E’ il risultato di una sperimentazione dell’università americana di Harvard, che ha messo a punto un meccanismo in grado di produrre una speciale ‘colla’ da applicare sul cuore
Riparare il cuore senza aprire il petto del paziente, ma applicando un ‘cerotto’ che viene riassorbito quando il tessuto è ricresciuto. E’ il risultato di una sperimentazione dell’università americana di Harvard, che ha messo a punto un meccanismo in grado di produrre una speciale ‘colla’ da applicare sull’organo. Attraverso una piccola incisione, è così possibile intervenire sui minuscoli traumi del tessuto grazie a un adesivo biodegradabile sviluppato lo scorso anno. La colla solidifica rapidamente se esposta a raggi ultravioletti ed è stata usata per riparare tessuti su maiali e ratti. Lo strumento che permette tutto questo – descrive il ‘New Scientist’ – è composto da due palloncini che mantengono la giusta posizione grazie alla pressione. Un cavo di fibra ottica illumina con raggi Uv un cono, che riflette sul cerotto di materiale biodegradabile, solidificando la colla. Il tessuto si risana a poco a poco, man mano che assorbe la sostanza. Il gruppo di ricerca ha dimostrato che la tecnica funziona anche nello stomaco e nell’addome negli animali. In un maiale i ricercatori hanno utilizzato la colla per chiudere un buco tra il ventricolo sinistro e quello destro a cuore battente. Si tratta di un intervento che di solito avviene a cuore aperto, mentre raramente si riesce a intervenire con un catetere e una piccola incisione. Tuttavia, in quest’ultimo caso, si utilizza un dispositivo metallico che rimarrà sempre dentro al corpo del paziente e potrà corrodere i tessuti o interferire con i segnali elettrici del cuore. Un cerotto che permetta agli organi di crescere per poi scomparire avrebbe invece vantaggi notevoli, fanno notare gli autori dello studio, pubblicato su ‘Science Translational Medicine’. La sostanza può essere ‘tagliata’ su misura, è elastica e si muove con il tessuto, provocando meno traumi. “Potrebbe ampliare il range di pazienti che possono ricevere questo tipo di terapia”, sostiene Ellen Roche, alla guida del gruppo di ricerca statunitense.