Salute: verso la pillola anti-obesità dalla cannabis e la vitamina A

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I ricercatori hanno usato cellule del pesce zebra e umane per testare l’effetto di riduzione del deposito di grassi del sistema endocannabinoide e l’acido retinoico, componente attivo della vitamina A

Ottenere una pillola contro l’obesita’ combinando sostanze estratte dalla marijuana e dalla vitamina A: e’ il progetto al quale lavorano medici dell’australiana Deakin University, descritto sulla rivista Endocrinology. “I risultati dello studio mostrano per la prima volta che particolari composti nella cannabis e nella vitamina A possono agire insieme per ridurre il deposito di lipidi”, scrive il responsabile della ricerca, Yann Gibert, capo del Metabolic Genetic Research Laboratory dell’ateneo. “La scoperta apre promettenti opportunita’ per trattare l’obesita’ senza dover ricorrere a chirurgia invasiva”, aggiunge. I ricercatori hanno usato cellule del pesce zebra e umane per testare l’effetto di riduzione del deposito di grassi, del sistema endocannabinoide – un composto attivo della cannabis che svolge un ruolo nel regolare l’appetito e la formazione di grassi – e l’acido retinoico, componente attivo della vitamina A. “Le azioni complementari dei due composti nel ridurre i depositi di grasso hanno il potenziale di trattare l’obesita’ in maniera piu’ sicura e piu’ efficace che se fossero usati separatamente””, riferisce Gibert. “Questo approccio si concentra solo sul grasso senza effetti sul cervello, evitando le preoccupazioni di ricerche precedenti che coinvolgevano la cannabis”. E’ ben noto che il sistema della cannabis regola l’appetito, ma finora gli effetti avversi hanno impedito il suo uso per fini medici. La nuova ricerca ha trovato una maniera di evitare tali effetti collaterali usando i due sistemi in combinazione, e in dosi piu’ basse. Lo studio ha dimostrato che i due percorsi operano insieme durante l’accumulo di grassi, ma non e’ ancora chiaro come questo avvenga, ammette lo studioso. La prossima fase, aggiunge, sara’ di sperimentare ulteriormente l’efficacia del farmaco e identificare possibili effetti collaterali. “Se non vi saranno effetti indesiderati, nuove terapie potranno essere pronte per uso umano entro cinque anni”, dichiara.

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