La possibilità di diventare madri dopo il cancro è un diritto ancora negato in Italia. Ogni anno circa 1.500 donne colpite da tumore chiedono ai medici di preservare la fertilità ma i farmaci anti-sterilità sono a totale carico delle pazienti, perché non rientrano tra quelli prescrivibili per questo specifico scopo, nonostante numerosi studi scientifici abbiano dimostrato la loro sicurezza ed efficacia. È necessario un intervento normativo urgente, come evidenziato dalle associazioni dei pazienti (FAVO – Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia, ANDOS – Associazione Nazionale Donne Operate al Seno, AIMaC – Associazione Italiana Malati di Cancro, Salute Donna). L’appello è contenuto nel documento inviato al Ministero della Salute e alla Conferenza Stato-Regioni e presentato al Convegno “Prevenire la sterilità e conservare la fertilità nelle donne malate di cancro”, che si svolge oggi al Senato (Palazzo Giustiniani). “Ogni anno – spiega l’avv. Elisabetta Iannelli, segretario FAVO – 5.000 donne nel nostro Paese devono confrontarsi con un tumore quando ancora potrebbero diventare madri. Per le giovani donne colpite da tumore è fondamentale poter conservare la fertilità per poter aver una chance di maternità dopo le cure oncologiche, che in molti casi mettono a rischio la capacità riproduttiva. Quali sono le risposte del Sistema Sanitario Nazionale? Purtroppo ancora insufficienti. Il costo dei farmaci è a completo carico delle pazienti, i percorsi clinico assistenziali non sono stati ancora definiti, manca del tutto un osservatorio nazionale che si occupi del problema”. Il cancro del seno e i linfomi sono le neoplasie più frequenti nelle donne giovani. Rappresentano il 60% di tutti i tumori nelle under 40 e vengono trattati nella maggior parte dei casi con chemioterapia potenzialmente tossica per la funzione ovarica. “Dai dati della letteratura si evince che tra le 3000 giovani donne italiane a rischio di infertilità a causa della malattia, circa la metà è interessata a preservare la propria fertilità – sottolineano la prof.ssa Lucia Del Mastro, membro del Consiglio Direttivo Nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), e il dott. Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di Fertilità e Procreazione dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) -. Le tecniche consolidate per prevenire l’infertilità da chemioterapia sono la raccolta di ovociti prima dei trattamenti chemioterapici e la loro crioconservazione e l’utilizzo di farmaci (analoghi LHRH) che proteggono le ovaie durante i trattamenti. Queste tecniche possono entrambe essere applicate alla stessa paziente e hanno un tasso di successo relativamente elevato, con possibilità di gravidanza dopo la guarigione tra il 30 e il 50% a seconda dell’età della donna, dei trattamenti chemioterapici ricevuti e del numero di ovociti crioconservati. Studi eseguiti su centinaia di donne dimostrano che le pazienti trattate con analoghi LHRH durante la chemioterapia hanno un rischio ridotto della metà di rimanere sterili dopo il trattamento, rispetto alle pazienti che hanno ricevuto la sola chemioterapia. D’altra parte il congelamento di almeno 10 ovociti offre il 30% di probabilità di diventare madri”. Il costo complessivo per il trattamento farmacologico con LHRH delle donne che ne hanno effettivamente bisogno può essere stimato in 77.000 euro/anno per il Servizio sanitario nazionale. Se poi tutte le pazienti candidate alla preservazione della fertilità si sottoponessero alla crioconservazione degli ovociti, la spesa totale complessiva ammonterebbe a circa 1.500.000 euro. “Però – afferma la dott.ssa Giulia Scaravelli, Responsabile del Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita (Istituto Superiore di Sanità) – ancora troppe donne non vengono informate, è determinante la formazione degli operatori e la sorveglianza del fenomeno”.
Basterebbe poco per assicurare loro un futuro di maternità oltre la malattia. “Innanzitutto vanno modificate le due Note dell’Agenzia Italiana del Farmaco – continua Elisabetta Iannelli – riconoscendo l’indicazione ‘prevenzione dell’infertilità nelle pazienti oncologiche’ alle gonadotropine necessarie alla stimolazione e raccolta di ovociti (Nota 74) e agli analoghi LHRH che proteggono la funzione ovarica durante la chemioterapia (Nota 51). Sono trattamenti costosi per cui il medico è costretto, sotto sua responsabilità, a prescriverli attraverso un’interpretazione estensiva delle indicazioni, per evitare che siano pagati dalle pazienti. Una riscrittura delle due Note AIFA consentirebbe a queste pratiche terapeutiche diffuse ed efficaci di uscire dalla semi-clandestinità in cui sono mantenute”. “È necessario implementare percorsi dedicati per la prevenzione della infertilità nelle pazienti oncologiche in tutte le Regioni italiane con prestazioni riconosciute dal Sistema Sanitario Nazionale e attraverso strutture multidisciplinari (istituti oncologici, università, ospedali, strutture territoriali e centri di Procreazione Medicalmente Assistita), che diano vita ad una rete di centri di Oncofertilità in grado di rispondere tempestivamente (entro 24 ore) alle esigenze delle pazienti – sostiene il dott. Cristofaro De Stefano, direttore dell’Unità di Fisiopatologia della riproduzione e sterilità di coppia dell’Ospedale ‘San Giuseppe Moscati’ di Avellino -. Ridare ai malati la speranza di poter riprogettare l’esistenza ‘dopo il cancro’ è motivo di vita e recupero di energie anche ‘durante il cancro’.” Diversamente da quanto accade nell’uomo, nella donna l’utilizzo di alcune tecniche di crioconservazione è associato a un ritardo nell’inizio dei trattamenti antitumorali: da qui l’importanza di avviare le pazienti il più precocemente possibile agli esperti in questo campo. “La creazione di un network – continua Lucia Del Mastro – consentirebbe di definire percorsi dedicati e riconosciuti, oggi esistenti solo in alcune aziende ospedaliere, e di risolvere un altro importante problema, rappresentato dalla difficoltà delle giovani pazienti oncologiche ad accedere al counselling riproduttivo e ad eventuali successive tecniche di crioconservazione. Ad esempio, all’Ospedale San Martino di Genova è attivo un rapporto di collaborazione tra la struttura di oncologia e quella di medicina della riproduzione, per fornire alle giovani pazienti un percorso privilegiato di accesso al counselling riproduttivo e ridurre il più possibile il ritardo nell’inizio dei trattamenti antitumorali. Le donne, durante la prima visita oncologica, vengono informate dagli oncologi medici sui possibili rischi legati alle terapie anticancro, tra cui il rischio di tossicità gonadica e di infertilità, e vengono loro proposte le strategie disponibili per ridurre questa eventualità”.
“È il metodo che va cambiato – conclude il dott. Peccatori -. Istituzioni, medici e pazienti devono sedersi a un tavolo comune per definire le priorità sanitarie, valutandone evidenze scientifiche e sostenibilità. Nel caso in questione è in gioco un diritto sancito dalla costituzione, quello alla genitorialità. La richiesta delle giovani pazienti è chiara: lasciateci una speranza di maternità oltre il cancro, così come definito dalle più recenti ricerche scientifiche. La risposta delle Istituzioni dovrebbe essere altrettanto rapida e consequenziale. Il problema esiste, e la soluzione non può essere lasciata solo alla buona volontà dei singoli. Se vogliamo dare significato alla centralità della paziente nel percorso di cura, non possiamo dimenticare l’importanza della prevenzione della infertilità dovuta ai trattamenti oncologici”.