“Il test per la mutazione dei geni Brca1 e Brca2 nelle pazienti con cancro dell’ovaio è importante innanzitutto per poter dare la terapia migliore alla paziente”
A tutte le donne colpite da cancro del seno o dell’ovaio deve essere proposto il test per la ricerca delle mutazioni dei geni che moltiplicano il rischio di tumori femminili, quelli che hanno spinto l’attrice Angelina Jolie a sottoporsi a una mastectomia e alla rimozione di tube e ovaie per non ammalarsi, come era accaduto alla madre. L’indicazione del test genetico per tutte le pazienti arriva da due oncologhe italiane, Nicoletta Colombo, direttore della Divisione di ginecologia oncologica medica dell’Ieo di Milano, e Grazia Arpino, ricercatrice all’università Federico II di Napoli, dal 51.esimo congresso della Società americana di oncologia clinica (Asco) a Chicago, dove hanno presentato i nuovi passi avanti terapeutici contro i tumori femminili. “Il test per la mutazione dei geni Brca1 e Brca2 nelle pazienti con cancro dell’ovaio – sottolinea Colombo, esperta di questa neoplasia – è importante innanzitutto per poter dare la terapia migliore alla paziente. Ma anche per allargare l’analisi, se il risultato è positivo, alla famiglia (valutare poi la familiarità del rischio allargando l’analisi se il risultato è positivo) e fare così davvero prevenzione per una neoplasia che attualmente è impossibile prevenire. Il 70-80% delle diagnosi, purtroppo, arriva ancora in fase avanzata”. Le mutazioni ‘incriminate’ sono presenti nel 20-25% di questi tumori. Fare prevenzione, conoscendo la familiarità del rischio, “significa prendere la pillola contraccettiva per le più giovani, che riduce nel 50% dei casi le probabilità di ammalarsi, oppure fare una scelta estrema, ma efficace: togliere le tube e poi le ovaie”. Come ha fatto l’attrice hollywoodiana, che con la sua testimonianza ha diviso l’opinione pubblica e soprattutto i medici, ma forse ha fatto riflettere le donne. Fare il test per la mutazione dei geni Brca1 e Brca2, dunque, è tutt’altro che un capriccio dovuto all”effetto Jolie’. Andrebbe fatto a tutte le donne con cancro dell’ovaio o anche del seno, affermano Colombo e Arpino. Ma non lo si fa, non in tutt’Italia almeno. “Al momento il test non e’ rimborsabile ovunque – spiegano – i criteri sono diversi a seconda delle Regioni e mancano le strutture accreditate dal Ssn per farlo. Eppure, con le tecnologie attuali, il costo del test non supera i 500 euro”. Intanto, la ricerca prova a centrare il traguardo della diagnosi precoce anche per l’ovaio: “Stiamo lavorando – racconta Colombo – sui microRna rilasciati dall’organismo come reazione al tumore, sono dei marcatori precocissimi della sua presenza”. Anche contro il cancro del seno Her2 positivo – una delle forme più aggressive prime dell’arrivo delle terapie mirate – la combinazione di farmaci si dimostra una strada vincente. Al congresso dell’Asco sono stati presentati i dati di uno studio di fase 2, ‘NeoSphere’, che evidenziano l’efficia dell’aggiunta dell’anticorpo monoclonale pertuzumab alla terapia ‘classica’ basata su trastuzumab e chemioterapia prima dell’intervento, in pazienti con tumore scoperto in fase precoce. Il mix non aumenta gli effetti collaterali. “Questa combinazione terapeutica – spiega Arpino – riduce di circa il 40% la probabilità di avere metastasi a distanza o di morire per tumore mammario a tre anni dalla diagnosi e dalla terapia neoadiuvante. Lo studio, inoltre, sembra confermare che la scomparsa completa del tumore dopo chemioterapia neoadiuvante possa essere predittiva di un beneficio a lungo termine. In pratica, le pazienti hanno buone probabilità di non ammalarsi più se ricevono da subito il giusto trattamento. Cambia la storia naturale di questo tumore, che era fra i più aggressivi: sono risultati importanti – sottolinea – che rappresentano un ulteriore passo verso la cura definitiva del carcinoma mammario”. Pertuzumab, già utilizzato contro il cancro del seno in fase metastatica, potrebbe ricevere a breve il via libera accelerato dell’agenzia Usa Fda con quest’indicazione, e la Roche ha sottoposto la richiesta anche all’omologa europea Ema. Progressi anche contro l’altro temuto tumore femminile, quello all’ovaio, il più grave tra le neoplasie ginecologiche. Nel mondo sono oltre 250 mila le donne colpite ogni anno, in Italia si contano 5.911 nuovi casi l’anno. Secondo i dati dello studio italiano ‘Mito-Mango’, l’aggiunta del farmaco anti-angiongenico bevacizumab alla chemio prima dell’intervento chirurgico in pazienti che non potevano essere subito operate, “ha ridotto il tumore a meno di 1 cm – spiega Colombo – e l’82% e’ riuscito ad avere un intervento di successo”. Sempre per il cancro dell’ovaio, sono stati presentati all’Asco i risultati dell’analisi di uno studio (Iconn7), già condotto su 1.528 donne con questo carcinoma. L’associazione di bevacizumab con la chemioterapia si è dimostrata efficace nel ridurre il rischio di progressione della malattia indipendentemente dallo stadio e dal risultato chirurgico. “Se prima si riteneva che l’anticorpo funzionasse solo per le pazienti con tumore residuo consistente dopo l’operazione, e questo era uno dei criteri di selezione per la somministrazione del farmaco, secondo questi nuovi dati la riduzione del rischio di progressione è pari al 23% nelle donne in cui rimangono residui impercettibili della neoplasia dopo l’intervento”, prosegue Colombo. Bevacizumab, farmaco antinangiogenico che ‘affama’ il tumore bloccando la formazione di nuovi vasi sanguigni, è stato testato in aggiunta alla chemio anche per il cancro dell’endometrio: “L’aggiunta ha consentito di ottenere un miglioramento di 5 mesi nella sopravvivenza libera da progressione di malattia, rispetto alla sola chemio. Un risultato importante in un tumore complesso da trattare se non diagnosticato in fase precoce e per il quale da tempo non si avevano nuove terapie”, conclude l’oncologa.