoli del 700’, con i costumi, le attività, i volti di quell’epoca. Ad uno sguardo più attento, invece, si potevano individuare gruppi ben definiti: i protagonisti dell’Annuncio, poveri pastori raggiunti dal messaggio divino della nascita del Redentore (il pastore che soffia il fuoco, quello con la caprettina in mano, il pastore che dorme, il pastore della meraviglia e quello dell’adorazione, lo zampognaro che suona e quello delle offerte). Accanto ai pastori, il Mondo; per cui ecco comparire gli esotici Re Magi in cammino per rendere omaggio al Redentore. Essi, di diverse razze ed età, portano diversi simbolici doni al Bambino.
Il loro corteo si compone di servi, donne, palafrenieri, cavalli, cammelli ed elefanti, in cui riecheggia il ricordo dell’epica visita degli ambasciatori tunisini a Napoli agli inizi del 600’, immortalati anche dai pennelli del Bonito. Poco più in là, il Diversorium, l’albergo , sino ai banchi in cui sono messi in bella mostra formaggi e latticini di tutti i tipi, tante varietà di pane, le freselle, i casatielli, i fiaschi di vino d’Ischia e Grieco, i tortani, gli agnelli squartati e pelati, i quarti di maiale e di bue. Proseguendo, le anatre uccise e appese, il castrato, i conigli, le frattaglie, il pesce, gli arancini, gli struffoli, i cavolfiori, l’uva bianca, l’uva nera. Tutto questo ben di Dio, era esposto sotto gli occhi di massaie, zingare che leggevano le mani tra i banchi, giocatori di carte e di dadi, avventori della taverna e cortei di cani, gatti, colombi, ma anche leoni, scimmiette e pavoni.
In questa vivacissima e colorata folla, il Praesepium, le rovine di un antico tempio, omaggio a Pompei e a Paestum appena ritrovate e al gusto per le antichità classiche che allora conquistava i ceti alti, ma anche il simbolo di un Paganesimo ormai in rovina. Fu Giuseppe Sanmartino, forse il più grande scultore napoletano del Settecento, abilissimo a plasmare figure in terracotta, a dare inizio ad una vera scuola di artisti del presepio. Goethe, ad esempio, descrive il presepe italiano nel suo Viaggio in Italia del 1787: « Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe <…> Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa <…>. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni. »